LE RESPONSABILITA’ POLITICHE
Per non inimicarsi la Jugoslavia che, all’epoca, in piena guerra fredda, faceva parte dei “Paesi non allineati, gli americani, così come i loro alleati non indagarono su ciò che gli Jugoslavi avevano compiuto durante la guerra, né pubblicizzarono quanto gli stessi continuarono a compiere nei periodi immediatamente successivi alla sua conclusione.
La necessità di utilizzare la Jugoslavia come “paese cuscinetto” tra i due blocchi, per contrastare l’egemonia sovietica nei Balcani, fondamentale per gli Alleati, portò a scelte molto difficili che migliaia di italiani pagarono sulla loro pelle.
Anche a “giochi finiti” non vi fu mai alcuna ammissione esplicita ed ufficiale di quanto “avallarono”. Sarebbe stato infatti estremamente difficile riuscire a spiegare all’opinione pubblica mondiale per quale motivo gli Alleati, pur sapendo della pulizia etnica in corso nella Venezia Giulia, non intervennero per scongiurare o comunque mettere fine a quella tremenda carneficina.
Ma non solo. Gli Alleati consegnarono al Maresciallo Tito, così come fecero con Stalin per coloro che fuggivano dai russi stessi, decine di migliaia di profughi, civili e militari, segnandone il tragico destino. Questi ultimi infatti, riusciti con enormi difficoltà a passare il confine sfuggendo alle persecuzioni comuniste, vennero barbaramente massacrati e costituirono l’ennesimo tributo degli anglo americani a Tito e Stalin.
Anche i vari governi italiani del dopoguerra preferirono mettere a tacere questi fatti per non doversi confrontare su alcune imbarazzanti questioni legate ai debiti di guerra nei confronti dei privati. I beni espropriati agli abitanti delle zone interessate dall’esodo del dopoguerra non furono risarciti equamente, ma con avvilenti elemosine. Riprendere la questione avrebbe significato indennizzi definitivi agli esuli con fondi sottratti alla ricostruzione dell’Italia devastata dalla guerra; si preferì, quindi, accantonare il problema insabbiandolo.
Le responsabilità del Partito Comunista Italiano
Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l’idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all’evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all’opinione pubblica.
Studiando attentamente la documentazione e le informazioni sulla storia giuliana che stanno via via venendo alla luce, appare logica ed evidente la conclusione che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito.
Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l’altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall’altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia. Questa sudditanza, infatti, favorì l’occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all’annessione slava.
Indicativi la vicenda della strage di Porzus ed i numerosi casi di “delazioni utili” all’eliminazione di coloro che si opponevano al monopolio di Tito sul movimento partigiano.
Significativa anche la lettera scritta dal vicepresidente dei Ministri Palmiro Togliatti il 7 febbraio 1945 al Presidente Ivanoe Bonomi, con la quale il leader comunista minacciò 25 persino la guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, impedendo così l’occupazione e l’annessione jugoslava.
Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita il C.L.N.A.I. a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell’esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera… è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili.
Quanto alla nostra situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da dare è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti.
Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse.
…credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l’azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto. (58)
L’atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, in linea con la posizione dei compagni slavi, fu di condanna totale e coloro che fuggirono dal comunismo vennero additati come fascisti.
Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.(59)
L’ostilità del partito si manifestò anche con atti di perfidia.
Famosa in tal senso fu la manifestazione di ostilità dei ferrovieri di Bologna, i quali, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza.
I “comitati d’accoglienza” organizzati dal partito contro i profughi all’arrivo in Patria furono numerosi. All’arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali.
A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell’aprile 1948 arrivò ad affermare “in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani“.
Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali.
Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l’assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. (60)
L’unica piccola concessione che venne fatta dal quotidiano fu il riconoscimento che, in effetti, tra coloro che fuggirono vi potessero essere anche persone non criminali, terrorizzate, però, non tanto dagli orrori subiti o di cui furono spettatori, bensì “da fantasmi”.
Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte.
È doveroso precisare che i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità. Al contrario si distinsero per la laboriosità e per il rispetto delle leggi.
Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l’intera esistenza, ma la vita stessa.
L’atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai “compagni slavi” del PCI è proseguito nell’immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.
Il dibattito sulla faziosità dei libri di testo
Il dibattito sui libri di testo faziosi ebbe inizio solo nel febbraio del 1997 quando, in occasione del cinquantenario del Trattato di Pace, il ”Comitato per il diritto alla verità storica” promosso da Marcello De Angelis61 e da Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, organizzò a Roma, insieme a numerose organizzazioni di esuli, un sit-in ”per denunciare la vergognosa latitanza dello Stato italiano nella difesa e nella memoria delle terre perdute”, citando esplicitamente l’esempio delle foibe.
In quell’occasione emerse che nei principali manuali di storia in uso presso i licei non si faceva menzione “della più grande tragedia che ha colpito il nostro popolo in questo secolo: il genocidio subito dagli italiani della Venezia Giulia ad opera dei partigiani comunisti slavi”.
Gli esponenti di “Area” citarono alcuni dei più diffusi manuali di storia e sostennero che la mancanza di notizie sulle foibe era una chiara dimostrazione che ”sono scritti da storici faziosi o incompetenti ”.(62) Una petizione per la messa al bando dalle scuole dei testi in questione, inoltre, alla quale avevano aderito in molti, venne inviata al ministro Luigi Berlinguer.
Contro le iniziative di Alleanza Nazionale, che dalla Regione Lazio si estendevano un po’ in tutte le regioni, furono sottoscritti anche numerosi appelli.
“Giustizia e libertà” raccolse migliaia di firme con un appello (riportato di seguito) scritto da Umberto Eco e firmato anche da Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Alessandro Galante Garrone, Franzo Grande Stevens, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori, Umberto Veronesi.
I Garanti di “Libertà e Giustizia” assistono con viva preoccupazione alla proposta ventilata in commissione parlamentare di un controllo esercitato dal Ministero della Pubblica Istruzione sui manuali di storia per le Scuole. Rilevano che l’idea di un controllo governativo sulle idee espresse da libri di testo evoca stagioni evidentemente non ancora remote, in cui i regimi fascista, nazista e stalinista esercitavano tale diritto censorio, e giudicano l’idea indegna di un paese democratico. La responsabilità della stesura dei libri di testo compete agli editori e agli autori e la responsabilità della loro adozione compete agli insegnanti, alla cui oggettività e senso critico si delega il compito di giudicare se un testo sia valido, e in che misura possa essere eventualmente criticato e integrato in sede di lezione, addestrando così gli studenti non solo ad apprendere ma anche a giudicare le loro fonti di apprendimento. Questo è l’unico controllo che in un paese libero si può e si deve esercitare sui manuali scolastici. …si confida che la proposta rimanga semplicemente nel limbo delle cattive intenzioni. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare che il fatto stesso che qualcuno l’abbia ventilata suscita serie preoccupazioni sullo stato di salute del nostro sistema democratico. (www.cgilscuola.it).
Altri appelli per contrastare le “campagne contro i libri di testo faziosi” vennero sottoscritti anche da numerosi esponenti politici, sindacalisti, professori universitari, scrittori e associazioni.
Giorgio Spini, chiamato in causa dalla rivista ”Area”, che lo citò tra gli storici ”faziosi o incompetenti o tutte e due le cose insieme”, si difese parlando di ”sciocchezze che si condannano da sole” e di polemica ”messa su un piano inaccettabile e con un linguaggio che rivela la matrice nazista. E coi nazisti, che purtroppo esistono, non si discute”.
Per quel che riguarda il discorso storico sulle foibe, che, secondo Spini, i manuali comunque affrontano, egli invitò a (…) ricordarci di tutte le aggressioni e atrocità commesse dagli italiani nell’ultima guerra a cominciare da quelle seguite alla conquista fascista dei Balcani. L’atroce reazione, che nessuna persona civile può approvare, con infoibamento di italiani, spesso innocenti, venne appunto dopo che furono gli italiani a gettare nelle foibe in notevole quantità i balcanici.
Aggiungendo anche che, se dopo la guerra (…) ci fu in Italia tendenza a oscurare un po’ quegli avvenimenti, fu perché altrimenti avremmo dovuto consegnare come criminali di guerra gli italiani che lì si erano macchiati di orrendi delitti (63) Un’ammonizione chiara a chi volesse rivisitare la storia in quel modo.
Gabriele De Rosa, dopo aver messo in guardia l’opinione pubblica dal rischio dei “roghi”, si dichiarò disponibile ad un confronto sui temi proposti, ma non a rispondere ad una condanna di precisa provenienza politica e ideologica, assolutamente illegittima. Sostenne inoltre che, considerato che i manuali parlavano di quel periodo, per tornarci sopra con più chiarezza bisognava ricordarsi di farlo con una ricostruzione globale, che tenesse conto del prima e del dopo e quindi anche degli “orrori di quella guerra e del fascismo ”.
Rosario Villari dichiarò di aver dato conto sul suo manuale delle “modificazioni politico-territoriali provocate dalla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità risale primariamente al nazifascismo, e sulle tragiche conseguenze che esse hanno avuto in Italia e in altri paesi” e di averlo fatto nella misura e nei termini da lui ritenuti convenienti alla trattazione manualistica, sulla base delle informazioni tratte dalle opere storiche citate nella bibliografia.
Le prese di posizione dei politici
Il presidente della Camera Luciano Violante, in un confronto tenutosi presso il Teatro Verdi a Trieste il 14 marzo ’98 con il Presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sul tema “Democrazia e identità nazionale: riflessioni dal confine orientale”, affermò:
Pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l’esodo e l’esilio. Non so se nel resto d’Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui.
Qui c’è stato un dolore non condiviso dall’altra parte d’Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato.(64)
I presidente di Rifondazione Comunista Armando Cossutta replicò duramente alle dichiarazioni di Violante sostenendo che fosse (…)
una ignobile revisione della storia (…) Noi di Rifondazione siamo disposti a discutere dei crimini, delle violenze e delle tragedie di cui si sono macchiati i comunisti in tutto il mondo. Ma in Italia i fascisti hanno portato la guerra e ladittatura. Mentre, sempre qui, in Italia, i comunisti – ha chiesto polemicamente – di cosa dovrebbero vergognarsi? (65)
L’incontro di Trieste venne fortemente contestato da Rifondazione Comunista, anarchici e centri sociali, che lo definirono il “culmine di una campagna tendente a falsificare la storia con fini pacificatori”, un episodio del revisionismo storico congruo “alla necessità per Fini di incassare una definitiva legittimazione dopo Verona e al tentativo di Violante di strappare un consenso anche a destra in vista della corsa verso la presidenza della Repubblica“.
Una risposta alle dichiarazioni di Violante arrivò anche da ben 75 storiciitaliani, che espressero in merito un netto dissenso, sottolineando in un documento
“l‘infondatezza storica dell’argomentazione e l’inconsistenza delle richieste avanzate”.
(…)sarebbe tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, soltanto sui partigiani dell’esercito di liberazione jugoslavo. (…) Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza, ricade prima di tutto sul regime monarchico-fascista che resse l’Italia dal 1922 in poi. (…) Delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano, con la sua politica imperiale ed aggressiva. (…) Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione e suonano come un’offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto d’Europa. (…) Faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. (66)
(documento firmato, tra gli altri, da Aldo Agosti, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Gianni Oliva e Claudio Pavone)
Al documento replicò Violante: Consentitemi di esprimere il mio rincrescimento per la leggerezza con la quale un gruppo di autorevoli storici ha sottoscritto un documento contenente falsità facilmente verificabili.
Risulta evidente che se i toni ed i metodi utilizzati per denunciare la faziosità dei libri di testi e le numerose omissioni possono essere stati in alcuni casi discutibili, al contrario l’utilità ed i risultati positivi di tale azione sono chiaramente riscontrabili dando un’occhiata alle edizioni dei libri di testo pubblicate dopo al dibattito.