Chi si trovi ad analizzare le vicende triestine di questo ultimo mezzo secolo non può non riconoscere come la storia della città di San Giusto si sia caratterizzata per una serie di progetti di ampio respiro che si sono succeduti e che ne hanno segnato le vicende politiche.
Sicuramente l’immediato dopoguerra si è tutto incentrato sul tema forte del trovare una risposta allo status di precarietà che era risultato dalle previsioni del Trattato di Parigi: quella collocazione del tutto aleatoria nel quadro del fantomatico Territorio Libero di Trieste, tanto aleatoria che tale staterello neppure riuscì mai a nascere (le grandi potenze alleate che dovevano sponsorizzarlo erano diventane, nel frattempo, le forze contrapposte della terza guerra mondiale, la cosiddetta guerra fredda).
Soluzione di tale precarietà che, nella volontà dei Triestini e della stragrande maggioranza delle forze politiche, poteva essere solo quella del congiungimento al territorio della Repubblica italiana. E la data del 26 ottobre 1954 segnò appunto la felice conclusione di tale fase, con il ritorno di Trieste all’Italia e dell’Italia a Trieste.
La fase successiva vide progressivamente emergere un disegno politico diverso, che si incentrava sulla costituzione della Regione Friuli Venezia Giulia. Questa entità politico amministrativa, che già era stata prevista dai Costituenti (ma con contenuti piuttosto diversi) venne perseguita fondamentalmente come strumento di “normalizzazione” della realtà triestina. La formula eloquente, usata in una campagna elettorale, proclamava “Trieste non è un’isola”.
Si trattava, in buona sostanza, di perseguire due obbiettivi: ancorare definitivamente Trieste al contesto politico, economico, sociale nazionale e far sì che la città ritrovasse, nel Friuli, un suo proprio territorio, sostitutivo di quel entroterra che in precedenza era costituito dalla perduta Istria.
La Regione, in definitiva, venne voluta e realizzata in funzione di un duplice binomio: quello Trieste-Italia e quello città-territorio.
E’ fuori dubbio che il primo obbiettivo ha trovato piena realizzazione, giacchè il collegamento tra la realtà italiana e quella giuliana è oramai pacificamente fuori di ogni possibile discussione; ma va anche sottolineato come non sia proprio così pacifico che sia stato proprio l’istituto regionale a garantire tale situazione; forse il binomio Trieste-Italia è talmente radicato nella logica delle cose da non aver bisogno di Regione o altri amenicoli del genere per potersi affermare ed operare.
E’ di certo altrettanto pacifico che, viceversa, la finalità di dotare la città triestina di un suo nuovo entroterra, il territorio friulano, è assolutamente mancata, posto che il resto della realtà regionale – specie Udine – è stata sentita sempre più non come sostegno e supporto di Trieste, bensì come alternativa ed antitesi rispetto al capoluogo giuliano: una Regione sempre più friulana e quindi matrigna, funzionale più agli interessi della friulanità che a quelli della triestinità.
La fase successiva – e siamo ormai negli avanzati anni settanta – ha visto la dirigenza politica triestina (quella di colore “moroteo”) puntare su una nuova carta, quella del rapporto con la vicina (ed amica ) Jugoslavia.
E’ proprio in tale logica che si andò ad immaginare e si realizzò quel monstrum politico che fu il Trattato di Osimo. Doveva servire per mettere la pietra tombale sulla “questione Istria” e rimuovere così un possibile ostacolo a tale disegno.
Sono gli anni nei quali viene sbandierato il cosiddetto “confine più aperto d’Europa”, nella convinzione che, chiusa definitivamente la questione istriana, il futuro di Trieste potesse e dovesse essere quello di ponte verso il mondo dell’Est, verso quel universo comunista che iniziava a Farnetti e che finiva a Mosca.
Peraltro su tale ponte ideale ciò che alla fine si trovò a transitare fu solamente un piccolo e misero cabotaggio commerciale, il cosiddetto traffico dei jeans. Il possibile grande disegno di un futuro per la città-ponte si concretizzò nel sicuro beneficio per i bottegai di Ponterosso, ma in poco o niente di più.
Certamente niente che riuscisse a compensare quel contestuale smantellamento dell’industria pubblica nazionale, con la progressiva chiusura di quelle industrie di stato con le quali, nel dopoguerra, l’Italia aveva tenuto in piedi l’economia locale, aiutando Trieste a sopravvivere alla sua patologica mancanza di un territorio Se la cosiddetta “frontiera più aperta” finì ingloriosamente nel piccolo mercato degli stracci, subentrò – e siamo ormai negli anni ottanta – l’obbiettivo di continuare a guardare all’Est europeo, ma questa volta in funzione di una Trieste delle finanza, non più del piccolo o grande commercio.
Venne anche previsto un organismo che, a Trieste, costituisse strumento per operazioni finanziarie off shore, mirate proprio all’area dei paesi dell’oriente continentale. Tale organismo, però, non vide mai la luce, perché impantanato in una serie incredibile di rinvii e di proroghe, per finire definitivamente affossato dai veti europei.
Il tutto peraltro da non ascriversi esclusivamente alla imperizia ed alle distrazioni della politica nazionale o al prevalere, a livello europeo, di altre logiche e di altri interessi.
La causa di fondo di tale fallimento va forse cercata in una ragione meno contingente: in una Europa dove il comunismo era oramai defunto o almeno agonizzante, in una economia continentale e mondiale sempre più globalizzata era decisamente anacronistico pensare che la solo vicinanza territoriale (Trieste rispetto all’Est europeo) potesse in qualche modo influenzare il nascere ed il prosperare di operazioni finanziarie. Per fare affari, con qualsiasi parte del mondo, compresa l’Europa orientale, bastano ormai i normali mezzi di comunicazione (telefoni, fax, internet) ed è assolutamente irrilevante il trovarsi a Trieste invece che ad Abbiategrasso o a Lugano.
L’illusione di giocare questa fantomatica carta finanziaria, per il futuro della città, caratterizzò curiosamente anche la prima fase della amministrazioni Illy. Una illusione decisamente “fuori tempo massimo” che, come tale, restò assolutamente sterile e priva di risultati. Di fatto, nella politica di Illy, tale finalità di dare vita ad un centro finanziario risultò ben presto sostituita da un altro obbiettivo, quello cioè di proporre una immagine nuova della città, di operare una sorta di restyling del capoluogo giuliano.
Siamo dunque al nuovo secolo. L’amministrazione Di Piazza, che è subentrata a quelle Illy, da un lato prosegue la “operazione immagine” (si pensi all’ideale continuità delle sistemazione della Rive con quella di piazza Unità), dall’altro cerca di trarre conseguenze concrete di tale rinnovamento sia in termini di turismo che di commercio.
Obbiettivi, questi, sicuramente validi ed interessanti, ma forse non di respiro idoneoa costruirci, per Trieste, un domani adeguato al suo passato ed alle sue aspettative.
Da ciò l’esigenza, da più parti accennata, di affiancare alla città del turismo e del commercio una Trieste “altra”, che sappia cioè valorizzare le potenzialità della storia e della geografia di questa città, per permetterle così di assumere un ruolo di diverso rilievo.
Potenzialità della geografia: il dato fondamentale a cui fare riferimento è quello del mare e dei fondali del suo porto; un dato geografico a cui si aggiunge la sua collocazione quasi ad imbuto per tutto il centro Europa verso il Mediterraneo.
Potenzialità della storia: è un dato innegabile che, anche a causa delle tragedie della seconda guerra mondiale, Trieste è assunta sempre più a luogo di attenzione per le popolazioni attuali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, è diventata una sorta di città di riferimento per buona parte dell’Adriatico, almeno per tutta la sua costa orientale.
Ciò che in definitiva è stata in passato Venezia (ed è un ruolo tutt’ora rimpianto in queste terre), ciò che non è pensabile possa nuovamente essere un ruolo della città lagunare, potrebbe invece diventare il futuro di Trieste, essere cioè “capitale dell’Adriatico”, punto di riferimento per tutte le popolazione di quest’area, punto di riferimento per tutte quelle realtà continentali che a quest’area sono per qualche verso interessate. Si tratterebbe cioè di coniugare, nel nostro futuro, la Trieste di Maria Teresa con la Venezia dei Dogi.
Per fare tutto ciò occorrono alcuni chiari obbiettivi, purchè largamente condivisi.
In primis è indispensabile far sì che il porto ed i suoi preziosi fondali trovino completamento in adeguate mezzi operativi e, soprattutto, in un efficiente sistema di comunicazione. Senza ferrovie e senza strade che garantiscano efficienti collegamenti, il mare può servire tutto al più per i bagni o per il diporto, non certo per dare vita ad un porto efficiente e vincente.
La seconda condizione è che la politica triestina, accantonata finalmente la faida che per venticinque anni si consumata sulla gestione portuale, trovi la lucida determinazione di puntare tutto, ma proprio tutto (progetti, speranze, risorse, fantasie) su questo grande progetto, raccogliere cioè il testimone di Venezia e conquistare a Trieste il ruolo di “Capitale dell’Adriatico”.
Paolo Sardos Albertini
(Relazione svolta al Convegno sul tema “Trieste da centro della cultura mitteleuropea a crocevia dell’Europa nel suo nuovo assetto allargato: culture e tradizioni a confronto”, tenutosi il 26 ottobre 2006 alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste)