Trieste aveva pagato per tutti e ora poteva piangere di gioia. Pioveva e alla radio Nilla Pizzi cantava: "Vola, colomba bianca, vola/ diglielo tu/ che tornerò./ Dille che non sarà più sola/ e che mai più/ la lascerò", la canzone dedicata a Trieste, [testo e audio] che aveva vinto nel '52 il Festival di San Remo. La folla, dal posto di blocco di Duino fino in città, formò un fiume umano di 25 chilometri e rimase tutta la notte ad aspettare l'arrivo dei soldati italiani. Il sindaco, l'ingegner Gianni Bartoli, davanti alla marea di bandiere che riempiva piazza dell'Unità ? c'era la gente sui tetti, alle finestre, ai balconi, arrampicata sui lampioni, ovunque ? strozzato dalla commozione, non riuscì che a ripetere: "L'Italia è tornata, è tornata, è tornata".
Cinquant'anni fa, 26 ottobre 1954. Alle 5,20 i primi ad entrare in città furono i fanti dell'82.o reggimento, seguiti poco dopo le 7 dai carabinieri e dai bersaglieri dell'8.o reggimento della divisione "Ariete". Le ragazze salivano sui camion dei militari, li abbracciavano, li baciavano, li accarezzavano, cantavano, ridevano, piangevano. La gioia di quel giorno, le vecchie foto ingiallite lo raccontano, fu espressa da loro, le triestine e loro fu il volto della liberazione e della vittoria. E seppero amarle e farle amare quelle ore. Mescolati tra quei volti c'erano tanti soldati americani, che tornando se le sarebbero portate a casa quelle ragazze, che avevano conosciuto l'orrore di un dopoguerra in una città, come scrisse l'inviato speciale Giorgio Bocca, "che aveva avuto l'amaro privilegio di trovarsi in prima linea".
Gli americani, a differenza degli inglesi che venivano accusati come minimo di avere un atteggiamento colonialista, erano amati dai triestini, sentimento che ricambiavano in modo convinto. Purtroppo la linea Wilson, quella sostenuta da Washington, che avrebbe assicurato all'Italia l'Istria e avrebbe rintuzzato le pretese espansionistiche di Tito, non era riuscita ad imporsi sull'ostilità sovietica e sulla freddezza franco?inglese. Ma gli americani furono sempre a fianco dei triestini e durante gli anni del cosiddetto Territorio libero non avevano mancato di esprimere la loro amicizia con l'invio di navi cariche di doni destinati alla cittadinanza.
In quella mattina di pioggia e di bora furono pochi, tra quei ragazzi italiani in divisa che sfilavano in mezzo alla folla esultante, quelli che riuscirono ad arrivare in caserma con il cappello piumato ancora integro. Mostrine, stellette, gradi, distintivi e piume venivano strappati per averli come ricordo di un giorno, che tanti negli ultimi dieci anni avevano disperato di vivere. Nel porto erano attraccati alle 11,30 l'incrociatore "Duca degli Abruzzi" e i caccia "Grecale", "Granatiere" e "Artigliere" e anche le navi furono prese d'assalto. Nel cielo sfrecciarono gli F84 dell'aerobrigata di Treviso. Nell'aria non c'erano che tricolori.
All'Excelsior si sarebbe dovuta svolgere la cerimonia del passaggio delle consegne tra il generale Edmondo De Renzi, comandante dei reparti italiani, e il generale britannico John Winterton. Il governatore uscente del Territorio Libero, che l'anno prima, il 5 e 6 novembre del 1953, aveva represso nel sangue la rivolta scoppiata il 4 novembre, dopo i festeggiamenti per l'anniversario della vittoria a Redipuglia. Gli agenti avevano inseguito i manifestanti fin dentro la chiesa di sant'Antonio Nuovo e i soldati inglesi avevano sparato, due giovani erano stati uccisi. Il giorno dopo il bilancio salì a cinque morti e un centinaio di feriti. Ai funerali parteciparono 150 mila persone. Anche in quella occasione gli americani solidarizzarono con gli italiani contro i britannici e, prima di tutto, contro i comunisti jugoslavi. Così quella mattina del 26 ottobre 1954, il generale Winterton, che avrebbe dovuto mostrarsi in pubblico per l'ultima volta, non si presentò alla cerimonia. Venne accolto invece tra gli applausi il generale americano Dabney. Winterton aveva interpretato con troppo zelo, in modo perfino maldestro, il cambio di atteggiamenio del suo governo nei confronti di Tito, da quando questi aveva rotto con Stalin, decisione in seguito alla quale era diventato corteggiatissimo. Così quella mattina Winterton dovette ricorrere alla puerile scusa di dover partire prima del previsto perché c'era cattivo tempo. Non scampò comunque ai fischi dei triestini, che accompagnarono l'incrociatore Whirlwind, mentre usciva dalla rada, mentre lui era a bordo.
Erano passati nove anni da quando il 1° maggio 1945 i partigiani di Tito erano entrati nella cíttà, decisi a rimanervi e con l'intenzione di far arretrare il confine italiano fino all'Isonzo se non fino al Tagliamento. Una voglia di rivalsa in parte motivata, come scrisse nel suo diario Paolo Emilio Taviani, che fu ministro della Difesa durante i giorni più critici della crisi triestina: "I metodi dittatoriali del ventennio avevano lasciato molti risentimenti negli abitanti di lingua slovena e croata della Venezia Giulia. I due anni e mezzo di occupazione militare italiana avevano alimentato violenti propositi di rivincita". Sarà bene anche ricordare che dopo l'8 settembre 1943 e a seguito dell'istituzione dell'Adriatisches Kustenland, il fittizio Litorale adriatico inventato dai nazisti rispolverando una memoria asburgica, a Trieste arrivarono personaggi tra i più feroci del fanatismo nazista, come il gauleiter Friedrich Rainer e il generale Odilo Globocnik, fra l'altro triestino di nascita, che fecero finire nel forno della Risiera cinquemila persone. Globcnik aveva partecipato all'operazione T4, l'eliminazione degli handicappati e dei malati di mente e, come governatore di Lublino, aveva fatto sterminare 1.650.000 ebrei. A Trieste i nazisti lasceranno anche la memoria dei 50 ostaggi impiccati nell'aprile del '44 e appesi per giorni alle finestre di un palazzo del centro.
Nel biennio '43?'45 la città si trova nella morsa comunismo nazismo e non è abbastanza noto il fatto che alla fine del '44 la fascistissima X Mas del principe Junio Valerio Borghese cercò contatti con gli inglesi e i partigiani non comunisti per costituire un fronte anti?jugoslavo. Eccidi come quello di Porzus dei partigiani cattolici, nel febbraio '45, possono offrire una spiegazione a quella che sommariamente può sembrare la ricerca di un'alleanza paradossale.
Con un giorno e mezzo di anticipo sull'8a armata angloamericana, i partigiani di Tito entrano a Trieste e i loro primi atti sono da predatori: svuotano le casse della Banca d'Italia, saccheggiano le case, violentano, il 5 maggio falciano a colpi di mitragliatore cortei dove sventola il tricolore, danno vita a sequestri in massa di sventurati, di notte scaricati vivi nelle voragini carsiche. Le urla degli agonizzanti si levavano dalle viscere della terra per giorni, chi udiva fingeva di non sentire, ai sopravvissuti che aggrappandosi ad un ramo o ad un sasso, a qualunque cosa che potesse trattenerli dall'abisso venivano buttate addosso fascine di paglia incendiate. A migliaia finirono nelle foibe del Carso, oltre 5mila secondo una stima minima, 15mila come cifra totale ultima secondo la valutazione più diffusa. Gli italiani che non scappano impazziscono di paura, scrivono i rapporti ministeriali inviati agli al leati. Un terrore durato anni e divenuto sistematico nei 40 giorni di occupazione di Trieste. Uno sterminio etnico esteso a tutte le zone di fatto annesse dal regime di Belgrado e che determinò l'esodo di 350.000 italiani dell'Istria e Dalmazia, che cercarono riparo in patria e che, dopo aver dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, vennero accolti dall'ostilità dei comunisti italiani, che al pari di quelli di Tito li bollarono come fascisti, sebbene la loro colpafosse quasi sempre solo quella di essere italiani. Li attese un destino coperto dal silenzio, voluto dai comunisti e avallato dagli opportunismi di un'Italia, che aveva bisogno di rimettersi in piedi, chiudendo con il passato. Li attese, quegli sventurati, una vita precaria dal momento che nel 1960 c'erano ancora 12 mila istriani nei campi profughi. Un'emergenza che fece di Trieste la città con un indice di disoccupazione doppio di quello nazionale.
La città, oltre che vittima di una pace punitiva, come la voleva Churchill, diventò pedina nel gioco internazionale della guerra fredda e la rottura di Belgrado da Mosca fu tutta a svantaggio delle attese italiane. Il 9 giugno '45, in attesa di una soluzione definitiva, l'occupazione jugoslava di Trieste dovette accettare la divisione di una cosiddetta Zona A, sottoposta ad un governo angloamericano, che comprendeva Trieste e un piccolo territorio circostante, nonché un'enclave sulla punta meridionale dell'Istria, e una Zona B, la gran parte della Venezia Giulia, che di fatto fu annessa dall'Jugoslavia. Una spartizione, in cui Tito fece la parte del leone. Il 12 giugno '45 finirono i 40 terribili giorni di occupazione di Trieste, le truppe jugoslave abbandonarono la città e si installò il governo militare alleato. I triestini, certo non quelli comunisti che avrebbero voluto l'annessione alla Jugoslavia, si riversarono per festeggiare la fine dell'incubo. Ma il cammino per riportarli alla democrazia e all'Italia sarebbe stato ancora molto lungo. Difficile ma possibile. Sorte che non toccò agli italiani della Zona B. a quattro.
articolo di Giovanni Morandi
tratto da "Dossier" suppl.del Quotidiano Nazionale
settembre 2004 "Il tricolore a Trieste"