Proponiamo l’importante intervento alla Camera dell’on. Roberto Menia, socio e dirigente della Lega Nazionale:
Signor Presidente, colleghi, è nozione comune e condivisa quella che, inizialmente, era solo una deduzione delle ricerche filologiche e cioè che la lingua contiene tutti gli elementi qualificanti la storia e l’identità del popolo che la parla.
Nell’articolazione del linguaggio non vi è soltanto l’espressione del pensiero in termini comprensibili, ma vi si condensano esperienze, relazioni, contatti, abitudini, vicende, aspirazioni e creazioni che, nel loro insieme, rappresentano l’evoluzione secolare di una comunità cioè la sua identità nazionale.
La lingua non si limita ad essere un addendo del processo aggregante di una nazione, ma la storia della lingua consente di ricostruire la storia dello spirito che informa di sè l’ascesa di un popolo verso la nazione.
Data la stretta connessione tra lingua e nazione, possiamo affermare che, dove c’è unità linguistica, c’è unità nazionale.
L’Italia è uno dei pochi paesi occidentali, in cui la Costituzione non prevede espressamente il riconoscimento della lingua nazionale come lingua ufficiale dello Stato ed è questo un vuoto che va colmato per una pluralità di motivi.
Nel secolo della globalizzazione vanno mantenuti e rafforzati gli elementi identitari che danno un senso comune alla vita della nazione.
Ecco perchè, proprio in questa fase, ritengo indispensabile riconoscere il ruolo della lingua italiana quale elemento costitutivo identificante della comunità nazionale, a prescindere dalle diversità localistiche.
La sottolineatura dell’unità linguistica non è certo, peraltro, in contrasto con la conservazione e la valorizzazione delle tradizioni e delle parlate locali e minoritarie, che vengono, tra l’altro, tutelate dall’articolo 6 della Costituzione, nonché da una specifica, anche recente, normazione ordinaria. Segnalo infatti che, proprio nella parte antimeridiana seduta, è stata ricordata, in più occasioni, la legge sulle lingue minoritarie approvata nel 1999.
L’evoluzione stessa della nazione e la sua proiezione nel tempo a venire, anche e soprattutto tenendo conto delle dinamiche demografiche e delle spinte migratorie, deve trovare un collante ed una ragione propulsiva nella lingua. La lingua comune diviene elemento fondamentale di integrazione. Quanto più la lingua italiana, con il suo portato di valori civili, morali e religiosi, sarà strumento di unione ed integrazione, tanto più potremo guardare con fiducia e speranza al futuro dell’Italia e delle prossime generazioni di italiani.
La vitalità di una lingua è la testimonianza della vitalità di una nazione. Va ricordato, in proposito, quanto scriveva un nobile padre della patria, Gioberti: «Ricordi a chi cale della patria comune, che secondo la comune esperienza, la morte delle lingue è la morte delle nazioni».
Potremmo quindi, in proposito e a contrario, essere sordi alle ripetute sollecitazioni dell’Accademia della Crusca – i cui rappresentanti, tra l’altro, sono stati auditi in Commissione affari costituzionali qualche settimana fa –, tese alla salvaguardia della lingua italiana ? Questo non tanto e non solo nella difesa di un « purismo linguistico » e di una tradizione interna, ma anche e soprattutto nella conservazione e nell’espansione di uno spazio europeo ed internazionale.
Vale la pena, in proposito, di citare quanto ebbe a dire, nel luglio 2003, proprio il presidente dell’Accademia della Crusca di fronte alla decisione di escludere l’italiano dalle lingue in cui vengono tradotte le conferenze stampa della Commissione dell’Unione europea, appellandosi al Governo italiano affinchè difendesse la nostra lingua in Europa.
Egli, infatti, affermò che: « Le idee che circolano in materia, non solo nell’Accademia, ma nella comunità scientifica dei linguisti italiani non sono affatto ispirate ad una difesa nazionalistica dell’italiano e delle lingue in genere, nè a una banale anglofobia. Il nucleo forte della nostra riflessione sul tema è dato dal principio che tutte le lingue dei popoli europei sono un bene culturale fondamentale dell’intera Unione e che, perciò , occorre assolutamente una politica comunitaria delle lingue, per sottrarre la loro gestione al prepotere delle tre “nazioni forti” che, come ha ben detto Galli Della Loggia, tendono a fare dell’Europa una propria riserva di dominio ».
Ma l’italiano è anche un bene universale fuori dai confini europei. Voglio qui riportare – pensando anche che per la prima volta, a partire da questa legislatura, abbiamo in Parlamento i rappresentanti degli italiani all’estero – a quanto ebbe a dire nel novembre del 2000, nel corso della Conferenza dei parlamentari di origine italiana, l’allora Vicepresidente del Senato della Repubblica argentina, Antonio Francisco Cafiero: « Possiamo affermare, senza tema di esagerare, che l’Italia non appartiene soltanto agli italiani: appartiene all’umanità intera (…). L’italianità ha saputo trasmettere i suoi valori, retaggi e messaggi lungo i secoli (…). Il linguaggio costituisce l’identità fondamentale di un popolo. Quando un’opera o un autore ci parlano con bellezza letteraria e profondità filosofica delle vicissitudini di un uomo alla ricerca del proprio destino, della complessa mutazione della cultura, dell’energica spinta alla vita attraverso l’arte poetica, ci troviamo senza alcun dubbio alla presenza di un genio delle lettere e della parola. Del poeta di una nazione e di tutte le nazioni. L’imponente presenza di Dante Alighieri e del suo capolavoro, la Divina Commedia, sono proprio questo: un passaporto universale degli italiani che, da secoli, apre le porte di tutte le culture ».
Proprio il riferimento a Dante mi dà la possibilità di andare alle radici della nostra identità , così come egli, sette secoli fa, le descriveva nel primo capo del De vulgari eloquentia, scrivendo: « Habemus simplicissima signa », vale a dire: « abbiamo (cioè) alcuni tratti semplicissimi e fondamentali, in quanto agiamo come italiani, tratti di costumi, di abitudini, di lingua, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane ».
Questo valore unificante della lingua, che preesiste, dunque, alla stessa unificazione statuale dell’Italia, va oggi rinsaldato anche di fronte ad alcuni segnali inquietanti che vengono da alcune parti del territorio nazionale, in cui la centralità della lingua italiana è messa seriamente in discussione.
In alcuni casi, elementi di protezione avanzata delle minoranze nazionali o linguistiche (mi riferisco al cosiddetto bilinguismo) diventano, invece, strumento per l’imposizione di un monolinguismo della « toponomastica al contrario », che cancella l’italiano: ciò succede, da anni, nell’Alto Adige, con il tedesco, ed inizia ora ad accadere anche nella mia Venezia Giulia, con lo sloveno. Infatti, vengono cancellati i toponimi italiani per essere « slovenizzati ». Si tratta di un fatto ampiamente conosciuto, da decenni, in Alto Adige: scompare – e lo si riscontra, tra l’altro, dai censimenti linguistici ed etnici – la componente italiana! In altri casi, invece, orientamenti autonomisti esasperati determinano situazioni in cui si tende a valorizzare la lingua o il dialetto di una comunità minoritaria in antitesi alla lingua comune. Nessuno pensa di dimenticarsene nè può negarli.
Ma la conservazione di questo patrimonio culturale, storico e linguistico si realizza nella valorizzazione del costume, delle tradizioni, delle fedi, dei canti popolari, nella diffusione locale delle opere letterarie dialettali, nella diffusione più vasta di quelle che assurgono a valore dell’arte, nel sostegno pubblico ad associazioni, circoli, filodrammatiche, riviste che abbiano come fine la preservazione e la divulgazione di quel patrimonio dialettale o linguistico.
E’ evidente, al riguardo, che le espressioni dialettali possono avere però carattere solo aggiuntivo, e mai sostitutivo, rispetto alle espressioni italiane.
La lingua di Dante ha unito l’Italia e di tutto questo c’è traccia nella tradizione popolare anche parlata di ogni nostro luogo anche dove l’Italia non c’è più.
Penso, ad esempio, a me che porto nel cuore la memoria familiare delle vecchie province orientali, che in Istria si cantava: « Viva Dante, gran maestro de l’italica favella » a Fiume invece: « Difendèla, difendela questa lingua più del pan, perchè Fiume la xe bela finchè parla l’italian »; e a Zara si diceva: « Semo fradei ! Za me capì, restemo sempre gente del sì ! ». Anche lontane memorie e anche canti popolari di un’Italia che non c’è più vanno poi alle radici di una tradizione antica.
Ho citato, accingendomi a concludere, queste strofe vecchie di decenni o quasi di un secolo per significare che si può fondere memoria e futuro, tradizione locale e nazionale, piccola e grande patria, unità linguistica e unità nazionale, anzi è questa azione intelligente e meritevole di attenzione da parte del Parlamento tutto.
« Sacralizzare » la lingua italiana, riconoscendola tra i principi della Costituzione all’articolo 12 è, al tempo stesso, riconoscere un patrimonio inestimabile e assieme proiettarlo nel futuro. Come ci insegnava Alessandro Manzoni, « dopo l’unità di Governo, d’armi e di leggi, l’unità della lingua è quella che serve più a rendere stretta, sensibile e profittevole l’unità di una nazione »
Camera dei Deputati
Seduta n. 85 – Martedì 12 dicembre 2006
Discussione del testo unificato delle proposte di legge costituzionale: Modifica all’articolo 12 della Costituzione in materia di riconoscimento dell’italiano quale lingua ufficiale della Repubblica
On. Roberto Menia