Primavera 1945 : una testimonianza di una giovane donna di allora, di una quasi novantenne di oggi (che non vuole dimenticare)

Primavera 1945, poteva essere il 19 o il 20 marzo.

Arrivarono verso sera, erano in quattro, tre croati che non parlavano il dialetto istro-veneto e un oste di Scofia che si era unito ai partigiani e che faceva da interprete durante il rastrellamento.
A casa c’era Rosa, l’anziana madre che già aveva perso un figlio in guerra – arruolato a forza dagli ustascia benchè sordo, ucciso poi dai partigiani -, il marito, militare dell’esercito italiano, le due bambine di quattro e otto anni e i loro cuginetti orfani di guerra.

Bussarono alla porta mentre la famiglia stava per coricarsi. Il marito pensò subito che erano venuti a prenderlo, saltó giù da una finestra sul retro e scappò via. Ma erano lì per Rosa: “devi venire con noi in strada”, le dissero con modi che non lasciavano spazio a domande e chiarimenti, e permisero alla madre e alle bambine di accompagnarla. Poi però, passata la ‚mandria’ (una fattoria) fecero rientrare la bambina più piccola e la donna anziana perchè non avrebbero potuto camminare a lungo.

Per ore attraversarono in silenzio sentieri e patok, evitando le zone abitate e le strade; gli uomini le aiutavano spesso nei punti più difficili, ma continuavano a non dire una parola. Rosa non aveva idea di dove stesse andando, anche se sapeva che molti di quelli che venivano portati via non tornavano più. Arrivarono poi in un campo presso un canalone, dove c’erano molte persone, in parte sedute a terra. C’era una specie di baracca di contadini dove si tenevano gli interrogatori.

Dalla baracca uscì il ‚commissario’, per caso il suo sguardo incrociò quello di Rosa: “Rosa cosa fai tu qui?” Il commissario è il marito di una sua cugina, Rosa lo conosce bene e ha confidenza con lui. “Non lo so perchè mi hanno portato via”.

La fece passare per prima. Nella baracca c’era una specie di capo seduto dietro a un tavolo e un altro paio di persone; la accolsero con gentilezza perchè presentata dal ‚commissario’. Sul tavolo dei fogli, forse le denunce, le imputazioni. Il capo le rivolse una sola, secca domanda: “è vero che vai ogni giorno a Capodistria a dar notizie dei partigiani ai fascisti?” E Rosa ignara del momento rispose con semplicità: “No, vado a Capodistria perchò ho un amico sarto che mi da degli scampoli di stoffa, m’intaglia le braghette per i bambini”.

Non fecero altre domande, l’intercessione del ‚commissario’ bastava. Rosa era libera. “Se sarai una brava ‚drugarica’, le disse, ‚quando sarà tutto finito ti faremo sapere.’ Rosa non chiese nemmeno cos’è che le dovevano far sapere ed uscì dalla baracca. La bambina, cui le partigiane avevano dato intanto un po’ di latte, era spaventata. Aveva sentito la vecchia Ucia, una compaesana, piangere. Forse aveva insultato qualcuno e le avevano sparato a una gamba.

Madre e figlia camminarono tutta la notte, scalze, orientandosi solo con la direzione da cui erano venute e passando a pochi metri dall’accampamento tedesco. Arrivano a casa che era mattina, la vecchia madre in piedi ad aspettarle. Non saranno in molti quella notte a fare ritorno e i corpi non saranno più ritrovati.
Dopo mezz’ora bussarono alla porta: erano i tedeschi per un rastrellamento di cibo e di persone.

Epilogo:
Anche la vecchia Ucia sopravvivrà a quella notte ma resterà zoppa.
Il giorno della fine della guerra i partigiani passarono dalla fattoria di Rosa a chiederle se voleva vendicarsi. Rosa disse di no. Nello stesso giorno l’intera famiglia di chi l’accusò falsamente venne sterminata.
Negli anni seguenti Rosa rivedrà ancora l’oste di Scofie. E ogni volta non mancherà di chiederle scusa per quello che era successo.

Nel 1948 Rosa arriva a Trieste. L’amore per la patria rimane in quel nome italianizzato che non ha più voluto cambiare.