CINQUANT’ANNI FA LA CITTA’ GIULIANA TORNAVA ALL’ITALIA TRIESTE

di Mario Cervi
L'Unione che divise

Il Giornale 05/10/04

Dopo l'entusiasmo dei primi giorni il Paese dimenticò presto i problemi irrisolti dei confini orientali Tra il memorandum di Londra e l'entrata dei bersaglieri in città si consumò un dramma nazionale. Il compromesso uccideva infatti le speranze degli istriani della zona B di rimanere italiani Tra il 5 ottobre del 1954 – quando fu firmato a Londra l'accordo per il ritomo di Trieste all'Italia – e il 26 successivo – quando le truppe italiane entrarono nella città – si svolse ['ultimo atto d'un angoscioso dramma nazionale. Dramma senza lieto fine, anche se il ritomo dei soldati con il tricolore fu festeggiato da una folla in delirio. Il compromesso, sancito dal "Memorandum d'intesa", cui allora si arrivò – le zone A e B del cosiddetto territorio libero di Trieste rimanevano rispettivamente in mani italiane e in mani jugoslave, senza che formalmente ne fosse pregiudicata la sorte – sanciva lo stato di fatto. In realtà il "Memorandum" suonava a morto per le speranze degli italiani residenti nella zona B, ultimo brandello dell 'Istria perduta, di poter restare nelle loro case restando italiani.

Ventuno anni dopo il trattato di Osimo, da tanti giuliani ripudiato, passò lo spolverino diplomatico su una situazione già consolidata. La zona B passava in piena sovranità alla Jugoslavia: dissolta la quale è passata alla Slovenia.

Città di confine bellissima, appartata, malinconica, città gonfia di nostalgie, di rimpianti per un passato irrecuperabile, e di rimproveri per un Paese dal quale si sente dimenticata, Trieste figura oggi abbastanza raramente nelle cronache. Ma negli ultimi anni Quaranta o nei primi anni Cinquanta per noi giornalisti era una meta frequente. Le manifestazioni contro il comando angloamericano accusato – non sempre a torto -di tollerare con eccessiva benevolenza le assumere connotazioni violente: gli scontri divenivano sanguinosi. Trieste ribolliva di passioni e di emozioni, chi si immergeva in quell'atmosfera ne era contagiato. C'era nel- l'aria una vibrazione di entusiasmo e di ribellione insieme, si faticava a tenersene distaccati. Ricordo i saggi ammonimenti che da Milano l'onnipotente redattore capo del Corriere della Sera Michele Mottola mi rivolgeva al telefono: "Pacato, pacato…".

Fra Trieste e il Paese, soprattutto fra Trieste e la Roma politica, s'era creata una frattura non tanto di idee quanto di sentimenti. Intendiamoci, dalla capitale si riversavano sulla Venezia Giulia espressioni di solidarietà e di incondizionato appoggio. Ma apparivano poco convinte.

Avendo vissuto l'incubo dell'occupazione dei miliziani di Tito -dopo la sconfitta tedesca, e prima che il generale neozelandese Freyberg sostituisse le sue forze a quelle del maresciallo – Trieste era in apprensione per se stessa e ancor più l'usurpata e oltraggiata zona B. Un cruccio s'era aggiunto agli altri della città giuliana dopo la rottura tra Tito e Stalin: agli occhi dei democratici europei – e purtroppo anche della diplomazia italiana – il maresciallo non era più il portatore d'una ideologia e d'un regime tirannico: era l'eretico che aveva litigato con il despota di Mosca nel nome dell'autonomia jugoslava. S'era dunque redento.

Il calvario giuliano era stato percorso quasi per intero mentre l'Italia era governata da Alcide De Gasperi: un indimenticabile, onesto statista che non aveva potuto ottenere ciò che era impossibile ottenere – ossia che l'Italia fosse considerata vìncitrice e non sconfitta – ma che parecchi triestini ritenevano troppo cauto, troppo preoccupato di salvaguardare l'Alto Adige negoziando con un interlocutore – il ministro degli Esteri austriaco Gruber – di sicuro meno irsuto di Tito: al quale era andato, prima che si scontrasse con Mosca, l'appoggio del partito comunista di Trieste, animato – pur tra perplessità individuali – da un palese patriottismo jugoslavo.

Nei riguardi degli angloamericani i nazionalisti triestini – il che significa, nella prospettiva dell'epoca, la maggioranza dei triestini – avevano un atteggiamento contrad-dittorio. Sapevano che la presenza di quelle truppe era stata provvidenziale per bloccare l'avanzata d'una soldataglia con la stella rossa che con le foibe aveva dato dimostrazione della sua ferocia; ma non sopportavano più gli stranieri. Perché volevano le truppe italiane, e perché imputavano a debolezze e cedimenti alleati la perdita di città giuliane la cui italianità non poteva essere messa in discussione. Gli estremisti di questa tesi accomunavano nella loro deplorazione gli alleati e De Gasperi, i primi per avere imposto il diktat delle frontiere, il secondo per averlo accettato (il curatore d'un fallimento da imputare al fascismo ne diventava cosi il responsabile).

La fosca eroina di questa ribellione alla perdita della Venezia Giulia per effetto del trattato di pace fu Maria Pasquinelli, una maestra ventiquattrenne di fanatica fede fascista che il 10 febbraio 1947 uccise il generale inglese Robin De Wilton, comandante della piazza di Pola. Aveva con sé, quando fu arrestata, questa dichiarazione che motivava il suo gesto: "Mi ribello, con il proposito fermo di colpire chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d'Italia". Dopo una lunga detenzione Maria Pasquinelli è tornata nella sua città, Bergamo.

Nel momento in cui Trieste fu restituita all'Italia le passioni rimanevano, ma un po' attenuate. L'Italia stava vivendo il "miracolo economico", la gente aveva una gran voglia di considerare chiusa la questione giuliana e di pensare ad altro. Scomparso Alcide De Gasperi due mesi prima che Trieste ridiventasse italiana, l'onore di celebrare l'avvenimento toccò, oltre che al presidente della Repubblica Einaudi, a chi di De Gasperi era stato il più stretto collaboratore, Mario Scelba, presidente del Consiglio.

Ministro degli Esteri era Gaetano Martino, ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani. La commozione per una terribile frana che nel Salernitano aveva fatto molti morti sloggiò dalle prime pagine dei quotidiani, tra fine ottobre e i primi di novembre del '54, la questione triestina.