ALAIN DE BENOIST
Presto sarà un anno che gli Stati Uniti hanno invaso militarmente l’Iraq affermando, per giustificare la loro iniziativa, che questo Paese possedesse delle “armi di distruzione di massa” in grado di minacciare l’intera regione. All’epoca, questa dichiarazione era talmente stridente rispetto alla realtà da non convincere praticamente nessuno. Il grande paradosso deriva dal fatto che è la stessa guerra ad averne rivelato la falsità. Se l’Iraq avesse posseduto tali armi, non avrebbe indubbiamente mancato di utilizzarle. E, d’altro canto, se le avesse possedute, è assai poco probabile che gli Stati Uniti l’avrebbero attaccato. Uno dei membri più influenti dell’entourage di George Bush, il neo-conservatore Paul Wolfowitz, ha finito col riconoscerlo ingenuamente, scatenando così un ampio scandalo oltreoceano: l’accusa lanciata contro Baghdag di detenere tali armi non era che un “pretesto burocratico”. In altri termini: la Casa Bianca si è resa colpevole di una bugia di Stato. Diviene allora legittimo chiedersi perché – e soprattutto per quale ragione – gli Stati Uniti si siano lanciati in un’avventura di tal genere.
I motivi sono probabilmente molteplici. Attaccando l’Iraq, gli Usa volevano evidentemente calmare le inquietudini e favorire gli interessi del loro alleato israeliano. Essi aspiravano anche ad una ristrutturazione completa della regione maggiormente conforme ai loro interessi. Ma la ragione principale era di natura eminentemente concreta. Questa ragione è il petrolio.
Il petrolio rappresenta già attualmente il 40% del consumo energetico totale del mondo. E tale percentuale è destinata ad accrescersi ulteriormente, poiché la domanda mondiale dovrebbe aumentare ancora del 50% nel corso dei prossimi vent’anni. Da ciò si comprende che il petrolio è la chiave di volta del sistema economico mondiale e che esso determina sul lungo periodo i rapporti di forza fra le potenze. Chi può influire sulla produzione, la circolazione ed il prezzo del petrolio, può orientare il sistema mondiale.
Il Medio Oriente gioca in quest’ottica un ruolo essenziale, poiché le sue riserve sono le più importanti del mondo ed i suoi costi di sfruttamento i meno onerosi. L’Iraq dispone delle seconde riserve petrolifere accertate del mondo (115 miliardi di barili), dopo l’Arabia Saudita. Alcune stime valutano queste riserve persino al livello di 250 miliardi di barili, poiché più del 90% del sottosuolo iracheno rimane ancora inesplorato. Questo petrolio di ottima qualità vanta, inoltre, un costo di estrazione molto basso e facilità di trasporto. Mettere le mani sul petrolio iracheno rappresentava dunque per gli Stati Uniti un obiettivo di primaria importanza. Ed il tempo incalzava, perché le relazioni fra Washington e l’Arabia Saudita si sono deteriorate da qualche tempo, ed il trattato di alleanza sottoscritto fra i due Paesi arriverà a scadenza nel 2005.
Tuttavia, sforzandosi di assumere il controllo sul petrolio iracheno, gli americani miravano ad un altro obiettivo, ancor più importante di quello d’assicurarsi il proprio approvvigionamento. Tale obiettivo era quello di controllare le risorse energetiche da cui dipenderanno, nei futuri decenni, le economie dei loro principali concorrenti, a cominciare dalla Cina e dall’Europa.
La guerra in Afghanistan ha già permesso agli Stati Uniti di assumere il controllo sul petrolio dell’Asia centrale e del Mar Caspio, cioè il 26% delle riserve mondiali, rendendo così più difficile alla Cina l’accesso ad una fonte di approvvigionamento diversa dal Golfo Persico. Truppe americane sono state insediate nel Kazhakistan e nell’Ouzbekistan per proteggere le vie di trasporto del petrolio. Sono stati anche inviati degli istruttori militari in Georgia, tappa-chiave dell’oleodotto che unisce il Mar Caspio al Mar Nero ed al Mediterraneo. A più lungo termine, l’obiettivo degli Americani è quello di ottenere dai Russi che la loro produzione petrolifera si riversi in Occidente e non in Asia, e di circondare la Cina mediante una rete di alleanze con Russia, India, Corea del Sud, Taiwan e Giappone. In una prospettiva di tal genere, mettere le mani sul petrolio iracheno, attendendo di impadronirsi di quello iraniano, significa dotarsi dei mezzi per un’eventuale asfissia energetica della Cina, cioè premunirsi contro ogni ostilità da parte di Pechino. E’ anche questo un atout evidente per fare del XXI secolo un secolo americano.
D’altro canto, una tale strategia si è più facilmente imposta alla Casa Bianca dal momento che la maggior pare degli attuali dirigenti americani appartengono da lunga data alla lobby petrolifera texana. Nel caso in cui non appartengano a tale lobby, i membri dell’amministrazione Bush sono quasi tutti dei rappresentanti del complesso bellico-industriale. Almeno 32 segretari di Stato e membri della Casa Bianca sono sia degli ex-membri di consigli di amministrazione, sia consulenti, che azionari delle più grandi imprese d’armamento, e 17 fra loro hanno dei legami con dei fornitori-chiave del sistema difensivo missilistico. La lobby petrolifera e l’industria dell’armamento non hanno pertanto bisogno di fare pressione sull’amministrazione Bush. Essi sono l’amministrazione Bush.
Ma questa amministrazione detiene ugualmente altre caratteristiche. Rappresenta anche la punta di lancia di una nuova tendenza politico-ideologica che si potrebbe definire, in mancanza di meglio, la scuola neo-imperialista o neo-egemonista.
Dopo il 1945, l’imperialismo americano si è manifestato soprattutto attraverso delle istituzioni politiche e giuridiche internazionali. Dagli anni ’80, la politica americana si è ugualmente caratterizzata per un interventismo politico ed economico e commerciale planetario. A supporto della globalizzazione, resa possibile dall’affondamento del Blocco sovietico, gli Stati Uniti hanno mobilitato il loro immenso potere politico ed economico per de-regolamentare l’economia internazionale, aprire tutte le economie straniere agli investimenti statunitensi, procurare alle loro imprese l’accesso a tutti i mercati, a tutte le fonti di materie prime ed a tutti i bacini di manodopera, al fine di assicurare l’espansione di uno libero scambio generalizzato, funzionante secondo regole essenzialmente americane ed a profitto degli interessi americani. Ma, oggi, essi vanno ancor più lontano. Dagli attentati dell’11 settembre, l’interventismo economico si accompagna ad un interventismo militare che permette agli Stati Uniti di essere presenti ovunque -soldati americani sono oggi dislocati in più di quaranta paesi – e d’intervenire a loro arbitrio in tutte le regioni del globo.
Al momento delle elezioni di Gorge W. Bush sono i principali rappresentanti di questa scuola neo-imperialista – il vice-presidente Dick Cheney, il Segretario alla difesa Donald Rumsfeld e il suo aggiunto Paul Wolfowiz, il presidente del Defense Policy Board del Pentagono Richard Perle, senza dimenticare nella sfera intellettuale i Robert Kagan, i William Kristol e altri Charles Krauthammer – ad arrivare al potere. Il punto in comune di questi falchi massimalisti è quello di credere che l’impiego della formidabile macchina da guerra americana sia sempre legittimo quando esso serve agli interessi dell’America, questi ultimi considerati per principio come conformi alle aspirazioni umane.
L’uso della forza, in quest’ottica, è privilegiato. E’ stata quindi messa a punto una nuova dottrina strategica. Essa consiste nell’approntare tutto ciò che serve a rendere perenne l’egemonia attuale, essendo l’obiettivo quello di assicurare l’invulnerabilità degli Stati Uniti e sviluppare la loro capacità di combattere, invadere e sottomettere qualsiasi potenza ostile, al fine di impedire ad una qualsivoglia potenza rivale di colmare il ritardo acquisito in rapporto all’America dall’affondamento del sistema sovietico.
Il passaggio da un mondo bipolare, sorto dall’ordine di Yalta, al mondo globale attuale è stato il punto di partenza di questa evoluzione. E’ nel contesto di ciò che Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post, ha definito “il momento unipolare” che, a partire dal 1993-’95, l’opzione unilateralista ha incominciato ad imporsi. A partire da quella data gli Stati Uniti accettano esplicitamente il loro status di potenza egemonica e dichiarano che faranno il possibile per prevenire l’insorgenza di altri centri di potere, in qualsiasi parte del mondo. Nel 1997 Zbigniew Brzezinski scrive che “il mantenimento dello status di super-potenza planetaria degli Stati Uniti si riassume nei tre grandi imperativi geo-strategici seguenti: evitare le collusioni fra vassalli e mantenerli nello stato di dipendenza che giustifica la loro sicurezza; coltivare la docilità dei soggetti protetti, impedire ai barbari di formare delle alleanze offensive”.
L’équipe che attornia oggi Gorge W. Bush si è ben presto allineata a questa politica. L’8 marzo 1992, il New York Times lasciava filtrare il contenuto di un progetto (Defense Guidance Planning) redatto all’attenzione del Pentagono dall’attuale vice-presidente Dick Cheney, l’attuale Segretario alla difesa Donald Rumsfeld e da Zalamy Khalizad, che in seguito sarebbe divenuto l’inviato speciale di Bush in Afghanistan. Questo documento sostiene che “la missione dell’America consiste nell’assicurarsi che nessun’altra super-potenza possa emergere nel resto del mondo”. Vi era indicato che “gli Stati Uniti debbono instaurare dei meccanismi al fine di dissuadere i potenziali concorrenti dal cercare di avere la pretesa di giocare un più importante ruolo regionale o mondiale”. E’ all’applicazione integrale di questo programma cui assistiamo attualmente.
Già prima della sua elezione, George W. Bush era dunque deciso a fare la guerra all’Iraq e ad invadere l’Afghanistan. Occorreva solamente un pretesto. Gli attentati dell’11 settembre 2001 glielo hanno fornito … provvidenzialmente. Acceleratore molto più che detonatore, essi sono avvenuti a proposito per far cadere le riluttanze del popolo americano contro l’interventismo, riluttanze tradizionalmente forti all’interno del partito Repubblicano. E’ noto che gli americani hanno sempre avuto la tendenza a cercare soluzioni militari a problemi politici e soluzioni tecniche a problemi militari. Questa tendenza si è oggi esacerbata al punto che la potenza americana sembra esser stata meramente e semplicemente ridefinita come pura capacità d’annientamento.
Parallelamente, e per la prima volta dal XIX secolo, questo brutale spiegamento di forza si accompagna ad un esplicito discorso di legittimazione dell’egemonismo planetario. Gli articoli di Robert Kaplan, Charles Krauthammer, Max Boot, Norman Podhoretz, Sebastian Mallaby e di tanti altri, sono, da questo punto di vista, inequivocabili. Tutti quanti ripetono che l’America gode oggi di un potere che nessuna potenza ha mai avuto nella storia e che essa deve usarlo senza reticenze per riorganizzare il mondo a sua immagine. Tutti sottolineano che gli Stati Uniti devono emanciparsi della tutela delle organizzazioni multinazionali per agire da soli o con coalizioni contingenti, in funzione esclusiva dei loro interessi nazionali, senza mai interrogarsi sulle cause economiche o sociali della violenza cui pretendono rispondere. Tutti affermano che l’America non deve aver fiducia in nessuno dei suoi alleati ed impegnarsi a mantenere l’Europa in una posizione subordinata.
La conseguenza più diretta di questo nuovo modo di vedere è stata l’ascesa di un nuovo unilateralismo. Dopo aver tentato di utilizzare a proprio vantaggio le istituzioni internazionali, gli Stati Uniti ormai se ne discostano per fare i cavalieri solitari. Questo unilateralismo consiste nel sottrarsi impassibilmente agli obblighi del diritto internazionale come alle regole della cooperazione multilaterale. Già prima dell’elezione di Bush, il senato americano aveva rifiutato di ratificare il trattato sull’interdizione delle armi biologiche e chimiche. Gli americani hanno ugualmente rifiutato di ratificare il protocollo di Kyoto sulla protezione dell’ambiente. Hanno unilateralmente denunciato il trattato ABM sugli armamenti anti-missili che univa Mosca e Washington sin dal 1972. Dato ancor più notevole, nel maggio 2002 hanno fatto conoscere il proprio rifiuto di riconoscere la legittimità della Corte penale internazionale di L’Aja di cui, tuttavia, avevano firmato l’atto di creazione. Consapevoli che né l’Europa né la Russia possono oggi riempire il vuoto geopolitico provocato dal disgregarsi del blocco comunista, gli americani esentano se stessi da ogni obbligo esterno, manifestando una totale indifferenza per il loro cosciente isolamento sulla scena internazionale.
Al contempo, per poter “proiettare” la loro potenza ad ogni momento in qualsiasi regione del mondo, gli Stati Uniti hanno deciso di dotarsi di mezzi militari senza precedenti. Nel 2003 il budget militare americano ha rappresentato all’incirca 380 miliardi di dollari – l’equivalente del PNL globale della Russia! -48 miliardi di dollari in più rispetto al 2002. Queste spese dovrebbero raggiungere i 450 miliardi di dollari dal 2007. Una tale somma è di per se stessa superiore ai budgets militari sommati di Cina, Russia, Francia, Germania, Inghilterra, Israele e Giappone.
Infine, Washington ha varcato una tappa di una gravità eccezionale, adottando una nuova dottrina militare che, chiaramente sempre in maniera unilaterale, legittima d’ora innanzi la guerra preventiva. Le grandi linee di questa dottrina sono state esposte il 31 gennaio 2002 da Donald Rumsfeld agli ufficiali stagisti dell’Università della Difesa nazionale. Precisando che gli Stati Uniti devono ora poter “vincere al contempo due aggressori, avendo la possibilità di condurre una maggiore controffensiva e di occupare la capitale di un nemico per installarvi un nuovo regime”, Rumsfeld ha dichiarato che “La difesa degli Stati Uniti richiede la prevenzione, l’autodifesa e talvolta l’azione per primi. (…) In alcuni casi la sola difesa è una buona offensiva”. Propositi analoghi sono stati tenuti il primo giugno 2002 da Gorge Bush parlando davanti gli allievi dell’Accademia militare di West Point.
La nuova strategia americana ristabilisce pertanto il diritto alla guerra preventiva – quello stesso che il Giappone aveva invocato per attaccare a Pearl Harbour nel 1941 -, guerra preventiva che fino a quel momento veniva assimilata alla guerra d’aggressione. Essa contraddice in tal modo un principio fondamentale del diritto internazionale in vigore dal Trattato di Westfalia (1648), principio che era già stato beffato all’epoca dell’aggressione occidentale in Kossovo. Indicando che essa interverrà ormai “prima che la stessa minaccia si concretizzi”, cioè chiaramente prima che la realtà della minaccia possa essere dimostrata, essa afferma che bisognerà crederle sulla parola. Viene in tal modo lasciata cadere la dottrina della “dissuasione” o del “contenimento”.
Tutto ciò significa che l’ordine internazionale in vigore sino ad oggi è giunto alla fine. Assumendo ormai senza alcuna reticenza la sua posizione di “gendarme globale”, il governo americano rifiuta ogni decisione di diritto internazionale che reputa contraria ai propri interessi. Scivola così dalla logica del diritto a quella della potenza pura. Già il 24 ottobre 2002, in un discorso indirizzato ai membri del Consiglio di sicurezza, George W. Bush ha fatto sapere che gli Stati Uniti avrebbero fatto a meno – se necessario – dell’accordo dell’Onu per attaccare l’Iraq. Le Nazioni Unite, fino ad allora garanti della sicurezza collettiva, vengono così marginalizzate o ridotte a cassa di risonanza assoggettata ai criteri americani.
Il particolarismo degli Stati Uniti si manifesta pertanto nel rifiuto presso gli altri di ciò che essi stessi praticano – l’interventismo ed il protezionismo, ad esempio – nella convinzione di avere il diritto di fare tutto ciò che vogliono in tutte le circostanze, nel desiderio di vedere tutti i paesi del mondo legati da obblighi cui sarebbero i soli a non dover sottomettersi. In altri termini, si tratta per l’America di affermare uno status d’eccezione. “Gli Stati Uniti sognano un mondo dove gli altri Paesi sarebbero vincolati da dei trattati mentre essi stessi sarebbero liberi di definire nazionalmente la propria politica”, ha detto recentemente il socialista francese Pascal Boniface. A lungo termine, si potrebbe assistere ad una destabilizzazione generalizzata delle relazioni internazionali.
Fin da oggi il bilancio è chiaro. Ogni nuova guerra d’aggressione condotta da dieci anni da Washington si è tradotta mediante l’aumento del caos e con l’insediamento di truppe americane supplementari all’estero. Le basi installate in Arabia Saudita e in Kuwait dopo il 1991 non sono state smantellate, contrariamente alle promesse fatte all’epoca. La guerra in Afghanistan ha permesso di installarne di nuove in diversi Paesi dell’Asia centrale. La recente conquista dell’Iraq è sfociata nell’instaurazione di un’autorità d’occupazione, contro cui si producono ogni giorno degli attentati in un clima di insicurezza e caos che non potrà che accentuarsi.
I risultati ottenuti al riguardo sono inesistenti. Nessun problema è stato risolto mediante l’uso della forza. In Iraq ed in Afghanistan, come in Libano, Panama, Nicaragua, Somalia, Haiti, Bosnia ed altrove, la guerra non ha affatto permesso di creare migliori condizioni politiche e sociali, ma solamente gettato le basi per nuovi, futuri conflitti.
Ciò che gli strateghi di Washington definiscono oggi la “guerra contro il terrorismo” deriva da questo stesso unilateralismo. Il neo-terrorismo globale è, beninteso, una realtà ed una minaccia cui bisogna rispondere. La messa in guardia degli Stati Uniti contro un fondamentalismo musulmano che essi non hanno smesso d’attizzare quando si trattava di fronteggiare il nazionalismo laico arabo, non possono tuttavia trarre in inganno. La loro tattica è manifestamente quella di accrescere il pericolo per trarne beneficio. Come una volta la “minaccia sovietica”, il “terrorismo islamico” funziona al pari di un pretesto destinato a legittimare un vero e proprio racket politico, un ricatto alla protezione. Il metodo consiste nel far credere che ogni nemico dell’America sia anche il nemico dei suoi alleati, al fine di assicurarsi un sostegno che questi ultimi potrebbero essere tentati di rifiutare. Parallelamente, si fa di tutto per mascherate il fatto che l’islamismo radicale sia innanzitutto un fenomeno politico, che possiede degli obiettivi politici e delle cause politiche.
L’idea di uno “choc delle civiltà”, idea lanciata dal teorico della Trilaterale, Samuel Huntington, ha essa stessa l’obiettivo principale di far perdurare la dominazione americana su tutto il pianeta, dissimulando le reali fratture che oppongono fino ad ora l’Europa e gli Stati Uniti. “Il tema dello choc delle civiltà – constatava recentemente il geopolitico Aymeric Chauprade – serve oggi gli interessi degli americani, degli Israeliani e degli islamici. Tutti giocano la logica dei blocchi contro la logica dell’equilibrio fra gli stati. L’America per costruire il suo blocco transatlantico, Israele per salvare la sua eccezione coloniale, gli islamici per infrangere le frontiere interne del mondo musulmano. (…) Giocando la logica dello choc delle civiltà, l’America vuole “vassalizzare” innanzitutto l’Europa occidentale e la Russia, e procedere nel suo obiettivo di costruzione di un vasto blocco transatlantico da Vancouver a Vladivostock (secondo l’espressione utilizzata da James Baker nel 1991), fronteggiando l’Islam e la Cina, grande, potenziale rivale nel giro di quindici anni”.
Ognuno sa bene, in realtà, che il neo-terrorismo islamico trova primariamente la sua origine nel sostegno apportato dagli Stati Uniti alla brutale repressione della resistenza palestinese – e che è ugualmente una reazione convulsiva ad una globalizzazione pilotata dall’America, intrinsecamente indifferente al mondo storico, alla diversità umana, ai costumi ed alle culture particolari. Come ha affermato il sociologo Jean Baudrillard, “la mondializzazione del terrorismo risponde al terrorismo della mondializzazione”. Lottare contro il terrorismo esige in primo luogo che ci si interroghi sulle sue cause, cosa che gli Americani non sono per l’appunto disposti a fare, poiché ciò li costringerebbe a rimettersi in causa.
Quindi, ciò che oggi caratterizza maggiormente l’America non è tanto la potenza di per se stessa, quanto la volontà manifesta di servirsene a livello planetario, senza alcuna restrizione.
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E l’Europa, in tutto ciò? E l’Europa che, dinnanzi alla crisi irachena, è stata – come al solito – incapace di assumere una posizione comune e si è persino spezzata in due, i governi ostili alla guerra (Francia e Germania) che si sono opposti direttamente a quelli pro-americani (Inghilterra, Spagna ed Italia)? L’alternativa davanti alla quale si trova è in effetti sempre la stessa: sia l’Europa, dando la priorità alla liberalizzazione, sposa la dinamica di un grande mercato che mira ad allargarsi il più possibile, ed in questo caso l’influenza americana vi diverrà preponderante, sia essa s’affida ad una logica d’approfondimento delle sue strutture d’integrazione politica, in una prospettiva essenzialmente continentale e con la volontà di contro-bilanciare il peso degli Stati Uniti.
Per il momento, l’Europa attraversa una crisi istituzionale senza precedenti. Non possiede né la volontà politica né la legittimità democratica. Gli stati che la compongono rifiutano di attribuirle reali competenze politiche. Le loro ambizioni di “riforma strutturale” si riassumono nella liberalizzazione e la de-regolamentazione, nella priorità data all’apertura dei mercati sulle politiche comuni. L’Europa si è lanciata in una fuga in avanti che conferisce priorità all’allargamento burocratico piuttosto che al rafforzamento delle sue capacità di decisione politica. Parallelamente, l’accento viene posto non sulle nozioni di popolo politico, di sovranità, di comunità o di democrazia, ma sui valori di mercato, sulla governance astratta e sulla giustizia procedurale. La costruzione europea si realizza essenzialmente in ambito economico, disequilibrio intrinsecamente portatore di una deriva liberale che tende a fare di essa una zona commerciale di libero scambio, invece di permetterle di divenire un polo regolatore della globalizzazione.
L’Unione Europea comprenderà ben presto una trentina di paesi. Al Summit di Copenaghen si è allargata a dei paesi d’Europa Orientale perfettamente docili alla politica americana che non vogliono raggiungerla che per piazzarsi sotto la protezione della NATO. Questi nuovi stati membri sono stati accettati senza prendersi la briga di interrogarsi sulle frontiere dell’Europa né di intraprendere le riforme istituzionali che si imponevano. Per completare il tutto, l’Europa pensa ora di integrare la Turchia, cioè di far entrare nell’Unione Europea un Paese che, per il semplice fatto del suo peso demografico, ne diventerebbe lo stato membro più influente in termini elettorali. Questo progetto di integrazione della Turchia risponde ai desideri degli americani che sognano di costruire un blocco occidentale posto sotto la loro guida, con la Turchia ed Israele come teste di ponte nel Medio Oriente.
Tuttavia, non cessa al contempo di approfondirsi il fossato fra l’Europa e gli Stati Uniti, i quali, dopo aver lungamente finto di incoraggiare la costruzione europea, non dissimulano più ormai la loro ostilità innata all’idea di un’Europa unita. “Il crescente attrito fra gli USA e l’Europa è divenuto un segreto di Pulcinella” constatava l’ex-ministro Michel Jobert qualche settimana prima della sua morte. A dispetto delle unzioni diplomatiche e dei propositi di circostanza, la disunione transatlantica non cessa infatti di aggravarsi dall’arrivo di Gorge W. Bush al potere. E’ sufficiente, per rendersene conto, leggere gli articoli che appaiono attualmente negli Stati Uniti. L’eurofobia fa stragi sulla stampa americana, in cui non viene adombrato il fatto che la stessa dinamica della globalizzazione renderà gli interessi americani ed europei sempre più divergenti.
In un testo pubblicato nel 2002, e che fece gran scalpore, il neo-conservatore Robert Kagan scriveva: “E’ tempo di smettere di pretendere che gli europei e gli americani condividano una stessa visione del mondo, o persino che essi abitino lo stesso mondo (…). Su tutte le questioni essenziali relative al potere, le prospettive europee ed americane divergono (…). Questo stato di cose non ha nulla di provvisorio (…). Le ragioni della frattura transatlantica sono profonde, esse vengono da lontano e sono destinate a perdurare (…). Gli Stati Uniti e l’Europa hanno ormai preso cammini differenti”.
Medesime conclusioni presso il geopolitico Charles A. Kupchan, il quale afferma che necessariamente la rivalità fra l’Europa e gli Stati Uniti s’intensificherà. “La ricchezza dell’Unione europea – egli spiega – rivaleggia già con quella degli Stati Uniti, e l’Europa sta per forgiarsi una coscienza collettiva ed un carattere molto distinti da quelli dell’America. L’Europa e l’America divergono contemporaneamente sui valori e sugli interessi. Seguono dei modelli sociali differenti e fortemente contraddittori”. “Fino a questo momento unito – conclude – l’Occidente sembra proprio sul punto di separarsi in due metà concorrenti”.
Tali propositi hanno almeno il merito della chiarezza. Ma è importante rimarcare che essi non fanno altro che attualizzare, in maniera brutale, una vecchia tendenza di fondo. Dall’origine, in effetti, gli Stati Uniti hanno avuto un conto da regolare con l’Europa. Sono nati inizialmente da una volontà di rottura con l’Europa. Ciò di cui le prime comunità d’immigrati insediatisi nel Nuovo mondo volevano liberarsi, erano regole e principi esistenti in Europa. La nazione americana nasce all’epoca della modernità, sotto una forma contrattuale che evoca la “scena primitiva” immaginata da Freud: i figli si uniscono per uccidere il padre, poi concludono fra loro un contratto che sanziona la loro mutua uguaglianza. Il padre, nello schema, è chiaramente l’Europa.
Sempre contro l’Europa, nel dicembre 1823, James Monroe enuncia il principio centrale della sua celebre “dottrina”: nessun intervento europeo sarà ormai tollerato in qualsiasi punto del continente americano. “Abbiamo troppo a lungo ascoltato le muse raffinate dell’Europa!”, esclamava Ralph Waldo Emerson nel XIX secolo. “Sotto molti aspetti -constatano oggi Dominique Moisi e Jacques Rupnik – l’America è un’anti-Europa. Essa è nata dalla volontà di creare una ‘nuova Gerusalemme’ sulla terra al fine di superare i limiti e gli errori della storia europea”.
Ma gli americani non hanno voluto solamente rompere con l’Europa. Hanno voluto anche creare una nuova società suscettibile di rigenerare l’intera umanità. Hanno voluto fondare una nuova Terra promessa che potrebbe divenire il modello di una repubblica universale. Questo tema biblico che, al cuore del pensiero puritano, ritorna come un autentico leit motiv in tutta la storia americana dall’epoca dei Padri fondatori. Per George Washington, gli Stati Uniti sono una nuova Gerusalemme “concepita dalla provvidenza per essere il teatro dove l’uomo deve raggiungere la sua autentica levatura”. Thomas Jefferson li definisce come “una nazione universale che persegue delle idee universalmente valide”; John Adams come “una repubblica pura e virtuosa che ha per destino quello di governare il globo e di introdurvi la perfezione dell’uomo”. Del resto, è questa teologia puritana del “Covenant” che ispira la dottrina del “destino manifesto” (Manifest Destiny): se Dio ha scelto di favorire gli americani, essi hanno parimenti il diritto di convertire gli altri popoli al loro modo di esistere. A fianco dell’isolazionismo, che prescrive di separarsi dal mondo esterno, si trova dunque uno spirito da Crociata: il mondo intero deve progressivamente impregnarsi del valore universale del sistema americano.
Questa certezza fondatrice ispira una politica internazionale di cui l’unico principio è che ciò che è buono per l’America lo è automaticamente per il resto del mondo – fatto che permette di non aspettarsi dagli alleati che aiuti finanziari ed applausi. Le “relazioni internazionali” non significano allora null’altro che la diffusione a livello planetario dell’ideale americano. Incarnando il modello alla perfezione, gli americani non hanno bisogno di conoscere veramente gli altri. Sta agli altri adottare la loro maniera di agire. Non ci si può stupire, in tali condizioni, come tutti gli insuccessi incontrati dagli Stati Uniti nella vita internazionale scaturiscano così spesso dalla loro profonda incapacità d’immaginare che altri popoli possano pensare diversamente da loro.
Questa idea che gli Stati uniti abbiano per missione quella di aprire la strada all’umanità, questa idea che il mondo finirà per integrarsi al modello americano di cui l’intrinseca superiorità non potrà essere contestata da nessuno, questa idea che i valori politici e le norme morali americani debbano essere adottati da tutti, essendo i recalcitranti assimilati ad un “asse del male” che dev’essere sradicato con tutti i mezzi, ecco molto precisamente ciò che non si può ammettere.
L’Unione sovietica aveva una volta dei “satelliti”, l’America ha oggi dei vassalli. Gli Stati Uniti credono di poter, allo stesso tempo, dominare altri paesi ed allearsi con loro. La loro concezione di alleanza è una concezione in cui l’America cucina, mentre gli europei lavano i piatti. Ma gli Stati Uniti non sono, non più della Turchia, una potenza europea. I loro interessi sono differenti – e la loro maniera di difenderli differisce dalla nostra.
In un discorso rimasto celebre, Gorge W. Bush si era chiesto come fosse possibile non amare l’America. La risposta che lui stesso si dava a tale domanda (“noi sappiamo fino a che punto siamo buoni!”) era che ciò che si rimprovera agli Stati Uniti non sono i loro difetti, poiché non potrebbero averne, ma le loro qualità – fatto che induceva a considerare tutti i critici come dei malati, dei criminali o dei perversi. Appare in tal modo come George W. Bush e Osama Bin Laden vedano ugualmente il mondo in bianco e nero. Bush e Bin Laden appartengono allo stesso mondo, quello del nemico assoluto, del bene e del male assoluti, della mobilitazione totale in nome di un’unica divinità, in nome dell’ideologia dello Stesso. Bush parla di “crociata” nella stessa maniera che Bin Laden parla di Jihad: l’uno e l’altro vogliono condurre una guerra santa contro gli infedeli che non condividono il loro modo di pensare. I miscredenti devono essere convertiti o distrutti. L’asse del male di cui parla Bush comprende tutti gli stati che si oppongono all’instaurazione della “democrazia di mercato”. In quest’ottica non c’è una terza posizione possibile, non c’è un terzo potenziale: “Chi non è con noi è contro di noi”.
Degli europei, diceva tuttavia Emmanuel Todd, poco tempo fa’, “sarebbe sufficiente che essi decidano di concerto che l’egemonia americana non è una cosa positiva affinché essa cessi”. L’Europa ha in effetti i mezzi per fare da contrappeso all’America. Al momento attuale, essa supera già gli Stati Uniti per il numero di abitanti e per la produzione economica. Nel 1990, il PNL corrente dell’Unione europea raggiungeva i 7.000 miliardi di dollari contro i 5.900 miliardi di dollari degli Stati Uniti. L’Unione europea è oggi la prima potenza commerciale del mondo. Ciò che le manca, ancora una volta, è la volontà di utilizzare i mezzi di cui dispone, di dotarsi di mezzi militari e di strutture politiche comuni che gli permetterebbero di giocare, nell’ambito delle relazioni internazionali, un ruolo adeguato alla sua ricchezza ed alla sua popolazione.
Per rivestire un tale ruolo, l’Europa deve collocarsi in una prospettiva risolutamente continentale, fatto che implica che essa si leghi strettamente alla Russia e, al di là, alle nazioni asiatiche suscettibili di allearsi con essa. Nell’immediato, la costituzione di un asse Parigi-Berlino-Mosca, di cui si sono visti apparire i prodromi al momento della guerra contro l’Iraq, rappresenterebbe già una tappa essenziale.
Voglio sottolineare, per concludere, che in un recente sondaggio, il 91% dei francesi rispondevano affermativamente alla domanda: “L’Europa deve divenire una super-potenza?”. Ridiventare una potenza autonoma in seno ad un mondo multipolare, ciò non implica nulla di meno che concepire un reale progetto di civilizzazione. Ed è proprio questo l’obiettivo, perché se l’Europa non è un progetto di civilizzazione, essa non è nulla.