LE FOIBE E I CAMPI DI CONCENTRAMENTO IUGOSLAVI
Definizione di Foiba e il suo significato letterale
Letteralmente, “foiba” deriva dal latino fovea che significa fossa, cava, buca.
Premesso che in alcuni dizionari il termine non viene nemmeno riportato o viene proposto in modo non del tutto corretto (20), nella maggior parte di quelli che lo citano il riferimento è solamente al significato letterale dello stesso, nel senso geologico o speleologico.
Le foibe, infatti, come le doline (21), sono caratteristiche del paesaggio carsico istriano.
Vengono originate dall’azione corrosiva dell’acqua sulle rocce calcaree, formatesi nel periodo cretaceo e massicciamente presenti sul territorio (22).
Poco visibili all’esterno (si presentano spesso con aperture di pochi metri) le foibe sono voragini rocciose irregolari che si sviluppano in ampiezza e profondità, all’interno del sottosuolo. L’erosione della pietra è causata dall’acqua piovana e dai numerosi corsi d’acqua sotterranei.
È stato accertato che alcune foibe arrivano ad essere profonde anche 300 metri. Le numerose diramazioni, gli anfratti ed i cunicoli che spesso caratterizzano queste cavità, non consentono agli speleologi l’accesso oltre certi limiti e rendono in molti casi molto difficile individuarne il fondo.
Nella regione giuliana sono state individuate ed identificate oltre 3.000 fra grotte e foibe.
Fra i fenomeni più spettacolari di questo mondo sotterraneo ci sono le celebri Grotte di Postumia.
Significativo il fenomeno del carsismo sul fiume Timavo, il quale, dopo un percorso in superficie di circa 40 chilometri, si getta negli abissi e prosegue per altrettanti chilometri fino alla profondità di 300 metri, per ricomparire improvvisamente in faccia al mare e sfociare nel golfo di Trieste. Per la sua peculiarità viene ricordato anche da Virgilio nell'”Eneide”.
Le foibe, in origine, venivano utilizzate come vere e proprie discariche, nelle quali veniva gettato ciò che non serviva più (carcasse di animali, derrate alimentari avariate, sterpaglie, macerie e altro ancora).
Negli anni ’40 esse assunsero invece un’altra macabra funzione, divenendo la tomba naturale di migliaia di persone.
Tra il 1943, con la caduta del fascismo, e la primavera del 1945, al termine del secondo conflitto mondiale, infatti, i partigiani jugoslavi che rivendicavano diritti sull’area, gettarono nelle foibe migliaia di persone, per lo più italiane, generando nella popolazione un clima di vero e proprio terrore.
Le foibe diventarono così uno strumento di martirio ed un’orrida tomba per migliaia di martiri.
E’ da questi massacri che, negli anni successivi, sono stati coniati i termini, riportati anche da alcuni dizionari:
Infoibare: gettare o seppellire in una foiba e più in particolare ammazzare una persona e gettarne il cadavere in una foiba, o farlo morire gettandolo in una foiba (il verbo è nato e si è diffuso alla fine della seconda guerra mondiale).
Infoibatore – chi infoiba.
Infòibazione – atto, effetto dell’infoibare.
Durante e dopo la seconda guerra mondiale, le foibe divennero quindi grandi fosse comuni per esecuzioni sommarie collettive.
Gettare un uomo in foiba significa considerarlo alla stregua di un rifiuto, gettarlo là dove da sempre la gente istriana getta ciò che non serve più (…) La vittima, sprofondata nell’antro, viene cancellata nell’esistenza fisica, ma anche nell’identità nel nome nella memoria. Uccidere chi è considerato nemico non basta: occorre andare oltre, occultarne il corpo e la vita, eliminarne ogni traccia, come se non fosse mai vissuto. (23)
La maggior parte degli infoibamenti ebbe luogo in due periodi distinti:
L’ingresso di Tito in Trieste il 1 maggio, mentre i partigiani garibaldini venivano dirottati verso Lubiana, significò l’inizio per gli abitanti del capoluogo giuliano di un vero e proprio periodo di terrore.
Gli ordini impartiti da Tito e dal suo ministro degli esteri Edvard Kardelj erano chiari e non si prestavano a equivoci: Epurare subito, Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale.
Fu una carneficina, che non risparmiò nemmeno gli antifascisti, membri del Comitato di liberazione nazionale, che avevano fatto la Resistenza al fianco dei loro assassini, o esponenti della Resistenza liberaldemocratica e del movimento autonomistico di Fiume.
Militari e civili italiani, ma anche civili sloveni e croati, furono vittime di arresti, processi fittizi, deportazioni, torture e fucilazioni.
A pagare non furono infatti solo i fascisti, ma chiunque si opponesse all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Iniziò una vera e propria caccia all’italiano, con esecuzioni sommarie, deportazioni, infoibamenti.(24)
Rischiava la vita chiunque fosse italiano e non volesse rinunciare alla sua italianità.
Questa tesi è stata sostenuta anche dallo storico Giovanni Berardelli La loro principale colpa era quella di essere, per la loro nazionalità, un ostacolo da rimuovere al programma di Tito di annessione del Friuli e della Venezia Giulia. Da cui l’odierna accusa di genocidio o di pulizia etnica.(25) ma anche dallo storico triestino Roberto Spazzali che definì le foibe (…) il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale. Chi non ci stava, veniva eliminato.
La mattanza fu devastante e si protrasse per settimane, nonostante l’arrivo, a Trieste e a Gorizia fra il 2 e il 3 maggio, della seconda divisione neozelandese del generale Bernard Freyberg, inquadrata nell’VIII armata britannica.
A questo periodo fa riferimento un documento dello Stato firmato da due Presidenti della Repubblica, Luigi Einaudi e Giovanni Gronchi, in cui si riconosce che Trieste
(…) nuovamente sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria.(26)
La persecuzione degli italiani durò almeno fino al ’47, soprattutto nella parte dell’Istria vicina al confine e sottoposta all’amministrazione provvisoria jugoslava.
Le modalità degli infoibamenti
La caratteristica comune di tutte le uccisioni fu l’assenza pressoché totale di notizie sulla sparizione di migliaia di persone. Un mistero che alimentò notevolmente il clima di terrore nel quale viveva la popolazione.
Una morte oscura, segno di una volontà di cancellazione totale, resa ancor più aspra dalla negazione della pietà, visto che la scomparsa dei corpi prolungò nei congiunti l’incertezza angosciosa sulla sorte dei loro cari e rese impossibile, in molti casi fino ai giorni nostri, la celebrazione pacificante della sepoltura (27).
Tra gli arrestati vi furono numerosi casi di vendette personali, vittime di delatori che sfruttarono il cambiamento di bandiera per risolvere ogni divergenza con le proprie vittime.
Sulla sorte degli arrestati non trapelarono notizie, soprattutto per la ferrea osservanza del silenzio da parte dei funzionari della polizia segreta jugoslava (O.Z.N.A.) e per la totale mancanza di verbali d’arresto o di atti processuali che avrebbero dovuto documentare la sorte di migliaia di disgraziati. La procedura era sempre la medesima:
sconosciuti bussavano alla porta di casa e invitavano, più o meno gentilmente, la persona indicata a seguirli per un controllo al Comando partigiano (…). Talvolta la scusa era quella di dover firmare un documento presso il Comando partigiano. Il tempo passava e ai famigliari del fermato, che cercavano di portare aiuto e conforto ai propri cari, veniva risposto di aver pazienza, che si sarebbe dovuto aspettare qualche giorno per le indispensabili questioni procedurali.(28)
Gli arrestati dell’Istria vennero concentrati in tre località: nel castello Montecuccoli di Pisino, a Pinguente e a Barbana.
I Tribunali del Popolo istituirono un gran numero di processi con procedure spicce e particolari. Agli imputati non venne concessa alcuna grazia di tutela dei propri diritti, non furono nominati in alcun caso avvocati difensori, né si poterono chiamare testimoni a proprio favore per cui, dopo brevi istruttorie, gli accusati vennero portati al cospetto dei giudici che, con qualche parvenza di legalità, emisero immediatamente le sentenze sulla base di sentenze stereotipate. (29)
Tali sentenze, quasi sempre di colpevolezza, erano senza possibilità di appello e nella gran parte dei casi prevedevano per i malcapitati la pena capitale.(30)
Le modalità di uccisione e di eliminazione fisica dei condannati furono molteplici, a seconda sia del luogo geografico che delle particolari condizioni del momento. Sovente gli arrestati prima di morire dovettero spogliarsi di tutti i loro vestiti e delle loro calzature, ambite dai sicari che poi le indossarono personalmente; altre volte i carnefici scambiarono i propri abiti logori con quelli più nuovi dei deportati. (…) Molte persone furono fucilate, o comunque uccise in modo violento, ed i loro corpi vennero sepolti nelle fosse comuni, nelle cave e nei pozzi artesiani e minerari. Altre furono gettate in mare e vennero ritrovate solo in pochi casi. Altre ancora furono buttate nelle foibe.
La maggior parte dei prigionieri rimasti in Istria, invece, subirono il martirio della foiba.
Dopo la sentenza di morte le vittime venivano portate sul luogo dell’esecuzione, con i polsi legati dietro la schiena con filo di ferro.
Il trasporto avveniva a bordo di autobus con i vetri oscurati da vernice bianca. Quei mezzi divennero tristemente famosi in Istria come le “corriere della morte”. Dove la carreggiata finiva i prigionieri procedevano a piedi fino alla foiba. Giunti sull’orlo dell’abisso, i carnefici davano inizio all’esecuzione sparando un colpo di pistola o di fucile alla testa della vittima, facendola all’interno della voragine nella quale trascinava con sé il compagno ancora vivo a cui era legata.
A qualcuno veniva promessa la libertà se fosse riuscito a saltare da una parte all’altra dell’apertura, ma i pochi che riuscirono nell’impresa furono comunque gettati nell’orrido.
L’agonia di questi sventurati poteva durare giorni interi e le loro grida ed invocazioni di aiuto venivano udite dagli abitanti della zona, ma la paura ed il terrore che regnava ovunque impediva di avvicinarsi alle foibe.
Nessuno si sentiva al sicuro perché chiunque poteva accusare ed essere accusato di essere “nemico del popolo”, con totale discrezionalità.
Un gioco al massacro diabolico, per il quale nessuno si sentiva più al sicuro nemmeno in casa propria.
Durante l’occupazione slava la crudeltà e la barbarie degli infoibatori oltrepassò l’orrore dei crimini e in diversi casi sconfinò nella superstizione. Al termine delle esecuzioni, nelle foibe venivano gettati dei cani neri vivi, i quali, secondo un’antica superstizione slava, avrebbero dovuto impedire alle anime dei morti di uscire dalle cavità per trovare, insieme ad una cristiana sepoltura, anche la pace eterna.
La quantificazione delle vittime
Tra gli scomparsi e le vittime nella Venezia Giulia e in Dalmazia, vanno annoverati non solo coloro che finirono nelle foibe, ma anche quelli che vennero annegati, fucilati o lasciati morire di stenti lungo la strada della deportazione, nelle carceri o nei campi di concentramento. Le foibe colpirono infatti solo una parte dei prelevati e furono la tomba di alcune centinaia di italiani, ma molti altri finirono in campi di sterminio ed in fosse comuni (31).
Il numero delle vittime, a seconda delle fonti, è molto discordante.
Non esistono dati precisi, in quanto nelle località cedute alla ex Jugoslavia buona parte dei registri anagrafici furono dati alle fiamme per nascondere scomode verità.
La difficoltà nel recuperare i corpi da una parte e la distruzione degli archivi municipali e dell’anagrafe dall’altra rese e rende dunque tuttora estremamente difficile, se non impossibile stabilire con certezza il numero esatto delle vittime.
Secondo Roberto Spazzali, questo numero si aggirerebbe intorno a 4.500-5.000. Su queste cifre concorda Raul Pupo, secondo il quale ammonterebbero a 4.000 – 5.000.
Per Luigi Papo, il numero complessivo delle vittime non sarebbe inferiore a 16.500, mentre secondo altre fonti le vittime sarebbero state addirittura 20-30 mila.
Un’indagine minuziosa del Centro Studi Adriatici pubblicata nel 1989 parla di 10.137 vittime: 994 infoibate, di cui 326 accertate ma non recuperate dalle profondità carsiche; 5.643 vittime presunte sulla base di segnalazioni locali; 3.174 decedute nei campi di concentramento jugoslavi.
Dopo il 1943 l’altopiano carsico divenne luogo di scontro fra partigiani, tedeschi e fascisti e le cavità del Carso furono utilizzate per far sparire migliaia di soldati e civili.
Finita la guerra, si è tentato più volte di recuperare le salme delle persone fatte sparire nelle cavità del Carso, ma, date le enormi difficoltà di recupero, si è nella maggior parte dei casi dovuto abbandonare l’impresa e considerare le foibe come loro tombe definitive.
La foiba di Basovizza, situata a pochi chilometri da Trieste è in realtà uno scavo artificiale realizzato all’inizio del XX secolo per l’estrazione mineraria, abbandonato perché poco produttivo. Si tratta di una cavità verticale profonda 249 metri che, mai ricoperta, divenne nel maggio del 1945 luogo di esecuzioni sommarie nel quale vennero gettati, spesso ancora vivi, centinaia di prigionieri, militari, poliziotti e anche civili.
Tra il 3 e il 7 maggio 1945 i partigiani titini lo utilizzarono per infoibare centinaia di italiani.
Si dice che nella voragine, oltre alle salme, siano finite anche carcasse di cavalli e diversi residui bellici.
Nel 1957 la profondità della foiba risultò essere di soli 135 metri. Se ne dedusse una differenza di 114 metri, data dai cadaveri gettati al suo interno, la cui quantificazione, impossibile nel numero, poté essere fatta esclusivamente in metri cubi di ossa umane.
Nel 1980, il Ministero dei Beni Culturali decretò la “Foiba” di Basovizza di particolare interesse: un luogo dove commemorare le migliaia di caduti in guerra.
La targa posta sulla stele riporta una scritta in lettere di bronzo:
“Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono caduti.
Il loro sacrificio ricordi agli uomini le vie della giustizia e dell’amore sulle quali fiorisce la vera pace.”
Nel 1991, anno della disgregazione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica, il Presidente della Repubblica Giovanni Cossiga si recò a Basovizza per porvi un fiore e nel 1992, Scalfaro ne fece un Monumento Nazionale.