I PROCESSI: LA GIUSTIZIA NEGATA
Dopo il fallimento, nell’immediato dopoguerra, dei tentativi di avviare processi per le deportazioni e gli infoibamenti, l’intricata vicenda giudiziaria si rimise in moto solo 50 anni più tardi, il 15 giugno 1994, quando l’avvocato Augusto Sinagra presentò denuncia formale per gli eccidi avvenuti nella Venezia Giulia.
Sinagra, dopo aver raccolto le testimonianze dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti, le consegnò alla procura di Roma insieme ai nomi dei carnefici, tutti esponenti della famigerata OZNA. Fra gli altri: Oskar Piskulic, Iovo Mladenic, Vicko Larkovic Minarci, Milan Cohar, Norino Nalato e Giuseppe Domancic.
Il Pubblico Ministero Gianfranco Mantelli, ricevuta la denuncia, incaricò i carabinieri di svolgere un’indagine sulla questione.
Mesi di ricerca presso gli archivi della Marina, delle questure e delle stazioni dei carabinieri portarono alla raccolta di molte informazioni e alla scoperta di migliaia di denunce dimenticate, presentate dai familiari delle persone scomparse.
Il Pm Mantelli però, promosso ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia, non ebbe mai la possibilità di concludere quelle indagini.
Al suo posto venne nominato il Pm Giuseppe Pititto.
Lo storico Marco Pirica, in qualità di Presidente del Centro studi Silentes Loquimur, fornì agli inquirenti un archivio contenente fotografie degli scomparsi, schede personali di più di quattromila desaparecidos e anche importanti documenti sui presunti responsabili. Tra questi, oltre a quelli già segnalati da Sinagra, emerse anche la figura di Ivan Motika, detto “il giudice” ed i nomi di ben 300 “guardie del popolo”, esecutori materiali della pulizia etnica.
Ivan Motika fu il presidente del “Tribunale del popolo” che decideva il destino degli italiani.(72)
I governi di Slovenia e Croazia non presero bene l’apertura dell’inchiesta.
Il ministro sloveno Zoran Thaler e l’ex ministro degli Esteri croato, Zvonimir Separovic, sostennero che l’inchiesta romana avrebbe potuto peggiorare i rapporti tra i loro paesi e l’Italia e che si trattava di un’iniziativa di carattere elettorale.
Separovic inoltre, dopo aver auspicato che l’inchiesta non nascondesse in realtà un pretesto per aprire una campagna anticroata, ammonì l’Italia ricordando che lo zelo nella ricerca della verità storica avrebbe potuto portare a parlare dei campi di concentramento fascisti in Istria e Dalmazia, che pure, a suo parere, avevano avuto carattere di genocidio.
A dare man forte alle tesi slovene e croate arrivò la replica del croato Ivan Motika, uno degli indagati più in vista.
L’ex magistrato, all’epoca ormai ultraottantenne e residente a Zagabria, respinse decisamente le accuse e si dichiarò un antifascista che non aveva commesso alcun crimine.(73)
Giuseppe Pititto, titolare dell’inchiesta, non si scoraggiò e sostenne di avere il
dovere di accertare se nei fatti denunciati sono ravvisabili estremi di reato e il dovere di cercare di individuare i responsabili. Ciò perché in Italia vige il principio dell’obbligatorietà penale.(74)
La federazione degli esuli di Istria, Fiume e Dalmazia, per voce del vicepresidente Denis Zigante, respinse al mittente l’illazione che l’inchiesta potesse nascondere finalità politiche.
Esiste invece una forte richiesta di verità sul problema delle foibe. Soltanto quando si sarà fatta completa chiarezza, sarà possibile evitare strumentalizzazioni di ogni tipo.(75)
Dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri sloveno, Thaler, che aveva accusato il magistrato di condurre un’operazione elettorale per favorire la destra in vista delle imminenti consultazioni, il Pm Pititto, a causa dell’inchiesta sulle stragi compiute dai partigiani di Tito tra il ’43 e il ’47 ricevette anche minacce di morte e dovette essere messo sotto scorta.
”Hai voluto fare il vendicatore delle persone morte nelle foibe (…), adesso c’è una fossa anche per te”.(76)
Pititto, in un’intervista rilasciata alla Rai, rivelò lo stato di isolamento e di scarsa collaborazione in cui era stato relegato
Mi chiedo perché lo Stato italiano per 50 anni non ha fatto questo processo, mi chiedo perché lo Stato italiano non sorregga il magistrato che in questo momento finalmente fa questo processo mi chiedo perché la stampa italiana voglia mantenere il silenzio su questa che è certamente una vergogna per questo Paese. (77)
In un intervista ad un quotidiano egli, annunciando il rinvio a giudizio degli imputati, dichiarò che dagli atti in suo possesso risultava che fossero stati uccisi donne e bambini, sacerdoti e partigiani. Tutti solo perché “colpevoli” di essere italiani.: Nel gennaio del 1997, la Provincia di Trieste si costituì parte civile e nel mese successivo iniziarono le ricerche di fosse comuni nelle valli del Natisone dove aveva a suo tempo agito la divisione partigiana Garibaldi-Natisone agli ordini del IX Corpus di Tito e responsabile della strage di Porzus. Furono diverse le fosse comuni trovate.
A maggio del 1997, il giudice per le indagini preliminari, Angelo Macchia, diede parere negativo alle richieste di rinvio a giudizio, sostenendo che nel periodo 1943-1945 l’Italia non aveva sovranità sui territori dell’Istria, di Fiume e di Zara.
Nel luglio dello stesso anno, l’avvocato Maurizio Sinagra, tentò, senza successo, di far ricusare il giudice Macchia.
Successivamente, Pititto ricevette pesanti “inviti”, sostenuti da nuove minacce di morte, a non impugnare la sentenza della Corte d’Appello. Pesanti intimidazioni arrivarono anche ad un avvocato delle vittime.
A sostegno di Pititto si schierarono 40 parlamentari del Polo e della Lega e Il Pm e i legali di parte civile, rappresentanti delle vittime, nonostante le minacce, presentarono ricorso il 22 aprile del 1998, ottenendo, da parte dei giudici della prima sezione penale della Cassazione, l’annullamento della sentenza di non luogo a procedere contro i presunti responsabili della morte di migliaia di italiani gettati nelle foibe.
Il 18 settembre dello stesso anno il Gip di Roma Claudio Tortora rinviò a giudizio Ivan Motika e Oskar Piskulic.
Il 15 marzo 2000, a tre anni dalla conclusione delle indagini, dopo tre pronunciamenti del Gip e l’annullamento di un rinvio a giudizio, il Gip di Roma, Roberto Reali, rinviò nuovamente a giudizio il croato Oskar Piskulic, unico dei tre imputati della procura di Roma per i fatti avvenuti tra il 1943 e il 1947 rimasto in vita, con l’accusa di omicidio plurimo.
Chiamato davanti alla prima corte di Assise della capitale, il Gip accolse la richiesta del Pm Pititto di contestare a Piskulic, all’epoca dei fatti capo della OZNA, la polizia politica jugoslava, l’accusa di
aver diretto l’attività criminosa cagionando con premeditazione la morte, per il solo fatto che erano italiani e perciò per motivi abietti, degli antifascisti Nevio Skull, a cui spararono un colpo alla nuca, Giuseppe Sincich, che uccisero a colpi di mitra seviziandone il corpo, e Mario Blasich, che strangolarono nel suo letto e perciò agendo con crudeltà verso le persone.(78)
Pititto rendendo noto alla stampa il suo trasferimento d’ufficio, deciso dal CSM per contrasti con il procuratore di Roma Salvatore Secchione, in un’intervista rilasciata a “Il Giornale”, dichiarò
Quei magistrati italiani che sono la stragrande maggioranza e che non accettano di rendersi funzionali al disegno politico della sinistra, oggi si ritrovano privi di tutela proprio in sede a quell’organismo che per primo dovrebbe garantirgliela. E’ disarmante dirlo, ma è cosi (…) Davo fastidio, mi hanno fatto fuori.(79)
L’11 ottobre 2001 Piskulic venne riconosciuto colpevole.
La Corte d’Assise di Roma lo riconobbe colpevole di “delitto politico premeditato ma non provocato dall’odio etnico” e, pur riconoscendolo responsabile dell’omicidio dell’autonomista di Fiume, Giuseppe Sincich, dichiarò il reato estinto per amnistia.
Il 4 dicembre 2002 la Corte d’Assise d’Appello, in applicazione della legge Cirami, sospese il processo, che sarebbe dovuto riprendere dopo la decisione della Cassazione.
Il 15 aprile del 2003 la prima Corte d’Assise d’Appello di Roma dichiarò la cessata giurisdizione.
La conclusione definitiva della tanto lunga quanto farraginosa vicenda giudiziaria arrivò con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, la quale ribadì, ancora una volta
l’Italia non ha titolo, per difetto di giurisdizione, per giudicare il cittadino croato Oskar Piskulic.(80)
Nello stesso mese, se da una parte la Cassazione scriveva la parola fine sulla vicenda giudiziaria riguardante i dirigenti dell’OZNA in Istria, un’altra procura italiana, quella di Bologna, apriva un’inchiesta sui reati commessi in quello stesso periodo, nella stessa area.
La morte di 202 civili e 635 militari italiani, fatti prigionieri e poi uccisi nelle foibe a Gorizia, tra il maggio e il giugno 1945, vide come indagato Franc Pregelj, ormai ultraottantenne, residente in Slovenia, conosciuto come “comandante Boro”, allora Commissario politico del IX Corpus di Tito.
L’inchiesta era stata avviata dalla Procura militare di Padova ed era arrivata a risultati che sembravano preludere ad una richiesta di rinvio a giudizio per Pregelj. Un’eccezione della difesa, però, accolta dalla Cassazione, fece passare il fascicolo alla giustizia ordinaria.
L’inchiesta approdò alla Procura di Gorizia, ma, essendo una delle vittime padre di un magistrato esercitante nella stessa Procura, dovette essere nuovamente trasferita, approdando sul tavolo dei colleghi bolognesi, competenti ad indagare in caso di coinvolgimento (in questo caso come parte danneggiata) di magistrati del Friuli Venezia Giulia.
Se da un lato la magistratura italiana attraverso la sentenza definitiva della Corte di Cassazione stabiliva la cessata giurisdizione e di conseguenza l’impossibilità per la giustizia italiana di perseguire i responsabili degli eccidi perpetrati in Istria, a Fiume ed in Dalmazia durante e dopo la guerra, dall’altro l’INPS poteva invece erogare la pensione e tutti gli arretrati relativi agli stessi ex imputati.