Europa delle Patrie per una Patria europea di Paolo Sardos Albertini

1. Eurofideisti

Siamo abituati a sentir parlare di “euroscettici”, categoria ripetutamente bollata dai politici e dai mezzi di comunicazione (curiosamente sembrerebbe che, nei confronti dell’Europa, il massimo concesso sia lo scetticismo, mai e poi mai la contrarietà); esiste però anche la categoria degli “eurofideisti”, coloro cioè che, nel rapportarsi all’Europa, fondano le proprie convinzioni piuttosto che sulla nuda realtà dei fatti, su quella maggiormente entusiasmante del proprio personale atto di fede, sul loro credere in un futuro certo e radioso del progetto europeo.

Per costoro la Costituzione europea doveva essere l’importante coronamento di quel processo estremamente rilevante che già si era realizzato negli scorsi decenni, la tappa finale verso il definitivo balzo in avanti, cioè verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

L’Europa, nata nell’immediato dopoguerra, ne aveva oramai compiuta tanta di strada e, con i trattati di Maastricht, era così giunta al passaggio cruciale del veder trasferite al soggetto comunitario buona parte delle politiche economiche degli stati nazionali, ciò attraverso l’istituzione di una moneta unica e dei vincoli di bilancio che andavano ad accompagnare la nascita dell’Euro.

La Costituzione, in tale prospettiva , doveva essere l’atto formale che, con la forza delle norme, ma ancor più con quella dei valori simbolici, andava a dare piena legittimazione e ricco contenuto morale a quel processo iniziato oltre mezzo secolo or sono dai padri nobili dell’unità d’Europa (Adenauer, Schuman e De Gasperi).

La Costituzione, inoltre, doveva essere premessa, trampolino per il prosieguo del percorso verso l’obbiettivo finale, quello della piena unità: con la messa in comune della politica (non solo economica) e, soprattutto, con il dare finalmente legittimazione vera, attraverso l’investitura da parte del popolo sovrano, agli organi rappresentativi dell’Europa.

Doveva essere tutto ciò, ma la realtà delle cose ha fatto naufragare o quanto meno ha gravemente arenato tante di queste rosee prospettive.

Ci sono stato innanzitutto la fatica e la sofferenza che hanno accompagnato la formulazione del testo costituzionale. Una elaborazione che si è scontrata su una questione di fortissimo valore ideale e morale, anche se di apparente marginalità politica: il rifiuti cioè dei costituenti europei al richiamarsi alle radici cristiane del nuovo soggetto. E così la Costituzione europea, nata sotto il segno di questo rifiuto, è sicuramente nata male.

Lo stesso testo costituente, che alla fine è stato approvato, si è rivelato pesante e farraginoso. Al confronto i 139 articoli della nostra Costituzione del ’48 appaiono un modella di sintesi costituzionale (per non parlare della Costituzione Usa e delle poche decine di norme che vi inserirono i Padre Fondatori).

Una Costituzione pletorica e logorroica, una Costituzione minata dal suo non richiamo ai valori fondanti, una Costituzione incappate infine in due solenni bocciature popolari (da parte dei Francesi e degli Olandesi), tanto che nessuno, al momento, osa sottoporla al rischio di nuove battoste elettorali.

Si aggiunga a tutto ciò che anche il percorso ordinario dei meccanismo comunitari (bilanci, contributi, eccetera) lungi dall’aver trovato spinta e stimolo, dopo la Costituzione, appaiono viceversa inceppati, perché risulta sempre meno proponibile il sacrificio di concreti interessi nazionali, in nome di un vago ed evanescente interesse comunitario.

E’ chiaro che, al momento, la dura realtà delle cose ha fatto naufragare tante di quelle rosee aspettative che animavano gli euro-fideisti, o quanto meno ha messo gravemente in crisi il loro fiducioso entusiasmo.

La domanda attuale appare in definitiva la seguente: questo progetto costituzionale europeo deve oggi essere visto solo in temporanea difficoltà o va piuttosto ritenuto come oramai morto e sepolto?

2. Il procedere del percorso europeo

Nel tentativo di proporre una risposta, a tale domanda, vale forse ripercorrere quelli che sono stati, lungo gli ultimi cinquant’anni, i diversi obbiettivi e le varie finalità che hanno segnato ed accompagnato il procedere del progetto europeo.

La nascita è stata sicuramente legata ad una volontà ben precisa: dopo la tragica esperienza del secondo conflitto mondiale, dopo che per ben due volte, in meno di trent’anni, le nazioni europee si erano drammaticamente scontrate sui campi di battaglia, con bilanci catastrofici sia intermini umani che materiali, dopo che tutto da ciò ne era derivato che, in realtà, nessun Paese europeo poteva considerarsi uscito dal conflitto quale vero vincitore, mentre era risultata la manifesta marginalizzazione politica del vecchio continente, dopo tutto ciò la strada di una unificazione europea apparve come quella più idonea a garantire un “mai più guerre, tra stati d’Europa” che costituiva, per ogni persona, per ogni politico di buon senso, la prima ed assoluta priorità, rispetto a qualsiasi altra.

Per prevenire la guerra lo strumento più efficace risultava sicuramente il metter in comune le materie che, all’epoca, servivano proprio a fare le armi, il carbone e l’acciaio, perché senza armi è obbiettivamente più difficile fare le guerre.

Il nocciolo costitutivo del processo europeo è così rappresentato dalla CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (alla quale si aggiungerà poi l’Euratom, anche questo non privo di riscontri militari).

In questo programma, di prevenzione bellica, la seconda logica tappa doveva essere la messa in comune della politica di difesa: la CED. Doveva, ma così non fu perchè l’intervenuto no del parlamento francese fece definitamene archiviare tale progetto.

Bloccato il percorso più strettamente politico, il disegno europeo si indirizzò verso altri obbiettivi: se la prima preoccupazione, degli statisti d’allora, era quella di finirla con l’ammazzarsi a vicenda, la seconda era quella di dar da mangiare alla propria gente (siamo in una situazione dove i problemi della gente sono quello della fame e del freddo e la sopravivenza, per tanti cittadini europei, risulta strettamente legata agli aiuti che arrivano dagli USA).

E’ dunque la scelta economica quella che determina il secondo passaggio di questo percorso: uscire dalle anguste dimensioni delle proprie economie nazionali ed approntare un mercato più ampio, a carattere sopranazionale, dove la libertà del confronto economico fosse foriera di benessere e di ricchezza per tutti.

E’ questa la scelta di libertà economica (con eccezione per l’agricoltura) che sta alla base del MEC, il Mercato Comune Europeo.

Una scelta anche questa vincente se è vero che dagli accordi di Roma del ’50 in poi l’Europa mercato ha dimostrato di saper ben funzionare, allargando le opportunità per le diverse economie nazionali ed alimentando, con l’ossigeno della libertà economica, una crescita di benessere che ha segnato tutti gli Stati coinvolti.

Una felice e riuscitissima scelta di libertà (economica) su cui si è in effetti costruito il benessere, e si è data ricchezza ai paesi del vecchio continente che si sono trovati a partecipare alla storia del Mercato Comune Europeo.

Ed è proprio quanto arrecato dal Mercato Comune Europeo, il suo aver reso sicuri e prosperi gli Stati che ne fanno parte a rendere così appetibile l’entrare in Europa per chi si era trovato ad esserne fuori, per quella porzione di Europei che si sono viceversa trovati partecipi della miseria, dello squallore, dell’assenza di libertà che hanno segnato gli Stati del cosiddetto socialismo reale.

 

3. Eterogenesi dei fini ?

Dalla fine degli anni ’80 abbiamo assistito ad un mutamento, nelle finalità del sistema Europea, un mutamente il larga misura implicito, latente, ma non per questo meno chiaramente percepibile.

Da un lato la conclusione della Guerra Fredda (con lo sfacelo per implosione del blocco comunista) ha esaurito quelle motivazioni difensivistiche che comunque costituivano un collante non secondario; poi il progressivo affermarsi di una realtà economica mondiale ha fatto sì che l’Europa, come mercato, perdesse gran parte della sua attrattiva (c’era un mercato globale, ben più attraente); infine il dato forse fisiologico, forse patologico di una crescente burocrazia europea. Gli euroburocrati, come tutti i loro colleghi, provano infatti una attrazione irresistibile per l’emanare norme, regole, vincoli di tutti i genere, meglio se inutili ed assurdi. Codifico ergo sum, sembra essere il loro motto.

Tutto ciò ha determinato una sorta di eterogenesi dei fini della vicenda europea. Da Strasburgo o da Bruxelles o dal Lussemburgo (è tutta da raccontare la storia grottesca della sequela di TIR che gira in continuazione tra le capitali europee per trasportare il materiale cartaceo che accompagna il variare delle sedi ove si decide e si delibera) non è più arrivata ai cittadini d’Europa un messaggio di libertà (liberi da balzelli, da dogane e da vincoli varii), bensì una caterva di norme e di divieti di ogni genere, dove quelli pluri citati del calibro dei piselli o della curvatura delle banane sono solo esempi di tutto un surreale modus operandi.

Euroburocrati che imperversano (anche perché super retribuiti) e che giustificano tale loro operare, proponendo sostanzialmente una finalita nuova alla struttura europea: quella cioè di essere fonte non più di libertà, bensì di tutela e di garanzie.

A tale fenomeno, attribuibile all’euro burocrazia, va poi aggiunto quello diverso, ma di fatto convergente, imputabile invece agli euro banchieri.

Costoro, dopo l’istituzione dell’Euro, si sono trovati a gestire, di fatto, buona parte delle politiche economiche dei paesi europei e lo hanno fatto non all’insegna dello stimolo, della ricerca dello sviluppo, bensì esclusivamente su una linea difensiva, tutta incentrata sul timore dell’inflazione, tutta articolata in vincoli e divieti posti ai singoli Stati e corredati di pesantissime sanzioni in caso di violazioni.

L’Europa dei banchieri e l’Europa dei burocrati si sono così trovate concordi nel proporre un modello, al negativo, del progetto europeo, nel produrre divieti e limiti, anzicchè slancio, sviluppo, speranza.

La Costituzione europea poteva essere l’occasione per supplire a questo vuoto di idealità e di carenza di motivazione, per imboccare una strada nuova e propositiva? Forse avrebbe potuto, probabilmente avrebbe dovuto esserlo, di sicuro così non è stato.

La Costituzione europea, con i suoi poveri contenuti, con la sua farraginosità, è stata viceversa la chiara dimostrazione di una occasione palesemente mancata.

Poi le bocciature da parte dei cittadini d’Europa, il timore della dirigenza europea di affrontare nuove prove elettorali, la crisi di coesione che ha segnato tutto l’operato della dirigenza europea hanno finito con il costituire la prova provate, la dimostrazione indiscutibile di una situazione di crisi: l’Europa non può essere quella dei burocrati e dei banchieri, l’Europa ha bisogno di finalità alte, ha necessità di obbiettivi veri, l’Europa ha bisogno di un’anima per proseguire nel suo cammino.

La Costituzione non è stata certamente in grado di offrire quest’anima all’Europa.

 

4. L’Europa ed il resto del mondo

A completamento dell’analisi, per prospettar una risposta sul futuro del progetto europeo, vale integrare, quanto fin qui detto, con una analisi diversa.

Le considerazioni che precedono riguardano tutte i meccanismi per così dire intrinseci alle vicende europee. Occorre ora aggiungere, a queste considerazioni, una lettura dei fatti che tenga anche conto del contesto di politica internazionale, nelle quali tali vicende si sono realizzate.

La nascita del progetto europeo, alla fine della seconda guerra mondiale, risulta sicuramente di difficile comprensione se non collocata nella logica della Guerra Fredda. I sei paesi costituenti si trovano, non a caso, tutti nell’area occidentale, tutti e sei erano alleati degli USA nella guerra (fredda) che questi stavano sostenendo, tutti e sei sentono drammaticamente la minaccia dell’URSS e della sua Armata Rossa..

Il nascere del progetto europeo beneficia, esplicitamente, della sponsorizzazione statunitense; specularmene non meno esplicita la decisa contrarietà sovietica (sintomatico che i diversi partiti comunisti occidentali – come sempre fedeli portavoce di Mosca – fossero tutti schierati su posizioni antieuropeiste).

Nella logica degli interessi Usa è di certo ben comprensibile sia il vantaggio di uno strumento che metta fine alle guerre perenni tra questi suoi alleati, sia il vantaggio che questi alleati scelgano gli strumenti del libero mercato e che, con tale scelta, si aprano a situazioni di sana economia, capaci di sottrarli al bisogno di essere alimentati dagli Stati Uniti stessi.

Mai più guerre (CECA ed Euratom), sì alla liberalizzazione dei mercati (MEC), vale a dire i due fini primari del processo europeo, non potevano dunque non trovare non solo l’approvazione, ma anche la forte spinta, da parte degli Stati Uniti.

Lo scenario cambiò dopo l’89. Con la fine (per bancarotta fraudolenta) del Comunismo i rapporti Europea – Usa subiscono necessariamente una evoluzione.

Maastricht, con le sue implicite aspettative di dare vita ad un’area monetaria concorrenziale con quella del dollaro, raccoglie di sicuro un qualche sospetto a Washington. Sospetti che si concretizzano nelle scelte politiche della presidenza Clinton: un attivismo diplomatico-militare in Europa (nei Balcani) difficilmente spiegabile se non nella logica di indebolire l’Europa stessa.

Era infatti arduo da capire, nelle guerre balcaniche degli anni ’90, tutto l’interesse statunitense per la Bosnia e per il Kossovo , regioni sicuramente marginali, sicuramente lontanissime da Washington, sicuramente prive di particolari interessi economici, sicuramente estranee a qualsiasi linea di grandi traffici. Di fronte a tale politica del presidente Clinton poteva poi apparire ancor più indecifrabile il fatto che la scelta di campo statunitense avesse un comune denominatore: in quei conflitti sostanzialmente etnico-religiosi venivano sempre a comunque privilegiate, dagli USA, le componenti mussulmane, così nella mattanza bosniaca, così nei sanguinosi eccidi kossovari.

In realtà è forse proprio questo ultimo aspetto a spiegare le ragioni dell’interesse USA: cogliere cioè l’occasione balcanica per incrementare la presenza mussulmana all’interno della realtà europea. In Europa ci sono già i milioni di magrebini di Francia, in Europa ci sono già i milioni di Turchi di Germania, aggiungervi i mussulmani dei Balcani ( di Bosnia e del Kossovo) significava indubbiamente inserire, all’interno del Vecchio Continente, un elemento non da poco di debolezza, un vulnus certamente tale da compensare ampiamente le velleità concorrenziali di Maastricht.

Questa la logica degli anni ’90 e delle presidenze democratiche. Poi, l’undici settembre 2001, avviene un fatto nuovo che segna una svolta storica per gli Usa e forse per il mondo tutto.

La consapevolezza che esiste un soggetto (l’estremismo islamico) che ha deciso di scatenare un conflitto mondiale contro gli Usa, contro l’Occidente, contro la Cristianità; un conflitto che – almeno dai suoi promotori – è sicuramente avvertito come scontro tra due diverse civiltà, tra due diverse culture.

La consapevolezza di tale sconvolgente novità modifica radicalmente le prospettive della politica statunitense in tutto il mondo ed anche nei confronti dell’Europa. Con un rovesciamento drastico delle scelte (miopi e suicide) di Clinton, la presidenza Bush chiede all’Europa un appoggio in quella che viene ormai avvertita come la priorità assoluta e totale: un coinvolgimento nella guerra in atto contro l’estremismo islamico e contro i suoi strumenti, vale a dire il terrorismo e gli stati mussulmani che del terrorismo siano sponsor e protettori (Afganistan, Irak e così via)..

Sappiamo bene come l’Europa rispose a tale domanda. Innanzitutto mancò un atteggiamento unitario, le risposte vennero in ordine sparso: Inghilterra, Italia e paesi dell’Est schierati con gli Usa, gli altri (Francia e Germania, in primis) tutti impegnati a distinguere, a contrastare, a contestare. Altrettanto chiaro fu che la dirigenza europea come tale (all’epoca della Presidenza Prodi) non era sicuramente orientata sulle posizioni filo Usa. Tutt’altro, preferiva piuttosto, a scanso di ridicolo, invocare il ruolo salvifico dell’ONU !

Ecco quindi il quadro politico internazionale nel quale si è andata a collocare la nascita della Costituzione europea, il quadro nel quale vanno lette le vicende, le difficoltà attuali.

Nello scontro di civiltà Islam – Occidente la scelta europea appare sostanzialmente quella di sperare che basti negare la realtà dello scontro, che basti non prendere posizione per non dovere subire i danni di tale conflitto. Ma la politica dello struzzo difficilmente porta molto lontano: le calde notti delle periferie francesi forse sono solo le prime avvisaglie di ciò che gli struzzi d’Europa si rifiutano di vedere.

In realtà, se è vero che l’undici settembre si è palesato uno scontro di civiltà (e solo chi non vuol vedere può negarlo), forse proprio questo dato drammatico ed epocale potrebbe costituire per l’Europa una nuova occasione, storica, per ridare slancio e futuro al proprio cammino.

 

5. Quale futuro per l’Europa?

L’estremismo islamico, con la sua evidente capacità di presa e di coinvolgimento su larga parte del mondo mussulmano, ha scatenato il suo attacco, agli USA ed all’Occidente in genere, collocandolo sotto il segno del conflitto di civiltà, se non addirittura della guerra di religione ( i nemici vengono definiti “ crociati”).

Dal punto di vista occidentale è chiaro che c’è una grossa resistenza ad ammettere che il conflitto vada letto in tali termini (ma quali diversi termini di lettura vengono proposti?). Comunque, anche a negare che si possa parlare di scontro tra civiltà (o tra religioni), resta il fatto innegabile che un peso determinante, in tale contesto, lo ha e lo avrà il senso della identità, la capacità cioè di essere consapevoli di ciò che siamo e di proporre quindi tale nostra identità come momento di confronto con altri che sono portatori di una identità diversa dalla nostra.

E’ forse proprio in questa prospettiva che all’Europa potrebbe aprirsi un compito nuovo ed un suo ruolo specifico: in quella parte del mondo che viene definito come Occidente è chiaro che proprio il Vecchio Continente ha costituito il luogo ove hanno trovato elaborazione i valori fondanti ed è il richiamo alla storia d’Europa, alle diverse storie dei Paesi Europei che solo può dare un senso ad un passato comune per chi oggi si senta parte dell’Occidente.

Il cittadino degli Stati Uniti, come quello dell’America Latina, il cittadino del Quebec come quello di Sidney possono trovare un loro comune denominatore solo nel momento in cui guardino, come loro radice, alla storia, alla cultura, alla civiltà che hanno coinvolto la terra d’Europa.

Ma è l’Europa di oggi, quella dei burocrati, quella dei banchieri, quella della Costituzione che non osa richiamare le radicio cristiane, è questa Europea, stanca ed asfitica, capace di parlare a tutto l’Occidente il linguaggio forte dell’identità?

La risposta, apparentemente, non potrebbe essere altro che negativa, tanto lontana appare l’Europa di Bruxelles da questo ruolo e da queste prospettive. I grassi burocratici, gli ottusi banchieri ed i politici piccoli, piccoli che animano lo scenario europeo appaiono lontanissimi da tale ruolo.

Ma non è escluso che le necessità delle vicende storiche- politiche possano far nascere quel qualcosa che oggi non c’è. Forse l’Europa avrebbe bisogno di una generazione di profeti e di poeti che sappia parlare a tutti noi il linguaggio della nostra identità, che sappia attivare in noi tutti il senso, l’orgoglio di ciò che noi siamo (Italiani, Francesi, Tedeschi e così via), per offriure tale consapevolezza all’Occidente tutto.

Ci sono dei precedenti nel nostro passato, nella nostra storia: il cittadino di Atene o quello di Corinto che scoprono la propria comune appartenenza e che tale identità dell’Ellade la propongono, quale radice profonda dell’Impero di Roma. E Costantino che, sulle acque del Bosforo, fonda la nuova capitale a lui intestata. Capace di coniugare la romanità con la Grecia. E’ che, su questo incontro, che si costruiscono le premesse di quell’Impero Romano Greco che durerà altre un millennio dopo la caduta di Roma.

E’ quello stesso Costantino che nel 313 aveva portato il Cristianesimo nel cuore della romanità ( a proposito di “radici cristiane”). Sarà proprio l’impero romano-greco di Costantinopoli che per tanti secoli si confronterà (e sovente in maniera vittoriosa) con la pressione dei popoli dell’Islam: verrebbe da credere alla suggestione di certi richiami, al fascino di analogie così ricche di attrazione.

Un sintetico percorso su cui ragionare: l’Europa delle Patrie per costruire la Patria Europa; la identità europea come nocciolo duro, come pietra angolare di tutta la identità occidentale.

E’ solo un sogno? Può ben essere. Ma in tale caso al risveglio resterà solo, da constatare, che anche l’Europa è stato un sogno, ormai tramontato.

Ed a noi genti del Vecchio Continente non resterà che la scelta tra il ritrovarci soggiogati all’Islam trionfante oppure (e speriamo vada così) costatare di esser stati salvati, una volta di più e senza nostri veri meriti, dai cugini d’Oltre Oceano. Dei quali giustamente ci ritroveremo più che mai vassalli.

Paolo Sardos Albertini.