La sinistra e la nascita dell’antifascismo

La sinistra e la nascita dell’antifascismo
L’antifascismo militante, una scelta politica di convenienza

nell’immediato dopoguerra la sinistra italiana, ed in particolare il PCI,  diede una lettura della Resistenza ben diversa da quella che oggi difende a gran voce. L’amnistia voluta da Togliatti, che riguardava parimenti partigiani e  repubblichini, aveva infatti quale presupposto il riconoscere che ciò che aveva insanguinato l’Italia negli anni ’43 – ’45 era stata una vera e propria guerra civile. E l’amnistia era lo strumento tecnico-politico per porvi fine.

Ma, anche dopo, la politica del partito comunista di Togliatti non fu certo quella di isolare e di ghettizzare gli ex militanti di Salò, in nome  dell’antifascismo militante; bensì piuttosto quella di manifestare attenzione e disponibilità nei confronti degli ex combattenti della RSI. Così fu per i tantissimi fascisti “convertiti” al comunismo i Zangrandi, gli Ingrao ed i numerosissimi altri, provenienti dai GUF), ma fu altrettanto significativa la vicenda dei cosiddetti “fascisti rossi”, quelli di Stanis Ruinas e del suo “Il pensiero nazionale”. Si trattava, in buona sostanza, di fascisti che affermavano esplicitamente la loro identità fascista e che, proprio perché tali, trovavano appoggio e finanziamenti dal PCI in forza del loro richiamarsi all’esperienza di sinistra della RSI e del loro sentire anticapitalista ed anti USA. A questi  “fascisti rossi” Togliatti si rivolgeva quale possibile strumento per  incamerare nel PCI quel consenso elettorale di ex repubblichini che, in  chiave di concorrenza, il MSI di Almirante e di Michelini indirizzava invece (con la benedizione DC) verso l’area dell’anticomunismo e del filo  atlantismo.

L’operazione “fascisti rossi” ebbe un peso significativo, almeno fino alle elezioni del 1953, vale a dire per quasi un decennio. Si esaurì solo nel momento in cui apparve evidente che, nella lotta per la conquista del voto nostalgico fascista, era risultata vincente la linea missino-democristiana (risale all’epoca l’abbraccio Andreotti- maresciallo Messe); ed era risultata invece perdente quella Ruinas-Togliatti che pure aveva generato incontri tra Pajetta ed il generale Graziani, pubblici riconoscimenti nei confronti degli uomini di Salò ( Luigi Longo ebbe a dichiarare che credeva nella buona fede di intere masse di ex fascisti che avevano avuto la convinzione di lottare per la giustizia sociale) nonché, prosaicamente, si era materializzata nel concreto sostegno finanziario del PCI alle iniziative del fascista Ruinas e dell’ex sottosegretario agli interni della RSI Giorgio Pini.

Quando risultò chiaro che la partita era oramai conclusa e che il voto degli ex fascisti era definitivamente approdato tra gli anti comunisti, solo a quel punto il PCI cambiò linea (siamo ormai a ridosso degli anni sessanta), scoprì la Resistenza quale valore perenne, sbandierò l’antifascismo quale strumento di piena attualità nella lotta politica.

In definitiva si trattò di una evidente operazione di revisionismo storico ad opera del PCI (non più una guerra civile, conclusa con un’amnistia, bensì un continuo riproporsi della lotta tra il Bene-Resistenza ed il Male-Fascismo) che troverà la sua consacrazione nei fatti di Genova del luglio 1960, quando la piazza venne mobilitata contro il governo Tambroni, in nome appunto del neo scoperto antifascismo, perenne e militante. L’operazione, come noto, riuscì pienamente: almeno in chiave infra democristiana.

La riscoperta dell’antifascismo bloccò l’iniziativa di quei dc che volevano sdoganare (con trent’anni di anticipo) il Movimento Sociale di Arturo Michelini; tirò invece la volata alla sinistra democristiana che, grazie alla piazza genovese, approderà all’apertura a sinistra e, soprattutto, si impossesserà del partito e del paese per diversi decenni (sarà la fantasia politica di Ciriaco De Mita a partorire la formula dell’arco costituzionale, quale figura politico-costituzionale di quella “nuova Resistenza” che il revisionismo del PCI aveva proposto).

Ecco perché si può ben affermare che gli attuali proclami di resistenza perenne, da difendere contro ogni minaccia di revisionismo, sono frutto non di una continuità storica bensì di un ben preciso atto di pregresso revisionismo storico, operato dalla sinistra italiana sul finire degli anni cinquanta.
Cordiali saluti.

Paolo Sardos Albertini

pubblicato su “Il Piccolo” il giorno 8 maggio 2002