TRIESTE 1945/’54

di Toni Capuozzo
Nove anni di Governo Militare Alleato, e oggi è l'unica città che festeggia i reduci dall'Iraq

Il Foglio 22/10/04

C'è una fotografia, in bianco e nero, che ha il potere di scavalcare gli anni. Ritrae un militare americano, a Trieste. E' un Natale dell'inizio degli anni Cinquanta. Il militare tiene il braccio, paterno, sulla spalla di una bambina imbarazzata, che stringe in mano un pacchetto ancora da svolgere, e sotto braccio una confezione di dolciumi di cui si indovina la marca: Nestlè

Dietro a lei, altri bambini, con l'aria più disinvolta, attendono il loro turno, nella consegna dei pacchi dono. Due donne sorridono loro, e sono evidentemente americane, lo si intuisce dal golfino a maniche corte dell'una, e dagli occhiali, che hanno la forma di un sorriso, dell'altra. E' un Natale da dopoguerra, nella Trieste del Governo Militare Alleato, bambini italiani profughi e orfani, o entrambe le cose contemporaneamente, oppure solo indigenti, e occupatori americani. Sul braccio del militare un distintivo del reparto: una testa di cavallo su un campo oro attraversato da una banda nera, una divisione di cavalleria

Per nove anni, in realtà, Trieste visse come in una capsula del tempo, mentre l'Italia andava per conto suo. Era la cosiddetta zona A, che insieme con la zona B congelò la fine della guerra, e le pretese jugoslave e italiane sui territori di confine, e sulla linea di confine da stabilire a scapito del mondo libero occidentale o delle ultime propaggini del blocco socialista, ancora compatto. Tutto, in quegli anni, fu una storia a parte, resa più estrema e più complessa: il fascismo fu più duro che altrove, lo sterminio degli ebrei contò su una macchina di morte funzionante in loco, la Risiera, la resistenza ai nazisti fu la resistenza di un litorale annesso, il comunismo fu più internazionalista, la liberazione fu un dramma, perché le bande partigiane titine batterono sul tempo l'arrivo degli alleati, e con loro arrivò il dramma delle foibe, quaranta giorni di terrore, in cui migliaia pagarono la sola colpa di essere italiani. Il Governo Militare Alleato congelò tutto, e governò un angolo d'Italia incerto sul suo destino

Non fu una storia facile, e il ruolo dei cattivi lo assunsero gli inglesi. Furono loro a scontrarsi con la popolazione, in piazza nel novembre del 1953. Gli americani furono un'altra cosa, nella quale è difficile distinguere tra la forza di una politica – il piano Marshall, ovviamente, ma anche i modelli amministrativi – e la forza di un mito: la Coca Cola, le sigarette bionde, il nuovo che le stelle e strisce portano in una città asburgica, risorgimentale, levantina, ebrea, slava, irredentista, letteraria e proletaria, delicata come un mosaico di trecentomila abitanti sul quale soffia, come una bora sconosciuta, la grossolanità invincibile del sogno americano, incarnata da diecimila militari, e dalla loro occupazione, in un piccolo Stato cuscinetto riconosciuto dalle Nazioni Unite, e vissuto dai trecentomila come un lungo limbo di attesa: matrimoni misti, squadrette di baseball, orchestrine jazz, donne poliziotto, la Radio Trieste con il suo direttore Jacobson, cinema tridimensionale, festa del Thanksgiving e visite ufficiali: il senatore John Fitzgerald Kennedy, oppure Louis Armstrong

Adeso che xe partì el batel Non è una città di guarnigione, e neppure una storia di segnorine, anche se i bordelli fioriscono e se la miseria farà cantare una canzone popolare, alla partenza degli americani: "Adeso che xe partì el batel, no posible fumare più Camel". E' la storia di un ingresso ritardato nel dopoguerra, e di un ingresso anticipato nell'occidente, di una fuga ante litteram dalle democrazie popolari

Una storia a parte, non conclusa il 26 ottobre del 1954, in una piazza Unità strabocchevole di gente che accoglie i bersaglieri d'Italia. Giorni di cinquant'anni fa, che Trieste si prepara a ricordare come una figlia non riamata, abituata all'oblio di genitori distratti, con sentimenti ingenui verso cose semplici e parole desuete: patria, tricolore, e le altre parole che abbiamo buttato via, per buttare via la mala pianta del nazionalismo, bambino e acqua sporca, tutto alle ortiche. Poi, cinquant'anni di solitudine, di una storia che continua a essere una storia a parte

Sarà un caso che a Trieste hanno fatto festa, come ai vecchi tempi, ai militari di ritorno dall'Iraq? O sarà solo che qualcuno ha riconosciuto, nelle infuocate immagini che giungono da Baghdad, su una manica di militare americano, la stessa testa di cavallo su campo oro e banda nera, la stessa divisione di cavalleria ?

Toni Capuozzo