Risposta di Stefano Pilotto ad Aldo Cazzullo

I triestini e gli amanti autentici della città di Trieste hanno avuto, quest’anno, un singolare “uovo di Pasqua”, all’interno del quale la sorpresa è risultata, contro ogni attesa, tutt’altro che gradita. Il più prestigioso quotidiano italiano, il Corriere della Sera, a firma di Aldo Cazzullo, ha dedicato una pagina intera alla città di Trieste, non tanto per esaltarne le caratteristiche, il passato, il presente ed il futuro, bensì per avvilirne la natura genuinamente italiana. Prendendo spunto dal centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (1915), guerra che avrebbe permesso all’Italia di recuperare le “Terre Irredente” (Trento e Trieste, appunto), il poco accorto giornalista ha sciorinato una pletora di dati disordinati e spesso inesatti, per sostenere la tesi secondo la quale sarebbe stato meglio per Trieste se questa fosse rimasta, cent’anni fa, all’Austria-Ungheria. Questa tesi non solo non corrisponde agli auspici dei triestini e dei non triestini amanti della città, bensì è facilmente confutabile dal punto di vista storico. L’antica “Tergeste”, infatti, in origine centro dei Galli Carni, passò sotto la custodia dell’Impero Romano a partire dal secondo secolo avanti Cristo e fu successivamente fortificata da Augusto nel primo secolo avanti Cristo e da allora divenne colonia romana fino al declino dell’Impero Romano. Di quell’epoca sono le splendide rovine romane che ancor oggi ogni visitatore può ammirare ai piedi e sul colle di San Giusto (Anfitetro Romano, scavi archeologici di antiche case partizie romane, Arco di Riccardo, Tempio Capitolino). La cultura latina costituì la prima consistente impronta nel tessuto intellettuale della città. Tale cultura rimase nei secoli successivi, durante i quali la città fu, come tutte le altre città della penisola italiana, vittima di incursioni barbariche. Trieste subì influenze da parte dei Goti, dei Greci, dei Longobardi, fino a diventare, alla fine del sesto secolo dopo Cristo, “numerus” bizantino. Successivamente passò sotto il dominio di Carlomagno. Legata costantemente alla penisola italiana, Trieste, a partire dal decimo secolo, cominciò a subire l’influenza crescente di Venezia, da una parte, e dei vescovi, dall’altra. Nel periodo in cui la città cercò di mantenere con Venezia una relazione convincente e conveniente per il proprio sviluppo, Trieste acquisì quella fisionomia di libero comune (“Tergestinae Civitatis” nel 1139), che avrebbe mantenuto nel corso di diversi secoli, anche quando, dopo ripetuti tentativi di stabilire con Venezia un rapporto paritario, la città e le proprie autorità civili, religiose e militari decisero, nel 1382, di passare sotto il controllo dell’Austria asburgica. Tale decisione, tuttavia, non fu mai definitiva e serena, come avrebbero dimostrato le rivolte contro l’Austria nel momento in cui alcuni capitani (ad esempio Luogar nel 1468) tentarono di abolire le libertà comunali e l’autonomia del comune di Trieste. L’opzione fra Venezia e Vienna rimase costante nell’anima sempre italiana della città, la quale oscillò verso Vienna quando prevalsero gli interessi di natura economica e commerciale, verso Venezia quando prevalsero gli interessi di natura culturale e linguistica (il dialetto triestino è un derivato del dialetto veneto). E’ pur vero che la decisione di Carlo VI, nel 1719, di assegnare a Trieste la patente di “Porto Franco” costituì un formidabile strumento per favorire lo sviluppo del porto, il volume dei traffici, l’estensione delle costruzioni, la crescita demografica. Ma tale sviluppo venne garantito anche, nel diciannovesimo secolo, con la nascita delle grandi istituzioni triestine, come le Assicurazioni Generali (1831), Il Lloyd Triestino (1836), la Riunione Adriatica di Sicurtà (1838) e con il concorso di influenti imprenditori italiani, come il Barone Pasquale Revoltella, i quali credettero ardentemente nell’investimento legato all’apertura del Canale di Suez e lo sostennero per garantire alla città di Trieste una nuova primavera di prosperità, che si intersecò con le nascenti idee irredentiste del tempo, con gli aneliti generati dal romanticismo politico degli Oberdan, degli Imbriani, dei Venezian, dei Timeus, degli allievi del Liceo Classico Dante Alighieri, degli Esponenti della Lega Nazionale e di tutti coloro che ritennero necessario e doveroso appoggiare il passaggio di Trieste all’Italia, dopo la realizzazione del sogno risorgimentale, che aveva permesso ai Cavour, ai Garibaldi, ai Mazzini, ai Savoia di dare una patria agli italiani. Il centenario che ricorda l’entrata in guerra dell’Italia, pertanto, non sarà soltanto un’opportunità per ricordare con serietà l’enorme massacro sui campi di battaglia o il sacrificio di quei triestini che vennero inviati dall’Austria-Ungheria a combattere contri i russi in Galizia, ma anche un momento per riflettere sul sacrificio dei patrioti triestini e istriani e dalmati (furono 1804 e non 881), che si arruolarono fin dall’inizio nelle forze armate italiane per combattere l’Austria-Ungheria e per preparare l’arrivo della bandiera italiana sulla Piazza dell’Unità d’Italia: furono i Carlo e Giani Stuparich, gli Scipio Slataper, i Nazario Sauro e molti altri, che, spesso, in nome dell’italianità di Trieste, lasciarono sui campi di battaglia il sangue prezioso dei propri vent’anni di vita. Ricongiunta alla madrepatria italiana Trieste durante il ventennio fascista fu considerata una città da valorizzare e da sostenere. Non ci furono soltanto le politiche nazionaliste ai danni delle popolazioni slave dell’entroterra (la modifica dei cognomi ed il divieto di utilizzare le lingue slave), bensì anche gli investimenti a beneficio del porto e delle costruzioni civili ed istituzionali. Nel periodo fra il 1930 ed il 1934 il traffico complessivo del porto di Trieste raggiunse 2,2 milioni di tonnellate di merci scambiate (nel 1911-1913 era stato di 3,1 milioni di tonnellate, ma nel 1916 era caduto a solo 16.435 tonnellate). Negli Anni Trenta il porto di Trieste fu il terzo in Italia, dopo Genova e Venezia. La tragedia della seconda guerra mondiale colpì Trieste più di ogni altra città italiana. L’occupazione tedesca, prima, jugoslava, poi, e anglo-americana, successivamente, posero a durissima prova le capacità di tenuta della popolazione triestina, la quale pregò per il proprio destino, subì il martirio delle migliaia di italiani massacrati dalle forze jugoslave nelle foibe carsiche ed istriane, fu il luogo di primo riferimento geografico per l’esodo istriano, fiumano e dalmata, attese con trepidazione le decisioni delle potenze occidentali sul proprio status, anche con il doloroso sacrificio degli studenti come Pierino Addobbati o Francesco Paglia, che lasciarono i propri diciassette anni sui gradini della Chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo nel 1953. Quando, il 26 ottobre 1954, i soldati italiani tornarono a Trieste, in ragione delle decisioni del Memorandum di Londra, una folla immensa si recò sulle Rive ed in Piazza dell’Unità d’Italia, per accogliere il tricolore ed il conforto dell’identità nazionale. Quella stessa folla, qualche giorno più tardi, accolse, il 4 novembre 1954, il Presidente delle Repubbloca Luigi Einaudi, il quale conferì la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla città di Trieste, sottolineando, nella motivazione: “contro i trattati che la volevano staccata dalla Madre-patria, nelle drammatiche vicende di un lungo periodo di incertezze e di coercizioni, con tenacia, con passione e con nuovi sacrifici di sangue ribadiva, dinanzi al mondo, il suo incrollabile diritto di essere italiana. Esempio inestinguibile di fede patriottica, di costanza contro ogni avversità e di eroismo.”

La città di Trieste vive oggi un momento di trasformazione. Non è vecchia, decrepita, inerte, rassegnata, come l’articolo di Cazzullo vuole dimostrare. I ventimila e più studenti triestini non consumano marjuana come il giornalista suole ricordare (forse alcuni di essi, ma non più di altre città italiane), i treni Frecciarossa e Frecciabianca di Trenitalia non puzzano di stalla e reggiungono Venezia, Roma e Milano in tempi concorrenziali rispetto agli aerei, l’incendio al Kulturni Dom sloveno ebbe luogo nel 1920 e non nel 1921. Le numerose inesattezze, unite alla negativa conclusione dell’articolo non fanno giustizia della vitalità triestina, dei giovani che, alle sei del mattino vanno a correre a Barcola, di coloro che si allenano a canottaggio sul braccio di mare fra Barcola e Miramare, di coloro che, a migliaia partecipano alla Bavisela, delle quasi duemila imbarcazioni che, durante la seconda domenica di ottobre, animano la Regata Barcolana, la più importante d’Europa. L’articolo di Cazzullo trascura l’anelito triestino a fare, quel fare che si traduce con i brillanti risultati nella ricerca scientifica, come dimostrano fra l’altro i Premi Nobel che hanno lavorato a Trieste o le giovani équipe di ricerca come quelle attuali di Mauro Giacca e di altri scienziati in vista, in epoca attuale. L’articolo di Cazzullo trascura la paziente ma reale trasformazione del porto, all’interno del quale non ci sono solo vecchi magazzini con i vetri rotti, ma magazzini perfettamente restaurati che offrono alla cittadinanza spazi nuovi per esposizioni, convegni, momenti di confronto dialettico. L’articolo di Cazzullo, da ultimo, trascura, le penalità che Trieste ha dovuto subire per effetto del suo sfortunato destino. Se vi è un declino demografico è anche per effetto delle conclusioni del secondo conflitto mondiale, che ridusse drasticamente l’entroterra di Trieste (la più piccola provincia d’Italia, con solo sei comuni), privando la città di un territorio capace di ospitare nuove imprese, vale a dire nuovi posti di lavoro per i giovani, i quali, spesso, sono costretti a lasciare Trieste per trovare sbocchi professionali. Ed il porto non sarebbe in una fase arretrata di ristrutturazione, se la città di Trieste non avesse perso sul filo di lana la possibilità di ospitare l’Expo nel 2008, quell’Expo che, quest’anno, la città di Milano ospiterà anche, in parte, come effetto di compensazione per la mancata nomina di Trieste nel 2008. La città, nondimeno, vive proiettata verso il mondo, accoglie centinaia di studenti stranieri, molti ricercatori, l’Università cresce nella dimensione del dialogo e della cooperazione internazionale, altri centri di eccellenza, come MIB School of Management, creano formazione e ricerca con il concorso di allievi e docenti provenienti da tutti i continenti del mondo. Il “Tram de Opcina xe nato disgrazià” non perchè fu stata un’iniziativa sciagurata costruire il tram che unisce Trieste al sobborgo di Opicina, in vetta alla collina, bensì perchè una volta, a causa della Bora, si è rovesciato. Ma il tram di Opicina rimane nel cuore dei triestini come un dono di Dio, un museo funzionante che, nel ventunesimo secolo, permette di compiere una scampagnata unica attraverso la collina di Scorcola: durante il viaggio, ogni passeggero, giovane o anziano che sia, ammira gli scorci della città, collega il passato al presente e al futuro, benedice Trieste, che giace nelle sua indicibile bellezza, città italiana che trascende il tempo e che offre una meta insostituibile ad ogni fortunato visitatore. Con questi sentimenti, o con sentimenti simili, i triestini e gli amanti di Trieste perdonano Aldo Cazzullo per il suo infortunio giornalistico, che può capitare a chiunque, anche a chi scrive su giornali prestigiosi come il Corriere della Sera. L’energia di Trieste esiste e si traduce con l’elemento che più di ogni altro ne caratterizza l’identità: la Bora.

 

                                                                                                            Stefano Pilotto

Stefano Pilotto, 56 anni, romano di nascita, vive a Trieste da quando aveva 9 anni. Svolge attività di insegnamento e di ricerca storica.