Sono Godeas Gianantonio e Faccio queste considerazioni informando il lettore che ho mandato al Presidente Napolitano alcune note informative, sull’incotro ipotizzato a Trieste con i Presidenti Sloveno e Croato affinché non cada nel tranello slavo il cui scopo non è una impossibile riconciliazione ma solo una ennesima umiliazione della identità italiana. offendendo ancora una volta gli istriani ed i dalmati e prestandosi al gioco slavo che vuole “tutto” senza nulla concedere all’Italia avendo sottratto la Venezia Giulia e la Dalmazia e rubando i beni degli italiani.
– Anvgd.it 26/06/10 Sabato
Toth: non porre condizioni politiche per Napolitano a Trieste !
Il Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Lucio Toth, ha diffuso oggi una nota sulle polemiche sollevate in queste ore a proposito della visita che porterà il Presidente della Repubblica Napolitano il prossimo 13 luglio a Trieste, in occasione del “Concerto dell’Amicizia” diretto da Riccardo Muti.
Toth manifesta il suo rincrescimento per le “difficoltà inaspettate” che incontra una “iniziativa artistica così bella e significativa” e rileva come sia “più facile organizzare eventi di questo tipo a Saraievo che non a Trieste”. Il riferimento del Presidente Anvgd è agli “avvenimenti dolorosi di novant’anni fa, come l’incendio del Centro culturale iugoslavo? del Balkan, che seguiva a un clima di violenze inter-etniche tra italiani e slavi dal Goriziano alla Dalmazia”?(Ndr assassinio a spalato di due marinai italiani. Perché racconta balle?) e alla polemica sollevata dal giornale sloveno “Delo” che ha di fatto costretto il Presidente Türk a porre come condizione alla sua presenza al concerto, l’omaggio al Balkan con Napolitano, finendo per sconcertare gli ambienti politici triestini.
Toth si assume l’onere di chiedere a tutte le parti “per il buon nome di Trieste, di abbassare i toni della polemica, nel rispetto reciproco dei sacrifici patiti e nella volontà di superamento di antiche contrapposizioni che nell’Europa di oggi non hanno ragione di esistere” ricordando come oggi “Soldati italiani e sloveni siano insieme in Afganistan a combattere il terrorismo!”.
Il Presidente dell’Associazione degli Esuli giuliano-dalmati chiede quindi che “Non si pongano condizioni al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affinché sia libero di andare a Trieste ad ascoltare in serenità il concerto di Muti con i triestini” ricordando però che “se si vogliono onorare luoghi-simbolo, è inevitabile che si debba andare anche a Basovizza e alla Risiera”.
La Redazione del sito anvgd
Questo dunque è il messaggio d’incoraggiamento del Presidente TOTH affinché l’Incontro con il Presidente Sloveno Turk, che auspica una visita riparatoria del Napolitano al Balkan, e con il Presidente Croato abbia luogo.
E’ incredibile che una persona con responsabilità di governo della ANVGD, ove i dalmati sono di casa per non dire padroni rispetto agli Istriani, si presti ai giochi dei maggiorenti slavi per portare il Presidente Italiano a “canossa” alla cancellazione totale della identità italiana dell’Istria e della Dalmazia addossando ogni responsabilità dell’esodo e delle foibe alla storiella dell’Italia fascista. Egli dimentica che noi siamo fuori dalle nostre proprietà e dalle città ove siamo nati e che esse sono occupate da slavi provenienti da tutte le più lontane ed arretrate regioni della Balcania slava : non so se nelle nostre case si parli bosniaco o serbo o croato e se magari non vi siano un po’ di mussulmani in preghiera verso la mecca e tutto ciò malgrado il trattato di Pace stabilisca ben altre condizioni, travisate dai democristiani per servilismo.
Noi abbiamo a volte combattuto Giacomo Scotti per la sua posizione filo-titina e non abbiamo cambiato idea sui suoi scritti come “FOIBE E FOBIE” ma dobbiamo ammettere che contrariamente a scritti “leggeri” tipo Calle Zorzi” scritto a Roma da uno che nel 43 girava nelle sacrestie,costui, Scotti ha scritto un testo veramente valido ed esaustivo a difesa della popolazione italiana di Istria e Dalmazia di cui è giusto dare atto all’uomo di Salerno perché verità sacrosanta. Eccolo e fatti i debiti paragoni c’è da rimanere basiti :
Quaderni Giuliani di Storia Anno XXIII (n°1 gennaio-giugno 2002) pag.21-35
LA LETTERATURA ITALIANA IN DALMAZIA: UNA STORIA FALSIFICATA
Nel lontano 1926, nella serie delle pubblicazioni dell’Accademia Jugoslava delle Arti e
delle Scienze di Zagabria, fu pubblicata l’opera di Gjuro Kobler dal titolo Talijansko pjesnistvo u Dalmaciji 16. vijeka, napose u Kotoru i Dubrovniku e cioè :«Poesia italiana in Dalmazia nel XVI secolo, soprattutto a Cattaro e Ragusa». Dopo quella data nessuno studioso croato ha mai più parlato di una
poesia o di una letteratura italiana in Dalmazia nei secoli passati. Cominciò invece un processo di trasformazione di quella letteratura da italiana in croata, processo che ha portato finora a colossali falsificazioni. In un articolo del 1969 lo storico della letteratura croata Andre Jutrovic scrisse: «.Gli scrittori della Dalmazia che nel passato scrissero le loro opere in lingua italiana devono essere inseriti nella nostra letteratura e nella nostra storia nazionale». In altre parole: considerati croati. Questo medesimo intellettuale, trattando successivamente di singoli scrittori italiani dalmati dei secoli passati, cio di dalmati di cultura e lingua italiana, li definì «scrittori croati di lingua italiana». Ed oggi questa é diventata una legge: nei libri di storia della letteratura croata, nei dizionari enciclopedici e nelle enciclopedie (croate), tutti quegli scrittori e poeti italiani portano l’etichetta di croati. Le eccezioni sono rarissime, riguardano unicamente Zara, e solo nel caso che si tratti di scrittori cosiddetti «irredentisti» dell’Ottocento e Novecento.
Nell’ottobre 1993, sulle colonne del «Vjesnik» di Zagabria, il presidente dell’Associazione degli scrittori croati dell’epoca mi accusò di aver «trasformato in italiani tutta una serie di scrittori croati dell’antica Ragusa». E questo perché, in un saggio sulla rivista «La Battana» (n. 109) avevo riportato i nomi originali di alcuni scrittori ragusei vissuti tra il Cinquecento e il Settecento, indicando i titoli originali in italiano e latino delle loro opere: Savino de Bobali (1530-1585); Serafino Cerva (1696-1759), Sebastiano Dolci, Stefano Gradi e altri che presto incontreremo. Io sfido tutti gli studiosi di letteratura di questo paese a portarmi un sola opera di questi scrittori e poeti che sia stata scritta in croato; li sfido a portarmi un solo documento, a cominciare dagli stessi libri di questi autori, nei quali i loro nomi siano scritti cos come li scrivono oggi i loro falsificatori. Qualche anno fa il pubblicista Ezio Mestrovich, sul quotidiano «La Voce del Popolo», riferì le parole dettegli da un anonimo e «illustre croato» per spiegare l’avversione che certi intellettuali croati nutrono verso l’Italia e gli italiani: «Siamo tanto affascinati dalla cultura italiana e la sentiamo così vicina, che, rischiarne di esserne compressi e plagiati al punto, da rinunciare alla nostra. Quando ci si spinge in questa direzione, allora l’amore può diventare odio». E spinto dall’odio, qualcuno cerca di appropriarsi di ciò che non gli appartiene fino al punto da definire croato Marco Polo! Oppure da dichiarare «croato da sempre» – laddove quel sempre potrebbe portarci all’inizio dell’umanità – ogni lembo dell’odierna Croazia che nel lontano o recente passato é stato invece abitato anche dagli italiani e concimato dalla cultura italiana, e prima ancora da quella latina. Oggi, purtroppo, la croatizzazione della letteratura, dell’arte e della cultura italiane fiorite in Istria e Dalmazia nei secoli passati diventata una regola nei libri di testo per le scuole e, come già detto, anche nelle enciclopedie croate. A questo scopo si ricorre alla contraffazione perfino dei nomi e cognomi. Le appropriazioni cominciano infatti proprio dalle generalità , cioè dalla loro croatizzazione. Una volta falsificati ovvero croatizzati nome e cognome di uno scrittore, di un pittore, di un musicista e di qualsiasi altro personaggio, ed accertato che nacque o visse sul territorio che OGGI fa parte della Croazia, la sua opera diventa automaticamente croata. Immaginate che cosa succederebbe se in tutto il mondo fosse applicata la prassi di appropriarsi del presente e del passato del territorio conquistato o acquistato.I nuovi padroni politici diventerebbero ipso facto anche padroni della storia, dello spirito,
della cultura e dell’opera letteraria ed artistica creata nei secoli precedenti dal popolo o dai popoli di quel territorio. Non a caso questo principio é stato esteso dalla Dalmazia all’Istria e alle isole del Quarnero dopo la seconda guerra mondiale. Così per esempio il poeta e musicologo istriano Andrea Antico, nato verso il 1490 a Montona e vissuto a Venezia, é diventato «Andrija Motuvljanin» e Andrija Staric; grazie a lui gli inizi della musica croata sono stati spostati al Cinquecento.
Quando non si riesce a falsificare il cognome, si falsifica almeno il nome e allora il pittore fiumano dell’Ottocento Giovanni Simonetti diventa Ivan Simonetti; sempre a Fiume l’illustre medico
Giorgio Catti diventa Djuro Catti, Giovanni Luppis si trasforma in Ivan Lupis o addirittura Vukic e si potrebbe continuare a lungo. Quasi sempre, perché, si segue la regola della contraffazione totale, di nome e cognome, in modo da cancellare ogni traccia di italianità . Allora capita che il grande filosofo e poeta
rinascimentale italiano Francesco Patrizio da Cherso ( 1529-1597) venga via via trasformato dalla storiografia croata in Frane Patricije-Petric nel 1927 (M. Dvomicic) e in Franjo Petric nel 1929 (F. Jelacic); resta Francesco Patrizzi per I. Kamalic, nel 1934, ma viene scritto Franje Patricijo da Nikola Zic nello
stesso anno; poi è Franjo Petric-Franciscus Patricius per Ivan Esih nel 1936 e Franjo Petris per S. Juric nel 1956 e Franciskus Patri-cijus per V. Premec nel 1968; per altri ancora il cognome si trasforma in Petric, Petrisic e Petracevic, infine il cosiddetto «padre della filosofia creata» diventato stabilmente Frane Petric dopo che così lo chiamarono V. Filipovic e Zvane Crnja nel 1980. In suo onore vengono tenute le «Giornate di Frane Petric» a Cherso, le giornate di un uomo inesistente. Non si può onorare un uomo togliendogli nome e cognome, falsificandoli. Se Francesco Patrizio potesse sorgere dalla sua tomba, maledirebbe i suoi falsificatori e tutti coloro che hanno affollato la storia della cultura e dell’arte croata con personaggi che nulla o pochissimo hanno che fare con la cultura croata. A me dispiace moltissimo – e qui mi soffermo ancora un poco su Francesco Patrizio – che i chersini non si siano ancora ribellati alla sopraffazione, accettando per esempio che venisse imposto alla locale scuola elementare il nome di «Frane Petric». Ci tengo a ripetere e sottolineare
– visto che ogni uomo, di oggi e di ieri, quello che per la sua lingua, la sua cultura – che Francesco Patrizio non scrisse in vita sua una sola riga in croato. La Citt Felice, il Dialogo dell’honore, il Discorso della diversità dei furori poetici, la Lettura sopra del Petrarca, La gola e il sonno e l’ oziose piume, il poemetto Eridano, i trattati Della historia dieci dialoghi, Della retorica dieci dialoghi, La militia romana di Polibio, di Tito Livio e Dionigi Alicarnasso, II Trimerone, Della Poetica, La Deca Disputata, La Deca Istoriale ed altre opere del grande chersino che oggi i croati sono costretti a tradurre nella loro lingua per gloriarsi della «grandezza della filosofia croata» furono scritte tutte in italiano da un italiano! E sul frontespizio di quelle opere l’autore si firma come Francesco Patrizio, talvolta come Patrizzi e Patrizi, come nei saggi polemici intitolati Difesa di Francesco Patrizi dalle cento accuse dategli dal signor Iacopo Mazzoni; Risposta di Francesco Patrizi a due opposizioni fattegli dal Sig. Giacomo Mazzoni e Paralleli militari di Francesco Patrizi. Il nostro filosofo e poeta pubblica complessivamente venticinque opere, quasi tutte edite a Venezia, e di esse cinque furono scritte in lingua latina, tutte le altre in italiano. Come già visto, alcune di queste opere portano il nome e cognome dell’autore nello stesso titolo, come Le rime di Messer Luca Contile, con discorsi et argomenti di Messer Francesco Patritio. Insomma, Patrizio ovvero Patritius come si firmava in latino, non fu mai Frane Petric, tanto meno Petris, Petrievic o come diavolo vogliono i suoi contraffattori. Non si tratta qui di grafia, ma di rispettare semplicemente la verità storica. Perché allora “ chiederà qualcuno – gli storici croati si accaniscono tanto a enfatizzare il Nostro? Su quale fondamento basano le loro asserzioni? Ecco, ricorrono a una leggenda. Il critico letterario croato Franjo Zenko cosa scrisse nel 1980 nella prefazione alla traduzione croata dell’opera di Patrizio Della Historia dieci dialoghi: «Sull’origine del filosofo chersino per ora non si può dire nulla con certezza. L’accenno fatto dallo stesso filosofo nella sua autobiografia, laddove si dice che i suoi antenati vennero dalla Bosnia come discendenti di famiglia reale, non si può accettare come degno di fede; e finora non si sono trovati documenti che attestino da quale località o regione giunsero a Cherso». E tuttavia, é bastata l’accenno di Patrizio alla leggenda familiare secondo la quale i Patrizio fossero discendenti di una famiglia reale bosniaca, per indurre quasi tutti gli intellettuali croati, fino agli organizzatori della
«Giornate di Frano Petric» ad affermare, ripetere, scrivere e scolpire sul marmo la croaticit di Francesco Patrizio. la dimostrazione, questa, della pochezza morale e intellettuale dei falsificatori. E qui, prima di continuare con altri esempi di falsificazioni, voglio subito dire un mio pensiero in merito. La contraffazione della storia e l’appropriazione indebita da parte croata dei grandi uomini e delle grandi opere della cultura italiana di queste terre – Istria, Dalmazia, Quarnero – è una vecchia-nuova forma di nazionalismo e
sciovinismo. La frustrazione derivante da un senso di minor valore e le insufficienze culturali vengono trasformate in miti di vittoria, dietro i quali si nascondono l’invidia e l’odio. In questo caso l’odio per l’Italia e gli italiani. Succede come è successo alcuni anni addietro in certe regioni martoriate dalla guerra. Per fare pulizia etnica o si ammazzavano le persone di diversa etnia oppure queste venivano terrorizzate e costrette a scappare; ma anche dopo la fuga restavano le loro case chiese o moschee a testimonianza della presenza secolare nel territorio di quella etnia; a questo punto si distruggevano quelle case e templi con il fuoco e con la dinamite. Anticamente, quando il cristianesimo prevalse sul paganesimo, le chiese vennero tutte
costruite sui ruderi dei tempi pagani per cancellare le tracce delle divintà greco-romane ed affermare l’unica vera religione; ma si é ottenuto il risultato contrario: le antiche fondamenta pagane sono rimaste, si sono meglio conservate. Agli antichi Avari e Slavi che distrussero Epidaurus ovvero Ragusavecchia,
Salona, Nona ed altre città romane dalmate si può perdonare: erano barbari e analfabeti. Ma come si possono perdonare i nuovi barbari dell’epoca nostra? Le offese portate al filosofo chersino, al musicista e poeta di Montona, al pittore fiumano e a tanti altri esponenti della cultura e dell’arte italiana nella regione istro-quarnerina ovvero nei tenitori che nel 1945 furono dichiarati «neoliberati» sono la conseguenza di uno sforzo compiuto dai nuovi venuti per azzerare la storia di chi li ha preceduti e di riscrivere una storia nuova ad essi più conveniente; ma poiché in questi territori gli italiani, anche se pochi, sono rimasti, la distruzione della memoria non ha potuto essere totale. Invece in Dalmazia non si salva nessuno. A leggere i libri di storia e le storie della letteratura o dell’arte croati si ha l’impressione che quella regione sia culturalmente croata almeno da tremila anni, a cominciare dagli illiri: romani e veneziani furono soltanto dei temporanei invasori, ospiti senza radici e senza potere, senza lingua, senza scrittura e senza cultura. Mentre i contadini e popolani croati creavano opere scultoree e pittoriche eccezionali fin dall’ottavo secolo, e scrivevano libri di poesia, trattati di filosofia, opere scientifiche eccetera, patrizi e cittadini romanici e italici della città costiere della Dalmazia e delle sue isole maggiori facevano la parte di inetti spettatori, oppure offrivano la manovalanza, ignoranti e analfabeti com’erano.
Avete mai letto in un libro croato di storia dell’arte dei capolavori di Giorgio Orsini, scultore ed architetto nato a Zara all’inizio del XV secolo e morto a Sebenico nel 1473? No, quest’uomo non esiste in quei libri, perché è stato croatizzato: Juraj Dalmatinac. La medesima sorte é toccata a uno dei maggiori pittori del
Cinquecento, Andrea Meldola, vissuto per quasi tutta la vita a Venezia dove si spense nel 1563. E’ stato trasformato in Andrija Medulic e inserito nelle enciclopedie croate come pittore croato. E ciò nonostante il fatto che il cognome Meldola derivi da una cittadina della Romagna, nei pressi di Forlì, Meldola appunto, dalla quale proveniva Simone de Meldola, padre del futuro pittore, che a sua volta nacque a Zara dove Simone, al servizio della Serenissima, ebbe la carica di conestabilis. Fin da ragazzo Andrea Meldola si
trasfer a Venezia dove fu amico di Tiziano, Tintoretto, Veronese, ammirato dal Vasari e dall’Aretino. Perché allora i croati lo hanno ribattezzato Medulic e lo definiscono pittore croato? Perch il Nostro ebbe il vezzo di firmarsi in tre modi: in latino Andreas Sclavonus dictus Meldola, in italiano Andrea Schiavone e Andrea Meldola. Agli «storici» croati é bastato quello «Schiavone» per appropriarsene. A Sebenico ed a Zara vi sono vie intitolate a personaggi dal cognome Divnic che talvolta si presenta nella variante Difnik. Chi erano costoro? Seguendo l’ordine alfabetico, croato cominceremo da Franjo Divnic-Difnik dietro il quale, diciamolo subito, si nasconde Francesco Difnico, ovvero Difnicus nella variante latina. Fu uno storico delle vicende della Dalmazia del suo tempo, nato a Sebenico nel 1607 ed ivi spentosi nel 1672. Amico e parente dello storico di Traù Giovanni Lucio, aveva studiato e si era laureato in giurisprudenza a Padova. Nella città natale ebbe svariati incarichi al servizio della municipalità e della Serenissima Repubblica di Venezia da lui difesa valorosamente con le armi e magnificata con le opere, fra le quali ricordiamo Memoria della Dalmazia del 1652 e Historia della guerra di Dalmazia fra i Veneziani e i Turchi dall’ano 1645 fino alla pace che sarà pubblicata dopo la sua morte. Un figlio di Francesco Difnico, il canonico e arcidiacono Giovanbattista Difnico fu poeta e storico, autore di due opere giunte fino a noi, cosi intitolate: Sententie, Detti et Avertimenti notabili da diversi autori scielti et in uno messi per Giovan Battista Difnico Sebenzano nell’anno 1591 e Relazione di Zuane Difnico del viagio da lui fatto in Sanzacato di Hlivno nel anno 1574. Ma nonostante la lingua in cui scrisse e sebbene avesse inserito il proprio nome nei titoli stessi delle sue opere, Giovanni ovvero Zuane Difnico non é sfuggito alla falsificazione e all’umiliazione di essere croatizzato: Ivan Divnic-Difnik. La medesima sorte é toccata e Giorgio Difnico, croatizzato Juraj Divnic-Difnik, nato a Sebenico pure lui (nel 1450) e spentosi nel 1530 a Zara dopo essere stato vescovo di Nona. Ha lasciato una preziosa descrizione di una battaglia svoltasi nei dintorni di Zara contro i Turchi, descrizione contenuta in una sua lettera al papa Alessandro VI datata 27 settembre 1493. E stato trasformato in croato, col nome di Petar Divnic-Difnik anche il poeta Pietro Difnico nato a Sebenico nel 1525 ed ivi morto intorno al 1600. Comandante per quindici anni di reparti cristiani in guerra contro i Turchi, ha lasciato un’ode alla città di Sebenico che fu parzialmente riportata da Alberto Fortis nel celebre Viaggio in Dalmazia del 1774. Un’altra grande famiglia sebenicense che ha dato uomini illustri nel Cinquecento fu quella dei Verantius-Veranzio. Ma inutilmente sotto questa voce li troverete nei dizionari enciclopedici croati; in essi si nascondono sotto il cognome semplicemnete inventato di Vrancic. Il primo nell’ordine cronologico é il vescovo e umanista Antonio Veranzio-Verantius (1504-1573), diplomatico, storico, archeologo, poeta, scrittore di viaggi, personalità di levatura europea. Scrisse le sue numerose opere in latino: De rebus gestis Hungarorum; De situ Transilvaniae, Moldaviae ed Transapianae; Elegiae; Otia, eccetera. Ha pure lasciato oltre 4000 epistole. Fu amico di re e imperatori, di scrittori e filosofi, scambiò lettere con Erasmo da Rotterdam, Melantone, Paolo Giovio, Tranquillo Andreis e tanti altri uomini illustri della sua epoca. Fratello di Antonio e autore di alcune opere storiografiche e letterarie fu Michele Veranzio, in croato presentato come Mihovil Vrancic (Sebenico 1507 -ivi 1571). Dopo gli studi compiuti a Padova, Vienna e Cracovia, prese parte a varie missioni diplomatiche, ma poi preferì gli «ozi» letterali nella città natale, ottendo però scarsi risultati. Tracce ben più profonde ha lasciato suo figlio Fausto, nato a Sebenico nel 1551, spentosi a Venezia nel 1617, polstore, lessicografo e inventore. Dopo gli studi compiuti a Padova, Venezia e Roma, fu consigliere di vari monarchi e seguì lo zio Antonio in viaggi diplomatici attraverso l’Europa. Dopo la morte della moglie, si fece
prete, fu nominato vescovo, infine si ritirò in vari conventi come frate barnabita. Contribuì alla regolazione del fiume Tevere e alla costruzione di alcune pubbliche fontane a Venezia, ma divenne famoso soprattutto per una monumentale opera, Machinae novae (Venezia 1595), nella quale descrisse e
disegnò svariate sue invenzioni tecniche, relative a vari tipi di ponti, di mulini, macchine volanti eccetera. Fra le sue opere storico-letterarie spiccano De Slovinis seu Sarmatis (Roma 1606), il Dictionarium quinque nobilissimarum Europae linguarum, Latinae, Italicae, Germanicae, Dalmaticae et Ungaricae
(Venezia 1595), i trattati di filosofia Logica nova ed Ethica christiana (Venezia 1616) e molte altre opere. Per i falsificatori Faust Vrancic il più grande inventore croato di tutti i tempi» e il primo lessicografo croato».
Si arrivati al punto da dichiarare croato perfino uno dei primi creatori del romanzo italiano, Gian Francesco Biondi, nato a Lesina sull’omonima isola dalmata nel 1574 e morto nel 1644 ad Aubonne presso Berna in
Svizzera. Per gli storici della letteratura croata che se ne sono appropriati egli é uno «scrittore croato di lingua italiana». Nelle enciclopedie viene indicato con il nome ibrido di Ivan Franjo Biondi-Biundovic. Egli peraltro visse per lunghi anni a Venezia mantenendo rapporti epistolari con Galileo, fra Paolo Sarpi, con i corregionali dalmati Ghetaldi, Francesco Patrizio e Marcantonio Dominis, fu diplomatico della Serenissima presso la corte francese, la corte dei Savoia e la corte di Londra, dove sposa una nobildonna inglese.
Sue opere letterarie principali sono i romanzi Lâ Eromena (Venezia 1624), La donzella desterrada (Venezia 1627), e il Coralbo (Venezia 1632) che ebbero una decina di ristampe nel giro di pochi anni.
Pubblica inoltre L’Istoria delle guerre civili d’Inghilterra tra due case di Lancastro e Jorc (1724). I romanzi di Biondi ebbero tale diffusione e divennero a tal punto popolari che nel 1638 tale Rumaceni pubblica in volume, a Viterbo, una Raccolta di tutte le sentenze, detti e discorsi morali, filosofici, politici… che si contengono nella Eromena… ed in altre opere del sig. Gian Francesco Biondi, il quale ebbe un ruolo importante nello sviluppo del romanzo europeo. Stando agli studiosi della letteratura del Seicento, con l’Eromena Biondi diede alla letteratura italiana il primo romanzo eroico-galante, un tipo nuovo di romanzo scevro degli elementimistico-magici medievali. Ecco, uno scrittore di questo calibro, la cui unica colpa fu quella di nascere in un territorio che é oggi parte dello stato croato, subisce per questo motivo la croatizzazione del nome. Purtroppo le vittime di questa falsificazione formano una fitta schiera. Limitandomi all’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento ricorderei ancora alcuni personaggi ragusei. L’autore del Dialogo sopra la sfera del mondo, pubblicato a Venezia nel 1579, il poeta, commediografo, matematico e astronomo raguseo Niccolò Nale (1510 circa-1578) viene presentato come Nikola Naljskovic..
Conterraneo del Nale, Marinus Ghetaldus-Ghetaldi (1568-1626), autore di importanti opere scientifiche pubblicate quasi tutte a Roma e qualcuna a Venezia, uno dei più grandi matematici europei, amico e corrispondente di Galilei, conosciuto come Ghetaldi e soltanto come Ghetaldi in tutto il mondo, diventa croato col nome di Marin Getaldic. Il suo amico e coetaneo Niccolò Gozze, pure lui raguseo, filosofo, della nobile casata dei Gozzi, autore del Dialogo della bellezza e del Dialogo d’amore, viene croatizzato e presentato come Nikola Vitov Gucetic. La poetessa Flora Zuzori, alla quale quelle due opere furono dedicate, vissuta nella stessa epoca, trasferitasi da Ragusa a Firenze dopo essersi sposata con il patrizio fiorentino Bartolomeo Pescioni, viene presentata immancabilmente come poetessa croata con il nome di Cvijeta Zuzoric! I primi scrittori croati di medicina vengono da Dubrovnik», ha scritto Dubravko Horvatic, compilatore della più recente storia della Croazia, citando fra questi «croati» il raguseo Giorgio Baglivi (1668-1707) che fu professore di medicina a Roma e uno dei più illustri d’Europa. Più avanti afferma che «la
prima opera di saggistica storica in Croazia» fu scritta e pubblicata dal tragurino Ivan Lucic, nome sotto il quale si cela Johannes Lucius, ovvero Giovanni Lucio (1604-1671), come egli si firmava nelle varianti latina e italiana. Scrive ancora l’Horvatic: «Uno dei primi scrittori croati di argomenti scientifici fu il raguseo Benko Kotruljevic, vissuto nella prima metà del XV secolo», aggiungendo subito dopo che questo Kotruljevic’ scrisse le sue opere esclusivamente in italiano e in latino «perché potessero più facilmente
circolare negli ambienti scientifici stranieri». In altri testi croati troviamo due varianti: a Kotruljevic si affianca Kotruljic Ma non é mai esistito; sotto questa generalità affibbiatagli dai soliti falsificatori si nasconde l’italianissimo raguseo Benedetto Cotrugli de Costruglis come egli stessa firmava le sue opere in italiano, ovvero BenedictusCotrullus quando si serviva del latino. Le stesse fonti croate ci dicono che gli antenati di questo uomo illustre, nato in una famiglia di mercanti, portarono il medesimo cognome italiano, sia pure alquanto modificato: Cotrulli, Cotrullo e Cotrugli. Mi sia permesso di soffermarmi più a lungo su questo personaggio. Lasciando da parte tutti coloro che nella stessa Ragusa, in Italia, in Germania e altrove scrissero di Cotrugli dal Cinquecento fino agli inizi del Novecento, prendiamo un autore di queste parti, Antonio Bacotich: una sua monografia, che ha per titolo Benedetto Cotrugli da Ragusa, primo scrittore di
aziende mercantili, risale al 1930, anno di pubblicazione nellâ «Archivio storico per la Dalmazia, n. 5. I primi testi nei quali il Cotrugli viene indicato come Kotruljevic risalgono invece al 1949. La moneta falsa coniata allora continua acircolare con l’ imprimatur della legalità . Stando ai risultati di più recenti ricerche, Benedetto Cotrugli nacque a Ragusa in un periodo posto tra il 1400 e il 1416 e si spense a Napoli nel 1469. Originario di una famiglia di mercanti borghesi trasferitasi a Ragusa da Cattaro nel XIV secolo, segue il solco tracciato da suo padre Giacomo e dallo zio Giovanni che avevano esteso in Italia una vasta rete di commerci, mentre a Ragusa possedeva case, terre, tessitorie e tintorie, e navi. Dopo aver compiuto le scuole elementari a Ragusa, Benedetto studia a Bologna. Alla morte del padre, nel 1434, prese in mano le redini dell’azienda in società col fratello Michele e gli zii, estendendo gli affari nell’Italia meridionale, nell’Africa settentrionale e in Catalogna. Dal 1458 fu console presso la corte napoletana e ambasciatore di re Ferdinando I a Ragusa, in Bosnia e in Ungheria. Nel 1460 divenne direttore della zecca ad Aquila, carica che, dopo la sua morte, sarà affidata al figlio. Alcune sue opere sono andate perdute; ci é pervenuta, invece, Della mercantura et del mercante perfetto, quattro libri stampati in Venezia nel 1573. Sarà tradotta in francese nel 1582 e in serbocroato quattro secoli dopo nel 1963. Di Benedetto Cotrugli hanno scritto saggi il suo conterraneo Savino Maria Cerva (Benedictus Cotrullus, in «Biblioteca Ragusina», t. 1), F.M. Appendini in Notizie istorico-critiche sulle antichità , storia e letteratura de’ Ragusei, vol. II, Ragusa 1803; Simeone Gliubich in Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia (Vienna-Zara, 1856); A. Montanari in Benedetto Cotrugli («Italia centrale», 25.XII.1890), Vittorio Alfieri ne La partita doppia per la prima volta esposta da Benedetto Cotrugli, e, di recente (Venezia 1990), Ugo Tucci, che ha curato l’edizione moderna del suo manuale di mercatura. Tutti costoro, e altri ancora, hanno sottolineato che il Cotrugli l’autore del primo trattato italiano sulla mercatura, un’opera che nulla ha che fare con la letteratura e la cultura croata. giusto, perci, che – reagendo ai più recenti tentativi di snazionalizzarlo – anche noi lo consideriamo per quello che fu e rimane: un illustre personaggio della cultura e della letteratura italiana, il quale – come molti uomini di scienza dell’Italia della sua epoca – ebbe diversi interessi scientifici e culturali, come dimostrano altre due opere delle quali, purtroppo, ci sono giunti soltanto i titoli: De uxore ducenda e Della natura de’fiori.
Uno dei più illustri poeti italiani di Ragusa del Cinquecento fu Savino de Bobali detto il Sordo (1530-1585), membro della «Accademia dei Concordi» e autore, tra l’altro, di un volume di «Rime amorose e
pastorali et satire» stampato a Venezia presso Aldo Manuzio del 1579. Per gli storiografi della letteratura croata, invece, si tratta di un loro poeta: Savko ovvero Sabo Bobaljevic-Glusac. Soffermandoci brevemente a Ragusa, ricordiamo ancora il patrizio e poeta Stefano Gradi, un personaggio che nella storia della letteratura croata entrato, come al solito, di contrabbando, con la forma croatizzata delle sue generalità : Stjepan Gradic.. Nato a Ragusa nel 1613 e morto a Roma nel 1683, uscito da una famiglia patrizia, fu mandato in Italia a studiare in vari collegi dei gesuiti, divenne sacerdote, scrittore e custode della Biblioteca Vaticana, socio dell’Accademia dei Ricovrati di Padova e fondatore dell’Accademia Reale di Roma dopo essere stato animatore dei circoli letterali a Fermo e a Bologna. Firma i suoi numerosi libri, le sue lettere e altri documenti sempre e soltanto come Stephanus-Stefano Gradi. Di fronte a un nome e cognome troppo italiani per un «poeta croato» che fare? Niente, si aggiunge una «C», e il giuoco fatto. Per sfortuna dei falsificatori, nell’Ottocento c’é stato un altro scrittore dalmata, Niccolo Gradi – nato a Zara nel 1823, morto nel 1894 – poeta italiano pure lui, che in vita non permise manipolazioni del suo cognome, e come Gradi entrato anche nelle enciclopedie croate del nostro tempo con l’annotazione: «ultimo poeta dalmata di origine patrizia, discendente dalla nobile famiglia dei Gradi ragusini». Un altro scrittore raguseo, il gentiluomo Serafino Cerva (1696-1759), autore di una celebre Biblioteca Ragusina, che é la prima enciclopedia della letteratura ragusea e dalmata, viene presentato come Serafini Crijevic dai suoi falsificatori costretti peraltro a tradurre l’opera del Cerva dal latino. La stessa enciclopedia del Cerva, comprendente ben 435 biografie di
letterati dell’antica e illustre «Atene dell’Adriatico», sta a dimostrare che, fatte pochissime eccezioni, tutti gli scrittori ragusei vissuti fino al XVIII secolo scrissero in latino e in italiano. Non poteva essere altrimenti: vuoi perché la piccola repubblica marinara «importava» dall’Italia rettori e maestri di scuola, ed era legata direttamente alla cultura italiana, vuoi perché tutti indistintamente i figli dei patrizi ragusei studiavano in Italia e molti intellettuali trascorsero in Italia gran parte della loro vita, la letteratura ragusea fu una vera e propria appendice della letteratura italiana. Lo stesso può dirsi per la storia letteraria di Zara e per gran parte di quella di Spalato, Lesina, Lissa, Lagosta, Tra, specialmente nell’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento.
A questo punto dovrei presentare una sintesi, sia pure rapidissima, della letteratura cosiddetta croata in Dalmazia, per scoprire che si tratta in gran parte di una colossale falsificazione, essendo in realtà
perlopiù letteratura italiana. Ma trovandoci in un campo sconfinato, giocoforza limitarsi stavolta a dei piccolissimi segmenti, rinviando ad altre occasioni un discorso più approfondito. Aggiungerei soltanto pochi altri esempi di falsificazioni, spingendomi questa volta addirittura fuori del territorio politico della Croazia. Andiamo nelle Bocche di Cattaro, territorio litoraneo montenegrino. Giovanni Bona-Boliris, nato a Cattaro intorno al 1520 e morto verso il 1572, fu poeta umanista che scrisse in latino e in italiano. Si firmava Giovanni Bona, Johannes Bona e Ioannes Bonna. Si forma all’università di Padova da lui frequentata per studiare giurisprudenza. Fatte rarissime eccezioni, gli storici serbi e croati inserirono questo poeta nelle loro letterature nazionali, cambiandogli il nome in Ivan Bolica, rispettivamente Bunic. Lo troviamo, tradotto ovviamente, dapprima nelle antologie dei Latinisti croati del 1966 e poi nell’antologia montenegrina del 1979. Per fortuna sua, era entrato in una prima antologia italiana già nel 1555. Quattro secoli prima. L’opera principale di Giovanni Bona de Boliris Descriptio sinus et urbis Ascriviensis (per D. Ioannem Bonam de Boliris, nobilem Catharensem), un componimento di 331 esametri latini con il quale glorifica le Bocche di Cattaro, la stessa Cattaro e le altre località del fiabesco golfo. L’opera fu pubblicata a Lucca, in Toscana, nel 1595 dal domenicano raguseo Serafino Razzi in appendice alla propria Storia di Raugia (Ragusa). Bona de Boliris mantenne stretti rapporti con i circoli letterari in Italia, in particolare con i poeti riuniti intorno alla corte di Napoli. Quando G. Ruscelli, nel 1551, raccolse testi poetici per un’antologia in onore di Giovanna d’Aragona, la bellissima consorte napoletana di Ascanio Colonna, invita anche il cattarino Bona de Boliris. Il quale, aderendo all’iniziativa, fu presente nel volume pubblicato a Venezia nel 1554 con il titolo Il tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona, fabbricato da tutti i più gentili spiriti e in tutte le lingue principali del mondo. Il Bona vi entra non con poesie in croato o serbo, lingue che evidentemente non appartenevano alla sua creatività letteraria, ma con un sonetto italiano e un epigramma latino, firmandosi Giovanni Bona da Cattaro. Non immaginava certamente che quattro secoli e mezzo più tardi, montenegrini e croati si sarebbero accapigliati per dichiararlo gli uni poeta serbo e gli altri poeta croato. Il saggista croato Slobodan Prosperov Novak, già presidente del Centro croato del Pen Club, ha scritto recentemente in un libro di cui ci
occuperemo, che «Ivan Bolica (il nostro Giovanni Bona de Boliris) resta eternamente annoverato nella storia letteraria croata». Amico, ammiratore e conterraneo del Bona fu Ludovico Pasquali (1500-1551), autore di
una raccolta di poesie in lingua italiana, Rime volgari del 1549, e di un volume in lingua latina, Carmina, edito nel 1551. Anche di questo poeta si sono impossessati gli storici delle letterature serba e croata, e per appropriarsene gli uni e gli altri lo hanno snazionalizzato: per i croati Ludvig Paskvalic e
Paskalic, per i serbo-montenegrini Ludovik Paskvojevic e Paskovic. Rivelatrice la prefazione all’antologia Latinisti croati laddove si parla del Pasquali: i suoi curatori ammettono indirettamente la falsificazione, scrivendo: «Dovendo stabilire il nome del poeta (e cioé dovendo decidere come croatizzarlo, diciamo
noi), abbiamo optato per la variante Paskvalic perché a suo favore depongono le forme latina (Pascalis) e italiana (Paschale, Pascale) del suo cognome, come l’autore stesso alternativamente si firmava, forma che i suoi discendenti cambiarono in Pasquali nel XVIII secolo». Credo che a questo punto un qualsiasi
commento sarebbe sprecato. Quando l’antologia dei Latinisti croati apparve ci stupimmo della presenza in essa di poeti come Bona, Pasquali e altri che alla Croazia non appartenevano nemmeno territorialmente, essendo nati a Cattaro o nelle sue Bocche, dunque nell’odierno Montenegro. Ma la nostra
meraviglia si trasforma in stupore e incredulità di fronte a un’altra antologia apparsa nel settembre 1993 col titolo Stara knjitevnost Boke (L’antica letteratura delle Bocche di Cattaro) nella quale i curatori – i saggisti croati Slobodan Prosperov Novak, Ivo Banac e don Branko Sbutega – dichiarano espressamente che lo scopo del loro lavoro quello di restituire alla letteratura croata gli scrittori delle Bocche di Cattaro, e cioé di una fetta del Montenegro, perché quegli scrittori, essendo stati cattolici, non possono essere considerati serbo-montenegrini, ma croati! Ammesso e non concesso che ogni cattolico nato in un territorio qualsiasi della sponda orientale dell’Adriatico debba essere considerato croato, ci chiediamo come si possano
attribuire alla letteratura croata poeti e scrittori che non scrissero le loro opere in lingua croata. Qui chi grida «Al ladro, al ladro!» lui stesso un ladro matricolato preso con le mani nel sacco. Infatti in quest’antologia croata della letteratura delle Bocche di Cattaro, che va dal tramonto del XIV alla fine del XVIII secolo, troviamo 48 autori nati nelle Bocche, dei quali 12 sono anonimi. Sottratti questi ultimi, ne restano 36, dei quali, 22 non hanno lasciato una sola riga di scritto in lingua croata o serba, sicché è stato
ingaggiato un manipolo di ben 11 italianisti per tradurre i loro testi dal latino e dall’italiano e inserirli nell’antologia. Per la precisione in due casi le traduzioni sono dal latino e in tutti gli altri dall’italiano. La domanda, fastidiosa, sempre la stessa: come possono appartenere alla letteratura croata
dei testi italiani poetici e in prosa? Con quale diritto, con quale faccia tosta si possono compiere siffatte operazioni?
In quest’antologia compaiono, come poeti e scrittori croati, Ludovico Pasquali-Pascalis, Giovanni
Bona-Boliris, e ancora Giovanni Bolizza, Giorgio Bisanti, Girolamo Pima, Timoteo Cisilla, Giovanni Crossala, Giuseppe Bronza, Girolamo Panizzola, tutti innegabilmente italiani, insieme ad altri di origine slava, armeno a giudicare dai cognomi, anch’essi perché autori di testi italiani. Cominciamo subito da Cristoforo Ivanovich, il cui cognome chiaramente slavo, diciamo pure croato. Ma fino a che punto può definirsi scrittore croato questo Cristoforo Ivanovich? Nacque a Budua nel 1618 e si spense a Venezia nel 1688. Tra le sue
opere spiccano due grossi volumi di poesie, ambedue scritti e pubblicati a Venezia: Poesie e Minerva a tavolino. In questa seconda opera lo Ivanovich pubblica anche una silloge del proprio epistolario e un’ottantina di pagine di sue Memorie teatrali a Venezia. Oltre che poeta, infatti, egli era un uomo di
teatro e scrisse numerosi libretti musicati da Pier Francesco Cavalli (l’opera drammatica Coriolano), da Domenico Partenio (Costanza trionfante), Giovanni Pagliardi (Lisimaco), Pietro Andrea Ziani (L’amor guerriero) e Domenico Freschi (Circe). Tutti questi drammi musicali venivano rappresentati nei teatri pubblici
e di corte a Piacenza, Venezia, Bologna, Vicenza e di altre città italiane. Alla luce di questi elementi bio-bibliografici, é possibile o no considerare lo Ivanovich poeta montenegrino o croato? La risposta ci viene dallo stesso poeta il quale, in uno dei suoi scritti – tutti e soltanto in lingua italiana -volle precisare la sua esclusiva appartenenza alla lettaratura italiana. La medesima affermazione avrebbero potuto fare gli altri scrittori e poeti presenti nell’antologia di Slobodan Prosperov Novak, i cui testi croati sono stati
tradotti dall’italiano: Vincenzo Buiovich, Marco Martinovich, Cristoforo Mazzarovich, Marco Ivanovich-Moro,eccetera, fino a Stefano Zannovich. A parte il luogo di nascita – si va da Cattaro a Perasto, da Perzango a Budua – tutti costoro studiarono in Italia, nelle università di Padova e Roma; vissero parte
della loro vita in Italia, alcuni ci vissero per tutta la vita e vi morirono; si considerarono e furono protagonisti delle correnti letterarie italiane. Dagli stessi saggi di Novak, Banac e Sbutega che precedono, accompagnano e seguono i testi dell’antologia della letteratura «croata» delle Bocche emergono nomi di altri poeti e scrittori bocchesi, i cui testi sono andati perduti, qui definiti «umanisti e petrarchisti»; si chiamavano Bernardo Pima, Nicola Chierlo, Luca Bisanti, Alberto de Gliricis, Domenico e Vincenzo
Burchia, Vincenzo Ceci, Antonio Zambella, Francesco Morandi… Tutti «croati» ! Per concludere. Da circa ottant’anni – il fenomeno comincia timidamente dopo la costituzione della prima Jugoslavia nel 1920, per prendere via via sempre maggiori dimensioni – dalla critica e saggistica letteraria croata, in parte anche da quella serba, è stata portata avanti una sistematica appropriazione di scrittori italiani della Dalmazia e del Litorale montenegrino, e c’é stato, conseguentemente, l’inserimento nella letteratura croata e
montenegrina – alcuni nomi sono ripetuti nell’una e nell’altra – di tutti gli scrittori e poeti che scrissero in latino e in italiano, se nati e vissuti sul territorio dell’odierna Croazia e dell’attuale Montenegro. Il ladrocinio
accompagnato quasi sempre dalla slavizzazione e falsificazione dei nomi e cognomi italiani, come abbiamo largamente dimostrato. A questo punto consideriamo una «curiosa» circostanza: la letteratura croata dalle
origini e fino al XVI secolo è un susseguirsi di scrittori quasi esclusivamente dalmati da Marko Mamlic-Marulo a Hektorovic-Ettoreo e altri. Viene perciò spontaneo chiedersi: come mai le arti e la letteratura croate non ebbero inizio in regioni dell’interno quali la Slavonia, la Baranja, la Posavina, lo Zagorje e
altre, mentre furono fiorenti prima del XVI secolo in Dalmazia dove la letteratura in particolare si espresse nel latino e nell’italiano, e solo rarissimamente in croato? Jutrovic, Horvatic e tanti altri saggisti che
ritengono necessario arricchire la letteratura croata con le opere scritte in latino e in italiano da autori dalmati integralmente inseriti nella cultura italiana, compiono un furto alla luce del giorno, è vero, ma vanno compatiti. Lo fanno mossi dall’estremo bisogno. Appropriarsi della cultura altrui, in questo
caso della letteratura italiana dalmata, é l’unica possibilità della sposa per presentarsi allo sposo con una «dote» decente. Di che vantarsi, altrimenti fino al XVI-XVII secolo? Solo a cominciare da quei secoli, infatti, si possono trovare le prime pagine di storia della letteratura croata, come quelle della scultura, della pittura, della musica e delle altre arti; e tutte ci portano sempre in Dalmazia; in Dalmazia e, in genere, nella regioni che per lunghi secoli furono della Serenissima Repubblica di Venezia o della Repubblica di Ragusa, che fu pure uno stato di lingua e cultura italiana.
In altre parole, la cultura italiana in Dalmazia fece da seme e da concime; senza la presenza degli artisti e degli scrittori italiani dalmati – per non parlare di quelli che arrivavano dalla sponda occidentale per stabilirsi in Dalmazia – gli inizi della letteratura e di molte arti croate verrebbero spostati a secoli molto più vicini a noi. Non a caso il primo sillabario croato in caratteri glagolitici fu stampato nel 1527 a… Venezia, mentre la prima grammatica della lingua croata fu scritta dal missionario gesuita italiano Bartolo Cassio, nativo di Pago (1575-1650), il quale viene presentato oggi come Bartol Kasic.Le prime scuole laiche e «cittadine» comparvero non a Zagabria, Osijek, Koprivnica, Varazdin, ecc, bensì a Zara nel 1282 e a Ragusa nel 1333. La prima rete di scuole superiori non fu creata in Slavonia, nello Zagorje o in altre regioni croate ma in Dalmazia, a cominciare dal collegio gesuitico di Ragusa – che era provincia romana della Compagnia di Gesù – per finire con il seminario domenicano di Zara. Tutti gli intellettuali della Dalmazia dal
Duecento fino al Settecento e quasi tutti anche nell’Ottocento frequentarono esclusivamente università italiane: Padova, Bologna, Roma. Con queste constatazioni non intendiamo certamente porre rivendicazioni territoriali o chiedere modifiche di confini, ma nessuno può negarci le rivendicazioni morali,
nessuno può appropriarsi della nostra cultura, del nostro patrimonio di civiltà scritto nei libri e inciso nelle pietre.
Giacomo Scotti