Nell’isola dalmata di Curzola, il giorno 18 giugno 1887 nasceva Michele Depolo. Dai genitori fu allevato nella lingua italiana con la caratteristica parlata dialettale veneta poiché quelle isole sono state amministrate dalla Repubblica di Venezia per quasi 500 anni. Dopo la caduta di Venezia, la Dalmazia fu assegnata alla Monarchia Austro-Ungarica.
I sentimenti, il patriottismo, l’educazione e la mentalità sono stati repressi con ogni mezzo dai nuovi padroni. Il giovane Michele, come molti suoi coetanei, aderisce all’organizzazione della Lega Nazionale locale, dove trova il modo di imparare a suonare la cornetta entrando a far parte della Banda della Lega Nazionale. Ottenuto il diploma superiore, s’iscrive all’Università di Klagenfurt. Nel 1914 fu richiamato alle armi e, suo malgrado, dovette indossare l’uniforme austro-ungarica dei Kaiser Jaeger. Alla dichiarazione di guerra di Michele partì per il fronte con il grado di sergente. Erano anni d’enormi attriti e persecuzioni nei confronti di coloro che dimostravano sentimenti d’italianità. Fu così che nel 1915 suo padre venne internato nel campo di concentramento di Gelentdorf in Austria, da dove non fece più ritorno.
Nel 1916 sulle Tofane, sopra Cortina, assieme ad altri cinque commilitoni dalmati, riesce a disertare arruolandosi immediatamente con gli Italiani e cambiando i suoi dati anagrafici in Cesare Rosini nato a Padova, per evitare il rischio d’impiccagione in caso di cattura. Finalmente il sogno di indossare la divisa italiana si realizza.
In conseguenza di quest’atto d’italianità il tribunale militare di Insbruch emette nei confronti di Michele una sentenza di condanna di morte per diserzione. La notifica viene fatta all’anziana madre residente a Curzola, cui viene revocata la carta annonaria portandola al fine estremo di morte per fame.
L’Alpino Michele, del Battaglione Edolo, 5° Alpini della Tridentina, alla fine della guerra fa ritorno alla sua Curzola con il grado di Sottotenente. Allo sbarco, tra tanta gente in delirio ed i grandi festeggiamenti, invano cerca la sua mamma ed il suo papà, apprendendo solo più tardi della loro tragica fine. Riprende il suo nome e cognome e, qualche tempo dopo, sposa la sua Eufrosina con la quale andrà a vivere nella casa paterna sulla Riva degli Italiani. Inizia un brevissimo periodo di pace e serenità per questa nuova famiglia che è in attesa del primo bambino.
Di lì a poco due dolorosi e disastrosi eventi accadono contemporaneamente. Come un fulmine a ciel sereno, giunge la notizia che il trattato di pace aveva assegnato la Dalmazia alla Jugoslavia. Liberi, finalmente, dal giogo asburgico ci si trovava assoggettati a quello jugoslavo. Immediata inizia da parte croata una capillare persecuzione nei confronti degli Italiani.
Dolorosa è quindi la scelta per quasi 90.000 Italiani-Dalmati: l’esodo che implica la salvezza, o la persecuzione ed il pericolo di morte.
In parallelo a questi incalzanti eventi, nasce il primogenito Pompeo che avrà solo due brevi giorni di vita.
Dovendo partire precipitosamente per salvare la vita alla moglie e la propria, Michele affida il piccolo corpicino di Pompeo ad una cara vicina di casa che pietosamente lo porterà al Camposanto. Era il 22 marzo 1921, Eufrosina e Michele, sotto scorta della Marina Militare Italiana, lasciarono per sempre il loro bimbo, la loro casa, la loro isola di Curzola.
Un solo bagaglio: una piccola valigia contenente la Bandiera Italiana ammainata dal pennone della loro casa.
Nel periodo a seguire, i coniugi Depolo insegnarono nelle scuole elementari di svariate località italiane, ultima delle quali è stata Trieste.
Il 1939 è stato per Michele l’anno dell’ennesima chiamata alle armi. All’età di 52 anni parte infatti con il CSIR (in seguito divenne ARMIR) per la Russia, con il grado di Capitano, sempre col l’Edolo. (1)
Al termine della Campagna di Russia, nell’estate del 1943 rientra a Trieste con gravi problemi al cuore, dovuti senz’altro, oltre alle molteplici vicissitudini giovanili, agli stenti subiti in Russia da un fisico non più giovane.
Nel ’45, nel corso dell’occupazione titina di Trieste, giunse da un amico sacerdote di Zara l’allarmante notizia che Michele, per i fatti accaduti tempo prima in Dalmazia, era stato iscritto nella lista degli Italiani da “eliminare”. Si salvò anche questa volta, ma, nel bilancio di una vita, due condanne a morte, la perdita drammatica dei genitori, la dolorosa rinuncia a presenziare alla sepoltura del primo bambino, sommate agli stenti vissuti in Russia, furono letali per il cuore stanco ed affaticato di Michele che cessò di battere il 1° novembre 1946 a soli 59 anni.
Anno 2004. Nel 50° anniversario del ritorno di Trieste all’Italia, nonché della 77a Adunata Nazionale degli Alpini, mia figlia Luisella, nipote di Michele, chiede agli zii ed a me il permesso di aprire l’involucro contenente la Bandiera Italiana ammainata dai nonni a Curzola nel ’21, rimasta da allora piegata ed amorevolmente custodita dal maggiore dei figli, Teodoro. Con entusiasmo Teodoro, Benito, Antonio e Fulvio accolgono la richiesta, nella certezza che anche Lucia, la loro sorella recentemente scomparsa, avrebbe assentito.
Il 15 maggio 2004 nella vetrina più ampia e luminosa del negozio di mia figlia, in una via del centro a Trieste, viene issata la vecchia e gloriosa bandiera sulla quale, commossi, abbiamo cucito uno stendardo dalmato listato a lutto. L’accompagnava una dedica: “LUCE ALLA DALMATA ITALIANITA’ DEL CAPITANO MICHELE DEPOLO, VOLONTARIO IRREDENTO, REDUCE DEL BATTAGLIONE EDOLO, 5° ALPINI TRIDENTINA”. Accanto …una penna spezzata.
Chi vi invia questo scritto è uno dei 6 figli di Michele Depolo, che, anche se non ha avuto l’onore di indossare il cappello d’alpino, l’ha sempre sentito con devozione e portato nel proprio cuore.
L’italiano Antonio Depolo
(articolo apparso su “L’Alpin de Trieste” , settembre 2005)
(1) Della sua esperienza in Russia poco si sa in quanto fu sempre restio a parlarne, a parte qualche sporadico accenno alla ritirata e rari aneddoti, come quello di tre soldati ungheresi che, davanti ai suoi occhi, decidono di suicidarsi puntando l’uno il fucile al petto dell’altro e facendo fuoco contemporaneamente.