In occasione di questo Dieci Febbraio abbiamo assistito alla prima consistente manifestazione di una corrente ideologica negazionista della tragedia che sessant’anni fa colpì la nostra gente.
di Enrico Neami
Il 10 febbraio 2007 è stata data notevole, come si è già più volte scritto: era infatti l’annuale ricorrenza del Giorno del Ricordo delle Vittime delle Foibe e dell’Esodo ed è il sessantesimo anniversario del Trattato di Pace di Parigi, quel Diktat che spense ogni illusione degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e li costrinse all’esilio condannandoli al genocidio.
Ma questo Dieci Febbraio è stato significativo anche sotto un altro punto di vista: ha assistito alla prima consistente manifestazione di una corrente ideologica negazionista della tragedia che sessant’anni fa colpì la nostra gente. Tali negazionismi, purtroppo, sono comparsi in pubblico avvallati da istituzioni e strutture accademiche – penso, ad esempio al convegno antifascista di Ancona, organizzato e supportato dalla locale università degli studi – o da prestigiose associazioni combattentistiche – penso alle manifestazioni di Treviso – o da partiti politici di rilevanza nazionale – e mi torna alla mente il manifesto affisso nelle strade della capitale da Rifondazione Comunista-.
Ma chi sono i negazionisti? Il termine venne coniato anni fa per annotare una corrente di pensiero che tendeva a negare la realtà dell’Olocausto, minimizzando l’attività dei campi di sterminio nazisti ed assimilarli, anzi, ai “semplici” campi di concentramento. Le tesi e le dichiarazioni negazioniste, nelle belle parole di un saggio di Claudio Vercelli, sono dichiarazioni di principio che, entrando in rotta di collisione con l’evidenza empirica, ne distorcono deliberatamente e volontariamente il lascito testimoniale e documentario .
I fini e gli scopi dei negazionisti sono molteplici ma potrebbero essere riconducibili a due categorie fondamentali, ovvero, per alcuni, l’ambizione ad una sorta di legittimazione ufficiale o ufficiosa da parte di strutture accademiche o comunque accreditate nel panorama scientifico, mentre per la massa l’enfatizzazione dei valori – o meglio disvalori – di un passato di cui nulla rinnegano e di cui enfatizzano selettivamente la storia.
Le tesi negazioniste si avvalgono di alcune prassi retoriche ormai consolidate – esiste a tal proposito un’interessante saggio del 1998 di Valentina Pisanty – che ricorrono con frequenza: focalizzare l’attenzione del lettore su aspetti specifici e particolari allontanandosi dal quadro generale per decontestualizzare un dato fenomeno storico ritenuto scomodo, l’utilizzo di slittamenti lessicali basati sul valore semantico di singoli termini linguistici utilizzati nella descrizione degli eventi storici, l’utilizzo spregiudicato di singoli documenti sconnessi da ogni vincolo archivistico o di contesto, il mascheramento del reale fine ideologico che sta alla base della tesi e l’utilizzo di strumenti comparativi propri delle scienze storiche e sociali forzandone i meccanismi e distorcendone i risultati.
L’attività negazionista è sempre pericolosa, in particolare nell’ambito di una storia poco nota e per nulla raccontata come quella delle tragiche vicende del Confine Orientale, dove persino il Giorno del Ricordo istituito per Legge dello Stato nel 2004 dimostra alcuni limiti in tal senso, restringendo spesso il cono prospettico del suo campo d’indagine nella memoria ai soli episodi di violenza del’43 e ’45 e tralasciando, di fatto, la lunga odissea dei campi profughi e le ingiustizie che ancora insistono sugli esuli tutt’ora in vita.
Poiché, però, l’attività di taluni “storici” tende a negare la realtà di fatti oggettivi mirando a scardinare la storia a partire da incongruenze banali e congetture, il lavoro di costoro viene minato sin da subito dalla relativa trasparenza del loro fine ultimo, ovvero quello della glorificazione di un regime come quello di Tito che, in tutto e per tutto, è stato condannato dal naturale scorrere del tempo. Non di meno, in una nazione in cui si prospetta, nei circoli politici d’elite, di elevare a reato la negazione della Shoah, sarebbe doveroso vigilare a livello istituzionale su quelle attività che lavorano in senso contrario – ovvero negando la realtà della tragedia delle foibe e dell’esodo – al significato profondo della Legge 92/2004.
Ciò che è davvero preoccupante, io credo, sia invece il revisionismo strisciante che ha colpito dall’interno il nostro panorama associativo. Con revisionismo si intende, ancora secondo Vercelli, quell’attività logica che implica una ridefinizione del giudizio rispetto ad un evento, non la sua deliberata cancellazione dal quadro dei dati concreti. In tal senso ogni storico è un revisionista ma la sua preoccupazione ed il codice deontologico connesso alla sua professionalità gli impongono di operare applicando una appropriata metodologia, di applicare un corretto trattamento delle fonti e di operare analiticamente senza preconcetti. Il revisionista nel senso corrente del termine, al contrario, applica strategie interpretative per costruire ex novo nessi e relazioni tra ideologie e politiche fra loro distinte.
Ecco che la lapide posta a Bologna dal comune in collaborazione e con l’avvallo dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia rientra in questa categoria revisionista, proponendo una lettura di fatti storici acclarati in modo non strettamente negazionista ma assolutamente funzionale ad una storia comoda e forzatamente politically correct.
Questo è un fatto serio e grave che porta con se conseguenze rilevanti. Le organizzazioni degli esuli hanno dei compiti statutari ben precisi, tra i quali quello di tramandare ai posteri la nostra storia. Piegare i fatti alle convenienze contingenti non agevola questo processo ma, anzi, lo ostacola.
Le vicende di Ernst Nolte e, soprattutto, di David Irving ci insegnano come il revisionismo – inteso in senso deteriore – è l’humus principale in cui cova, cresce e si rafforza il bacillo del negazionismo.
E’ necessario divulgare correttamente per evitare il proliferare di revisioni e di successive negazioni ma è questione urgente: tempus fugit e, presto, delle nostre tragedie non resteranno più in vita i testimoni ma solamente gli atti dei convegni e le targhe che apponiamo nelle stazioni.
Enrico Neami
Unione degli Istriani