Il Vescovo Antonio Santin: una testimonianza di don Ettore Malnati

La Voce del Popolo 11/11/05

TRATTATO DI OSIMO: LA TESTIMONIANZA DI DON ETTORE MALNATI
«Antonio Santin, un prelato impegnato per la sua gente»

TRIESTE – Dal Memorandum di Londra del 1954, una spada di Damocle incombeva sull’ignaro destino di Trieste e della Zona B.
Si subodoravano le attività politiche, ma non si conoscevano precisamente. Anzi, tante erano le rassicuranti dichiarazioni degli uomini del Governo italiano da non indurre al sospetto che si stava agendo nell’ombra delle segreterie dei partiti.
Le ultime battute sagaci; quelle nel 1974, dell’allora presidente del Consiglio Andreotti, invitavano perfino a sciogliere i "Centri di difesa della Zona B".
Neanche un anno dopo, il 10 novembre 1975, con un tratto di penna, veniva sancito il Trattato nella cittadina marchigiana di Osimo. Contraendi dei due Paesi: per l’Italia il ministro degli Esteri, Mariano Rumor, per la Jugoslavia, Miloš Minic'.

Qualcuno sostiene che non fu casuale la data in cui venne firmato il Trattato: novembre del ‘75. L’ultimo impedimento sarebbe stato proprio il Vescovo di Trieste e Capodistria che, se pur impedito nell’esercizio delle sue funzioni nella Zona B, rimaneva sempre vescovo per la gente di quella terra.
Il 29 giugno di quello stesso anno la Santa Sede accoglieva le dimissioni dell’arcivescovo mons. Antonio Santin dalla diocesi – che già erano state prorogate da Paolo VI di cinque anni. Ora non c’era più alcun ostacolo per portare a termine il patto tra l’Italia e la Jugoslavia.

Una «coscienza critica»

L’arcivescovo Santin rimaneva, anche se "in pensione", una coscienza critica. In uno "scenario storico straordinariamente complesso" aveva alzato la sua voce per difendere i diritti di Dio e dell’uomo, quando questi erano calpestati dai vari dominatori di turno. Lo faceva con determinazione e prontezza.

In un articolo di Indro Montanelli, apparso sul Corriere della sera nel 1954, si può cogliere il pensiero che guidava l’agire del vescovo: "A una cosa sola non ho il diritto, ma il dovere di dire di no: a una certa condizione umana che esula dalla politica, e che nessuna regola politica potrà mai impormi di accettare. Perché a chi tenti per politica di calpestare il Diritto e la Giustizia, non è più il vescovo, è Dio che dice ‘Indietro!’".

È difficile trovare materiale di trenta anni fa circa dichiarazioni o posizioni di mons. Santin, se non in una intervista a Epoca, dove diceva: "Si potevano lasciare le cose come stavano. C’era molta apertura; quelli di là vengono qui e viceversa. Perché cambiare? Il Memorandum parla di una situazione di fatto; tu amministri la Zona A; io amministro la Zona B ed è finita. Non discutiamo di diritto. Potremmo farlo tra cent’anni. Adesso voglio sapere perché si deve cedere questo diritto? Che cosa ne viene? È un rimuovere il dolore, riaprire una ferita che per tanta povera gente, si stava cicatrizzando".

Un archivio che parla di un'epoca

Per saperne di più, abbiamo incontrato don Ettore Malnati presso la chiesa di Sion a Trieste. Don Malnati è stato l’ultimo segretario dell’arcivescovo. Dal 1971 sino alla morte di mons. Santin, avvenuta nel marzo del 1981. Del presule don Malnati è l’unico che in modo serio ne abbia conservata viva la memoria, custodendo l’archivio, gli scritti, le note del vescovo. Molte anche le pubblicazioni, promosse dall’ex segretario, di vari libri con la precisa collaborazione del dott. Sergio Galimberti.

* Don Ettore, mons. Santin era una voce autorevole e in più di un’occasione la levò per contrastare situazioni e questioni "scottanti e delicate". Come reagì il vescovo alla notizia di un possibile Trattato tra l’Italia che avrebbe ceduto definitivamente la Zona B alla Jugoslavia di Tito?

"Quando mons. Santin ha potuto avere notizie abbastanza certe circa quanto il Governo era determinato a fare, senza aver interpellato la Città, visto che era in gioco l’economia e l’ecologia di Trieste e del Carso – oltre alla volontà rinunciataria della Zona B data in amministrazione agli jugoslavi, ricordo che scrisse personalmente al ministro Andreotti per avere spiegazioni di ciò che stava accadendo".

* Il Vescovo dopo il giugno del 1975 era in quiescenza. A livello cittadino rimaneva sempre una figura di spicco. Fece qualcosa in particolare?

"Molte personalità locali, e non, interpellarono e vennero interpellate dall’arcivescovo che ben conosceva la situazione della Venezia Giulia. L’arcivescovo fece presso le sedi istituzionali tutto quello che poté. Quando si ebbe la notizia che a Osimo venne firmato il Trattato, assieme a migliaia di triestini che si organizzarono per una manifestazione silenziosa in piazza dell’Unità d’Italia, mons. Santin volle essere presente. Così manifestava la gravità dell’atto, voluto dalla partitocrazia di allora e dai suoi satelliti, senza aver consultato la Città, che poi avrebbe dovuto subirne le conseguenze".

La manifestazione silenziosa di Piazza Unità

* Sicuramente un gesto forte e inequivocabile circa la sua disapprovazione.

"Come era suo solito. Anche in questo caso fu prudente, ma determinato e leale verso la sua gente".

* La stampa di allora come presentò all’opinione pubblica quanto a Osimo era stato siglato?

"La stragrande maggioranza della stampa locale riportava in modo acritico i pareri delle varie segreterie di partito, che avallavano la scelta rinunciataria del Trattato di Osimo. Sicuramente non adempì a quel dibattito politico sereno che sarebbe stato necessario in un clima democratico e non partitocratico".

* Una voce fuori dal coro era la stampa cattolica, in particolare Vita Nuova. Prese nettamente posizione…

"Oltre alla stampa di informazione delle varie famiglie istriane, il settimanale cattolico Vita Nuova fu la voce qualificante che sostenne la pericolosità e la gravità del Trattato di Osimo. Per questa scelta, uno dei provvedimenti chiesti al nuovo vescovo di Trieste mons. Lorenzo Bellomi fu quello di "provvedere a ciò". Tutta la redazione del settimanale venne esonerata dall’incarico. Non fu certo un gesto profetico, sapiente e avveduto per chi era appena giunto alla guida religiosa della città giuliana".

* Più che di un gesto avveduto, si trattava evidentemente di un’epurazione, suggerita da cattivi maestri. Quindi anche lei che faceva parte della redazione espresse le sue opinioni in merito. Da quei tempi ha cambiato parere?

La risposta di Trieste

"Oggi possiamo dire, e già lo dissi a suo tempo, che il Trattato di Osimo fu una mossa miope, inopportuna e moralmente e politicamente ingiusta. Infatti "grazie" al cedimento di Osimo, dopo lo sfaldarsi della Jugoslavia, nello spazio di trenta chilometri abbiamo tre confini, con la spartizione della penisola istriana come oggi la vediamo".

* L’ha definita una mossa moralmente e politicamente ingiusta. Indice di una arrendevolezza e insipienza dell’Italia che non trovava contropartita alcuna con la federativa di Tito?

"Precisamente. Questo perché si veniva a premiare l’arroganza e la violenza che il regime di Tito aveva innescato causando dalla terra istriana l’esodo di 350.000 suoi cittadini e la persecuzione etnica e religiosa. Atteggiamenti questi contrari ai diritti della persona umana e dei popoli".

* Qualcuno definì il Trattato di Osimo "il funerale di Trieste". Sicuramente fu un errore fatale, nonostante chi ha voluto mettere la benda ideologica. Secondo lei, Trieste ha saputo reagire oppure è rimasta vittima di questa manovra?

"Trieste fu sola nei confronti di questo strapotere della partitocrazia. Fu lì che la Trieste civile si organizzò per far sentire la sua progettualità politica e sociale. Diede così vita a quel movimento delle 65.000 firme che originò poi il soggetto politico della lista civica".

* Quindi, Trieste non è rimasta in ginocchio a piangere su se stessa…

"Trieste in questo fu in assoluto la prima a sgretolare il carrozzone partitocratico che ha portato a Tangentopoli e alla gestione clientelare dagli anni ’70. Poi conosciamo l’epilogo: la fine della prima Repubblica".

Paolo Rakic