Quei carabinieri dilaniati dall’odio partigiano
tra i bersagli della lotta partigiana vi furono anche numerosi esponenti dell’Arma, che l’8 settembre 1943 ricevettero dal loro comandante, il generale Angelo Cerica, l’ordine di “restare al proprio posto continuando a svolgere il servizio”.
di Pier Luigi Pellegrin – La Padania 27/12/05
Prosegue l’opera dello storico Marco Pirina, che in questi giorni ha pubblicato “1943-1946 Storie di Carabinieri Scomparsi dalla Storia”, quattordicesimo volume dedicato alle vicende dell’immediato dopoguerra.
Stando alle ricerche dello studioso pordenonese, quindi, tra i bersagli della lotta partigiana vi furono anche numerosi esponenti dell’Arma, che l’8 settembre 1943 ricevettero dal loro comandante, il generale Angelo Cerica, l’ordine di “restare al proprio posto continuando a svolgere il servizio”.
In pratica fu come lasciare in preda ai lupi un gregge di agnelli indifesi, come dimostrano i tragici episodi riportati nel libro di Pirina. Uno dei quali si verificò il 23 marzo del 1944, a Bretto di Sotto, nell’Isontino, dove gli esponenti dell’Arma assolvevano il compito di sorvegliare una centrale elettrica. Nella serata di quel tragico giorno i partigiani titini catturarono e imprigionarono 12 carabinieri ai quali, dapprima, venne fatto mangiare un pastone a base di sale e soda caustica. Di seguito i partigiani appesero al soffitto il comandante (il vice brigadiere Dino Perpignano) con un gancio conficcato nei piedi e poi, dopo aver legato i prigionieri con il filo spinato, li uccisero tutti a colpi di piccone.
Abbandonati da un regime tragico e imbelle, assaliti ferocemente dai partigiani, tra i carabinieri in quell’epoca regnava non poco sconforto, come scriveva (in un promemoria per il Duce), il generale Archimede Mischi: «. dai miei contatti ho avuto la sensazione precisa che l’attaccamento dinastico sia decaduto dall’animo della generalità di essi, sia per spontanea avversione spirituale provocata dal tradimento del re; vuoi per l’accorta considerazione che comunque la guerra si concluda, nessun ritorno del re sarà mai più possibile». Nel suo libro, Pirina riporta una testimonianza da lui raccolta e a suo tempo resa nota molti anni fa, quando parlare di foibe era storicamente proibito e politicamente scorretto.
L’agghiacciante episodio, ricostruito dalle parole del partigiano titino Antonio Winkler, accadde nel maggio del 1945, quando Gorizia cadde nelle mani dei cetnici. Una notte i partigiani prelevarono 19 carabinieri dal carcere di via Barzellini e, dopo “averli intontiti sbattendogli la testa alle mura delle celle e legati con il fil di ferro”, li portarono fuori città per poi gettarli in un orrido profondo oltre 100 metri, alcuni dopo aver ricevuto un colpo alla nuca, altri “un calcione e giù vivi.”.
Nel volume di Marco Pirina sono riportati ed elencati altri massacri, che le forze partigiane compirono ai danni di carabinieri anche in Veneto, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Toscana. Sempre per l’editore Silentes Loquimur è uscito anche “Borovnica”, un libro nel quale l’autore, Franco Giuseppe Gobbato, ricostruisce in base a ricche e inoppugnabili documentazioni le vicende del campo di prigionia gestito dalle forze comuniste a Borovnica, nell’attuale Slovenia. Il libro di Pirina sta conoscendo un’importante “appendice” giudiziaria: le informazioni contenute nel volume, infatti, sono al vaglio delle procure militari di Padova e La Spezia. Un vero e proprio colpo di scena provocato da ricostruzioni che gettano una nuova luce sulla Resistenza. Innanzitutto, secondo lo storico pordenonese, le varie amnistie comminate al termine della guerra civile sarebbero “fuorilegge”. «Il 14 aprile 1945, Umberto II (luogotenente d’Italia dopo la fuga di Vittorio Emanuele) – spiega Pirina – emanò un decreto luogotenenziale del Regio Esercito, nel quale i partigiani venivano dichiarati “cobelligeranti”, vale a dire militari a tutti gli effetti. In pratica, tutto questo significa che i partigiani macchiatisi dei crimini più efferati non dovevano essere amnistiati, ma sottoposti alla convenzione di Ginevra. Pertanto, quando Palmiro Togliatti, nel 1946, coprì con l’amnistia gli eccidi partigiani commessi fino al 15 maggio 1945, commise un errore di valutazione perchè, essendo ancora in vigore il regno d’Italia, il decreto luogotenenziale non poteva in alcun modo essere annullato». Pirina mette poi in discussione anche gli atti di clemenza del 1952 e del 1953. «In questo caso – commenta lo storico pordenonese – i partigiani amnistiati dichiararono a propria discolpa di aver agito contro fascisti e tedeschi in azioni di carattere bellico. Vale a dire che ammisero di aver agito da partigiani, ovvero da “cobelligeranti del Regio Esercito”, quindi colpevoli di crimini di guerra né più né meno di qualsiasi altra figura militare.
Paradossalmente, l’amnistia avrebbe avuto effettivo valore se i colpevoli avessero ammesso di aver compiuto i loro crimini nelle vesti di “civili” coinvolti in atti bellici». Nonostante siano passati oltre sessant’anni dagli eventi, le persone che potrebbero, oggi, venir coinvolte dagli inquirenti delle procure militari di Padova e La Spezia sono più di 800.
«Certo – prosegue Pirina – si tratta di persone che allo stato attuale hanno pluriottuagenarie e che, sicuramente, non finirebbero in carcere. Ma nessuno vuole andare a caccia di vendette, queste ricerche vogliono solamente ristabilire la verità dei fatti storici legati alla Resistenza».
Chi volesse ricevere ulteriori informazioni, oppure ordinare direttamente i libri, può farlo scrivendo o telefonando a Centro Studi e Ricerche “Silentes Loquimur” CAP 33170 piazza Ottoboni nr.4 Pordenone – Tel: 0434 209008 e 0434 554230 fax: 0434 253056 e-mail pirinamarco@virgilio.it