di Francesco Dal Mas
Entrano nel vivo le celebrazioni per i 50 anni del ritorno all'Italia, dopo 11 anni di successive occupazioni (nazista, slava e alleata) e molte tragedie. Parla lo storico Pupo Trieste ultimo risorgimento
L'AVVENIRE 26/10/04
"Fu una stagione di passioni estreme nella quale la Chiesa, e soprattutto il vescovo Santin, divenne l'unico punto di riferimento credibile per la gente". In attesa del presidente Ciampi, che sarà in città il 3 e 4 novembre, le cerimonie per il 50° cominciano oggi. Con tanti tricolori, ma senza enfasi. Un clima che contribuisce agli approfondimenti storici. "Quel 26 ottobre di 50 anni fa – racconta e spiega Raoul Pupo, storico – l'Italia tornò a Trieste accolta da un entusiasmo ancor superiore a quello del 1918, perché il rischio per l'italianità della città era stato più elevato. La diplomazia italiana tirò un respiro di sollievo e poté muoversi con più libertà in Europa e nel Mediterraneo. Gli istriani se ne andarono in massa e si stabilirono in prevalenza a Trieste, a portata di vista delle loro case ormai perdute .
Trieste ritrovò quella sicurezza dell'identità che nella storia crudele del Novecento europeo solo l'appartenenza a uno Stato nazionale poteva garantire. Ora, dopo mezzo secolo, i confini che costarono tante sofferenze stanno cominciando a svanire sul terreno" .
Perché le truppe italiane furono accolte a Trieste con tanta festa? L'attesa era tanto forte? "Era un'attesa che durava da 11 anni. Infatti, fin dal settembre 1943 tutti i territori situati al confine orientale d'Italia erano entrati a far parte della Zona di operazioni germanica denominata Litorale adriatico e la sovranità italiana vi era stata di fatto sospesa; all'occupazione tedesca seguirono, senza soluzione di continuità – anche se con caratteri molto diversi – quella jugoslava e quella anglo-americana. Le popolazioni dell'area di frontiera si sono così trovate a pagare più di tutte le altre il peso della follia della politica estera fascista, che nel volgere di pochi anni riuscì a disperdere quasi integralmente i frutti della Grande Guerra. Per gli italiani dell'Istria fu l'esodo, per i triestini la necessità di vivere un'ultima esperienza di lotta per la sopravvivenza nazionale, cioè un'altra stagione risorgimentale" .
La vita fu sospesa per 11 anni. Ma i triestini non rimasero alla finestra .
"Quegli undici anni costituirono la fase più crudele della storia giuliana, segnata da tragedie collettive come le stragi naziste, gli orrori della Risiera di San Sabba, le foibe e le sparizioni di tanti cittadini. Fu una stagione degli estremi, sotto ogni profilo, in cui si incrociarono violente passioni collettive e grandi idealità, assoluta intolleranza e capacità di sacrificio spinta fino al dono della vita, riduzione del confronto politico allo scontro di piazza e fondazione del nuovo sistema democratico. In quel decennio di destino sospeso, a Trieste la competizione nazionale fu il perno non solo dell'attività delle élites, ma della vita quotidiana di tutta popolazione, che visse in un'atmosfera di continua mobilitazione politica, in cui si alternavano entusiasmi, preoccupazioni e speranze" .
Quale fu il contributo dei cattolici e in particolare della Chiesa? "Dietro lo scontro nazionale altri mutamenti si preparavano, collegati ai faticosi sviluppi della democrazia. Il principale fu la formazione di una classe dirigente cattolico-democratica, che assunse la guida di una città nota per il suo laicismo, ed in cui le tradizioni di movimento cattolico erano estremamente scarse. Ciò avvenne per varie ragioni, fra loro intrecciate. Il suicidio politico della tradizionale classe dirigente triestina, che ai tempi dell'Austria si chiamava liberal-nazionale ma si era rivelata pienamente nazionalista, sostenitrice del fascismo e pronta al compromesso con i nazisti. Il ruolo insostituibile assunto dalla Chiesa, durante la guerra e il lungo dopoguerra, grazie all'opera del vescovo Santin, strenuo difensore dei diritti dei cittadini prima contro la barbarie nazista e poi contro la minaccia del comunismo jugoslavo" .
Che cosa rappresentava esattamente monsignor Santin per gli italiani? "Per anni, il vescovo Santin rimase per gli italiani l'unico punto di riferimento credibile, durante l'eclisse delle istituzioni italiane. La nascita di un nuovo nucleo di personale politico, proveniente dall'Azione cattolica e forgiato nella resistenza, grazie all'opera di un altro sacerdote di eccezione, don Edoardo Marzari, presidente del Cln che lanciò l'insurrezione del 30 aprile 1945 contro i tedeschi, fondatore della DC, delle Acli, della Camera del Lavoro e rifondatore della Lega Nazionale .
Così, quando il Governo Militare Alleato consentì finalmente ai triestini di recarsi alle urne, fu un trionfo per Gianni Bartoli, dc di origine istriana, che negli anni successivi seppe interpretare con passione e riconosciuta efficacia le sofferenze e le speranze degli italiani di Trieste" .
Come si arrivò alla soluzione? "Il ritorno di Trieste all'Italia concluse una fase drammatica della storia sempre travagliata del confine orientale italiano, segnata dalle conseguenze devastanti della sconfitta patita nelle guerra fascista. Dopo il distacco di Tito da Stalin, inglesi e americani avrebbero visto con favore un accordo fra Italia e Jugoslavia, e i termini del possibile compromesso erano sotto gli occhi di tutti: la zona A all'Italia e la zona B alla Jugoslavia. Però in tal modo non solo l'Italia avrebbe perso le ultime cittadine istriane, ma gli italiani della zona B avrebbero perduto la loro terra, perché – dopo l'esperienza dell'esodo dai territori ceduti con il trattato di pace – nessuno dubitava che anche Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Cittanova e Umago si sarebbero svuotate. De Gasperi lo sapeva benissimo e non fu mai favorevole alla divisione del Tlt lungo il confine di zona. Nel 1953 però venne Pella, che cambiò le priorità della politica estera italiana: l'urgenza divenne il recupero di Trieste a tutti i costi, per evitare che le posizioni italiane in città si indebolissero (le pressioni anglo-americane infatti si stavano facendo pesanti) e per liberare finalmente la politica estera dall'ingombrante presenza della questione giuliana. Questo significava la spartizione lung o la linea Morgan e sul risultato finale in fondo tutti gli interlocutori erano d'accordo, ma arrivarci salvaguardando le esigenze di politica interna del governo di Roma e di quello di Belgrado si rivelò lungo e complicato. Fra bizantinismi diplomatici, minacce di intervento militare e mediazioni anglo-americane, passò più di un anno, e ai triestini l'avvitarsi apparentemente irresolvibile della crisi costò sei morti. Alla fine gli alleati trovarono il bandolo della matassa chiudendo un accordo preliminare con la Jugoslavia e presentandolo all'Italia nei termini "prendere o lasciare". E l'Italia, che lasciare non poteva – perché temeva che la situazione a Trieste le sfuggisse di mano, e perché non sopportava più che la sua politica estera rimanesse ostaggio di inglesi e americani – dovette accettare, con minori correzioni" .