La vicenda dei cosiddetti “beni abbandonati” (più esattamente “beni rapinati”) sottratti dalla Jugoslavia agli italiani d’Istria, di Fiume e della Dalmazia e rapinati una seconda volta da Croazia e da Slovenia, ritorna periodicamente agli onori della cronaca. Il tutto senza alcun risultato concreto, almeno fino ad oggi, se non quello di creare progressiva confusione negli interessati. Proprio come contributo a ricordare l’iter di tale vicenda e a fare il punto sulla situazione, proponiamo un intervento su tale argomento del Presidente della Lega Nazionale e che verrà, prossimamente, pubblicato su un periodico nazionale.
Alla fine della seconda guerra mondiale decine e decine di migliaia di cittadini italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono vittime di una tipica operazione di “pulizia etnica”. Il neocostituito regime comunista Jugoslavo, guidato dal Maresciallo Tito, mise in atto il terrore e la violenza per costringerli a lasciare le proprie attività, le proprie terre, i propri morti e cercare rifugio in Italia. Fu l’inizio dell’Esodo di trecento e cinquanta mila italiani i quali, in qualche modo, si trovarono a pagare la sconfitta dell’Italia più degli altrti loro compatrioti.
L’abbandono delle loro città – Capodistria, Pola, Fiume, Zara e le tante altre – fu accompagnato, da parte dello Stato jugoslavo – con una serie di atti di esproprio dei loro beni che si trovarono quindi ad essere nazionalizzati o comunque trasferiti in proprietà pubblica. Il tutto in piena coerenza con la natura di stato comunista del regime di Tito che, in quanto tale, nazionalizzava non solo le proprietà degli esuli italiani, ma anche quelle dei propri cittadini: la proprietà privata era un furto, per l’ideologia del Comunismo, era diritto-dovere della Stato sottrarla dalle mani dei privati.
La proprietà degli Italiani, finite dunque nelle mani dello stato jugoslavo, avevano formato oggetto di vari atti internazionali (Trattato di Pace del ’47, Trattato di Osimo del ’75, Trattato di Roma del’83) il cui risultato era stato uno solo: i beni “rapinati”ai cittadini italiani erano rimasti nelle mani dei rapinatori jugoslavi.
Poi si arriva al 1989. Il Comunismo internazionale sprofonda nel più colossale fallimento che la Storia ricordi. Con esso finisce anche il Comunismo jugoslavo e la stessa Repubblica Federativa jugoslava scompare (in mezzo a sangue e massacri) dallo scenario della storia. Sui territori già abitati dai profughi italiani nascono due nuove realtà statuali, Slovenia e Croazia, che si proclamano non più comuniste, ma ispirate ai principi della liberal democrazia e che, in quanto tali, si mpegnano a rimuovere le tracce del comunismo anche restituendo ai privati quelle proprietà immobiliari che lo stato aveva loro nazionalizzate.
Lo fanno, sia Slovenia che Croazia, con le cosiddette “leggi di de-nazionalizzazione”, che prevedono meccanismi similari per restituire i beni espropriati ai cittadini ex jugoslavi, ma che hanno la comune caratteristica di escludere da tale diritto i cittadini italiani.
Gli Italiani di Capodistria, di Pola, di Fiume o di Zara, vittime della pulizia etnica a fine guerra, vittime degli espropri comunisti del maresciallo Tito, si sono così trovati – all’inizio degli anni ’90 – ad essere vittime di una ulteriore ingiustizia: discriminati dai governi di Lubiana e di Zagabria nel loro diritto alla restituzione dei beni rapinati.
Ed il loro naturale tutore, il Governo di Roma? Ha alternato qualche sprazzo di tutela (almeno in linea di principio), con lunghe fasi di disattenzione, con alcuni momenti di vergognoso cedimento.
La prima fase di tutela la si ebbe nel ’92, al momento del riconoscimento dei due nuovi stati di Slovenia e di Croazia, quando l’Italia, per opera del Ministro degli esteri Gianni de Michelis, subordinò tale riconoscimento all’apertura di negoziati proprio sulla questione “restituzione dei beni”. Poi il ministro cambiò e la politica italiana fu vittima di altre distrazioni (era l’epoca in cui imperversarono i signori di “mani pulite”), dei diritti degli esuli da tutelare, dei negoziato con Croazia e Slovenia da aprire nessuno se ne ricordò. Bisognerà arrivare al momento nel quale i due nuovi stati iniziarono a bussare alle porte d’Europa perché qualcuno si accorgesse che discriminare il diritto di proprietà in nome di quello di cittadinanza era un qualcosa che gridava vendetta ai più elementari principi del diritto comunitario. Croazia e Slovenia avevano escluso i cittadini stranieri dal diritto di essere proprietari di immobili ed avevano discriminato i cittadini italiani nel diritto alla restituzione dei beni nazionalizzati: con tali comportamenti erano fuori dalla logica giuridica degli stati europei.
In tale spirito il governo italiano (si era nel ’94, con il primo Ministero Berlusconi) pretese dall’Unione Europea che Lubiana e di Zagabria, prima di negoziare il loro ingresso in Europa, regolassero in modo conforme al diritto europeo la questione dei beni degli esuli italiani. Il governo successivo sembrò perseverare in questa linea (alla Farnesina c’era Susanna Agnelli) ottenendo anzi che la richiesta italiana fosse fatta propria della stessa unione europea. Poi però – e siamo nel maggio del’96 – il governo cambiò ancora; arrivo quello di Romano Prodi con, sottosegretario agli esteri, Piero Frassino. Fu lui che, non appena nominato, si precipitò a Lubiana per dichiarare ufficialmente che non c’era nessuna, nessunissima pretesa dell’Italia in tema di restituzione dei beni e che – per quanto riguardava il governo di Roma – l’ingresso della Slovenia in Europa non aveva ostacoli di sorta. Un atto, questo di Fassino, che nei confronti degli esuli italiani (ma forse dell’Italia tutta) aveva il sapore amaro del tradimento più vergognoso. A posteriori, nel suo libro autobiografico, cerca di giustificarsi raccontando che era stato Prodi ad ordinarglielo e che Prodi, a sua volta, aveva ricevuto un ordine in tale senso da parte del presidente Clinton.
Il fatto è che dopo quelle dichiarazioni le porte per Bruxelles si spalancarono, per la Slovenia, e la questione dei diritti degli italiani sparì dalle agende diplomatiche.
Sarà con il secondo governo Berlusconi – e siamo al 2001 – che si ritornò a parlarne, in riferimento all’inizio di negoziati tra Croazia ed Europa. Alla Farnesina si trovava il Ministro Ruggero il quale aprì un tavolo negoziale con la Croazia, ma accetto il principio che si ritenesse la materia già regolata dai trattati precedenti e che si verificasse unicamente se c’erano delle situazioni marginali, non regolamentate da trattati, che dessero spazi a qualche soluzione. Il tutto si concretizzo nella formula, usata dal ministro, del “pacta sunt servanda”. Tale impostazione venne energicamente contestata dalle associazioni degli esuli sia in termini di giustizia sostanziale che di diritto formale: quei trattati che si voleva consacrare erano stati stipulati dall’Italia con un soggetto che non esisteva più (la Jugoslavia), avevano un contenuto profondamente diverso (riguardavano beni immobili in una società comunista, non in un libero mercato) e soprattutto avevano per oggetto la nazionalizzazione indiscriminata, non la de-nazionalizzazione discriminata. Sempre per restare al latinorumu, si disse che la formula completa doveva essere “pacta sunt serranda, rebus sic stantibus” e che pertanto, essendo mutate le condizioni oggettive, tutto poteva e doveva essere oggetto di nuovo negoziato. Si ricordò anzi che nel ’92 de Michelis aveva ottenuto da Croazia e Slovenia l’intesa di aprire negoziati su tale argomento e che, conseguentemente, anche le nostre controparti avevano riconosciuto allora che la materia non era da considerarsi preclusa dai trattati precedenti.
Non è dato sapere se tale questione dei “beni” abbia avuto un qualche ruolo, certo è che poco dopo tali prese di posizione il ministro Ruggero venne licenziato da Berlusconi, il quale prima assunse lui stesso l’interim degli Esteri e poi affidò tale ministero all’attuale titolare Frattini.
Al momento esiste comunque, sulla carta, una commissione mista italo-croata, costituita all’epoca di Ruggero e composta di diplomatici e di giuristi; le sue riunioni sono decisamente saltuarie ed appaiono decisamente prive di qualsivoglia prospettiva risolutiva della questione (pare ci si stia ancora baloccando con il “pacta sunt servanda”).
C’è però, forse, un fatto nuovo foriero di qualche speranza. Nelle ultime elezioni croate ha prevalso uno schieramento di centro destra, politicamente in piena omogeneità con quello al governo a Roma (il leader croato Sanader aveva fatto campagna elettorale invocando proprio l’appoggio del centro destra italiano).
In tale contesto appare oggi possibile un percorso che fino a ieri non era praticabile: affrontare cioè la “questioni”beni” non più come un annoso problema da risolvere, bensì come una risorsa da valorizzare. E ciò puntando a restituite agli Italiani tutto quanto sarà realisticamente possibile, senza creare contraccolpi nel contesto croato, vale a dire tutte quelle proprietà (e non sono certo poche) che risultino tutt’ora in mano pubblica, vincolando tale restituzioni ad interventi a sostegno del ripristino, del restauro di tali immobili . In tale modo si otterrebbe il duplice risultato di soddisfare, almeno parzialmente, la domanda di giustizia degli esuli italiani, ma anche quello di realizzare in Croazia una serie di interventi economici a tutto beneficio delle economie locali. In prospettiva sarebbe soprattutto l’investimento più efficace per i futuro rapporti italo-croati, improntati ad uno spirito di cooperazione che di sicuro conviene ad entrambi gli Stati.
Saprà la politica italiana essere abbastanza attenta ed accorta per cogliere tale opportunità oppure, come troppe volte in passato, saranno i mille altri problemi, grandi o piccoli, della nostra politica romana a far prevalere la disattenzione ed il silenzio sulla storia infinita dei beni rapinati? Staremo a vedere.
Paolo Sardos Albertini
settembre 2004