Il presidente dell’Unione degli Istriani spiega il concetto di “genocidio” “E’ GIA’ STATO RICONOSCIUTO AGLI ESULI TEDESCHI ED AI FINNICI DELLA CARELIA”
“Spiace constatare che qualcuno che da decenni si occupa dei problemi del nostro esodo, non sappia ancora il significato giuridico del termine genocidio”.
Con questa frase (con un preciso riferimento a Renzo Codarin, presidente dell’Anvgd di Trieste, che aveva contestato il riconoscimento di genocidio riferito agli esuli istriani chiesto dal presidente dell’Unione degli Istriani) si apre la nota informativa diffusa dalla sede di via Silvio Pellico per spiegare il termine genocidio e la sua perfetta associazione alla vicenda dell’esodo dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
“Il concetto di genocidio, realizzabile anche in tempi di pace, non va obbligatoriamente associato a manifestazioni di forza violente e liquidatorie, ma si determina anche attraverso azioni in grado di minare comunque la libertà e la sicurezza personale dei membri di ciascun popolo oppure gruppo etnico” spiega Lacota. “Secondo la Dichiarazione Onu sui diritti dell’uomo e le Convenzioni internazionali vigenti, è infatti previsto un novero di azioni molto vasto e sono sufficienti, quali obiettivi per annientare un popolo, la “disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi”.
Vi sono infatti diverse tipologie di genocidio, tra le quali il danneggiamento del patrimonio socioculturale (oltre che fisico) di ciascun popolo o gruppo etnico.
“I tedeschi dell’Europa orientale ed i finnici della Carelia” si legge nella nota “hanno già chiesto ed ottenuto il riconoscimento di genocidio, e non per l’eliminazione fisica ma proprio a causa della espulsione di massa dai loro territori nei quali la cultura, i dialetti e le tradizioni che da secoli li caratterizzavano, è scomparsa dalla faccia della terra” conclude la nota.
“Anche noi esuli abbiamo pieno diritto al riconoscimento internazionale dei soprusi e dalle violazioni che abbiamo subito e che, purtroppo, ancora subiamo” ha concluso Lacota.
UNIONE DEGLI ISTRIANI
(LEMKIN, cit. in TERNON, 1997, pag. 13).
Partendo da questa definizione Lemkin cerca, in uno studio pionieristico, di individuare una sorta di possibile tipologia degli atti di genocidio.
In uno schema tracciato secondo un’ottica evoluzionistica vengono così individuati tre diversi tipi di genocidio.
Lo scopo dei primi, equiparabili agli eccidi perpetrati durante la storia antica ed altomedioevale, era la totale o parziale distruzione di determinati gruppi nazionali.
Stilare un elenco di simili avvenimenti sembra piuttosto difficile in quanto questa fase storica ricopre un arco temporale decisamente vasto. Appare tuttavia immediata l’associazione con le sanguinose guerre puniche tra Roma e Cartagine durante il III secolo a.C. e le molteplici battaglie che hanno successivamente accompagnato prima l’ascesa e poi il declino dello stesso Impero Romano.
Ben più immediata è la contestualizzazione storica della seconda caratterizzazione, emersa nell’epoca moderna, riconducibile alla volontà da parte di un gruppo dominante di cancellare culture e soggiogare etnie. Un processo che, in molti casi, avviene attraverso strumenti di coercizione morale, senza particolari spargimenti di sangue. Il pensiero volge rapidamente alle persecuzioni religiose successive alla riforma luterana, ma soprattutto alla “civilizzazione” del nuovo mondo imposta dai conquistadores post-colombiani del XVI secolo. Un processo che, in molti casi, supererà gli strumenti di coercizione morale, per raggiungere quelli ben più infami della vera e propria tortura fisica.
Il padre domenicano Bartolomè de Las Casas nella sua “Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie Occidentali”, fornirà il primo esempio di denuncia nei confronti di un deliberato atto di genocidio.
La relazione presentata all’Imperatore e re di Spagna Carlo V nel 1542, descrive con dovizia di particolari, tutte le terribili violenze cui avventurieri spagnoli in cerca di fortuna, sottoponevano le indifese popolazioni indigene.
Per giungere al terzo tipo di genocidio occorre effettuare un salto temporale lungo esattamente quattro secoli.
L’ultimo elemento della tripartizione è il genocidio perpetrato secondo quello che lo stesso Lemkin definisce lo “stile nazista” (LEMKIN, cit. in CHALK – JONASSOHN, 1990, pag. 9). Un’esplosione criminale senza precedenti, capace di racchiudere in sé tutte le caratteristiche dei modelli precedenti e fonderle a nuove variabili di violenza, creando un tipo di genocidio assolutamente inedito.
Ciò che colpisce maggiormente nella pionieristica definizione di genocidio di Raphael Lemkin è l’inedito riferimento al possibile danneggiamento del patrimonio socioculturale (oltre che fisico) di ciascun gruppo etnico.
Ed è proprio attraverso quest’offensiva culturale che il genocidio si propone come una sorta di espansione di un altro concetto, di matrice francese, individuabile nell’etnocidio. Introdotto da Condominas nel 1965 in “L’exotique est quotidien” (cfr. MARTA, 1995, pag. 190) per designare la strategia americana nei confronti delle etnie delle montagne del Vietnam, l’etnocidio, può essere inteso come una sorta di “diretto prolungamento dell’etnocentrismo” (WILHELM, 1995, pag. 155). Di quel fenomeno storico-culturale, cioè, incentrato sulla credenza che la propria cultura sia essenzialmente superiore alle altre. Una convinzione spesso accompagnata da fastidiose comparizioni. In sostanza, l’etnocentrismo può rappresentare “la tendenza ad identificare le altre culture attraverso il filtro della propria unica presupposizione culturale” (Barfield, 1997, pag. 155).
E’, chiaramente, una prospettiva marcatamente arrogante che si propone l’obiettivo di uniformare ad un unico schema culturale di riferimento tutti i diversi tratti culturali esistenti, negandone automaticamente il valore.
Nel 1947 nel suo “Statement on human rights”, Melville J. Herskovits, uno dei più accesi sostenitori del relativismo culturale, nemesi per antonomasia dell’etnocentrismo, mette chiaramente in evidenza le connessioni tra il pregiudizio etnocentrico e le politiche governative attuate per giustificare o legittimare atti di ostilità o di discriminazione nei confronti di particolari gruppi, minoranze o etnie.
Riprendendo un pensiero che fu già di Franz Boas, Herskovits riconosce una sorta di “complicità antropologica” nell’elevare le conclusioni etnocentriche al rango di pura ideologia scientifica. Attraverso questa traslazione l’etnocentrismo dispiega tutte le sue potenzialità negative, combinando, in una miscela esplosiva, razzismo, scienza antropologica e politica.
Emblematica, in tal senso fu, nel 1965, la pubblicizzazione del cosiddetto “Progetto Camelot” elaborato dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti in collaborazione con diverse équipe antropologiche, per individuare e reprimere i focolai di guerriglia nell’America Latina.
Le responsabilità antropologiche nella diffusione di pratiche etnocide ed, in casi più estremi, genocide, andarono via via estinguendosi.
Oggi “l’antropologia può fornire un valido contributo all’analisi di un fenomeno come il genocidio a patto che, pur in un ottica che privilegi l’analisi di realtà locali e marginali, sappia non rinunciare ad interpretare la complessità del mondo in cui queste realtà sono date e di cui, in definitiva, sono un prodotto” (MARTA, 1995, pp. 190 – 191).
Sociologi, antropologi e filosofi si sono trovati così a discutere di totalitarismo, servitù volontaria, ideologia, liberalismo ma soprattutto di capitalismo, nel tentativo di documentare passo dopo passo i paradossi e le ambiguità originarie di questa “sottovalutazione dell’Altro” (WILHELM, 1995, pag. 152) espressa dall’etnocentrismo, ideale viatico all’etnocidio/genocidio.
Prodotto della cultura occidentale, il capitalismo si rivela il risultato di specifiche scelte culturali che elevano il profitto e l’accumulazione al rango di obiettivi primari dell’intero sistema e che portano, di conseguenza, a considerare la differenza culturale come una sorta di negazione del modello dominante nonché come una sostanziale resistenza all’integrazione nel sistema. Tutto ciò si manifesta chiaramente nel quadro degli sforzi di modernizzazione nei quali certe culture sono presentate come “autentici ostacoli alla realizzazione dello sviluppo economico” (WILHELM, 1995, pag. 152). Partendo da questi presupposti il caso del genocidio è stato sistematicamente trattato nell’ambito di problematiche legate ai fenomeni di colonizzazione e decolonizzazione, nonché a conflittualità etnico-razziali con relativi riferimenti alle politiche espresse nei confronti delle minoranze.
Il primo a superare questa rigida impostazione è stato Leo Kuper, probabilmente uno dei più profondi conoscitori della tematica genocidio.
Con Kuper il concetto di genocidio subisce un ulteriore approfondimento in grado di colmare le già citate lacune presenti all’interno della convenzione delle Nazioni Unite.
Per primo, infatti, ha elaborato una teoria organica del genocidio; una teoria, cioè, in grado di superare la classificazione precostituita riconducibile esclusivamente agli eccidi coloniali e nazisti. In tal modo si cerca di valutare con attenzione tutte le altre, svariate, forme di genocidio non menzionate nella convenzione.
Pensare senza classificare, dunque, superando l’originaria impostazione di Lemkin e di numerosi altri sostenitori dell’imprescindibilità di una tipizzazione di genocidio.
Un approccio mirante a sottolinearne la gravità e l’unicità nel panorama storico, del crimine di genocidio, ma che non fornisce una visione ampia del problema, ricco di sfaccettature sociali, politiche e persino psicologiche. Kuper, invece, allontanando ogni volgarizzazione o banalizzazione del concetto di genocidio, cerca di fornire una teoria onnicomprensiva, incentrata, sì, su di una ripartizione, ma ampia e ricca di connotazioni socio-politiche.
La nuova tipologia “sui generis” di Kuper si rapporta sostanzialmente a due filoni principali: “i genocidi domestici sviluppatisi sulla base di divisioni interne senza una società, e genocidi sorti in conseguenza di conflitti internazionali.” (KUEPER, cit. in CHALK – JONASSOHN, 1990, pag. 17). Ad interessare maggiormente Kuper saranno proprio i cosiddetti genocidi domestici o interni.
Teatro principale di simili tragedie risultano le cosiddette “plural societies” ovvero “società la cui popolazione è composta da gruppi razziali, etnici e/o religiosi differenti con un passato di conflitti violenti e un presente di profonde divisioni” (KUPER 1985, pag. 127).
Secondo Kuper, i genocidi interni vanno suddivisi in quattro differenti categorie comprendenti: genocidi contro gruppi indigeni, genocidi conseguenti politiche di decolonizzazione, originati da lotte per la conquista del potere oppure perpetrati ai danni di gruppi “ostaggio” in grado di fungere da “capro espiatorio”. Ed è proprio in quest’ultima categoria che può collocarsi l’orribile tragedia dell’olocausto.
Una drammatica esperienza che, se non altro, ha il triste merito di aver smosso le acque nel torbido abisso dell’indifferenza. Proprio in conseguenza dello sterminio nazista, infatti, venne promossa, in seno alle Nazioni Unite, la già citata convenzione del 1948. Un documento che oggi non può assolutamente essere preso in considerazione in un’ottica di “repressione e prevenzione del genocidio” così come recita l’intestazione del documento stesso. Il testo, esplicitamente prodotto da quel “terribile ricatto emotivo” (CORTESI, 1995, pag. 94) provocato dall’olocausto, necessita oggi di una maggior estensione su scala globale. Quelle che occorrono sono nuove proposte normative che considerino tutte le mille varianti del problema. Varianti terminologiche, ma anche concettuali.
Genocidio, oggi non può voler dire solo olocausto. Genocidio è Rwanda, Amazzonia, Bosnia, Kossovo. Genocidio è violazione di diritti umani. E’ “Ecocidio”, ovvero criminalità ambientale regolata da strategie capitaliste. Nessuna di queste eventualità deve essere trascurata.
Sulla base di queste considerazioni, diverse iniziative si sono ripetute per accelerare i tempi verso la creazione di un valido corpus preventivo e repressivo nei confronti dei crimini di genocidio. Iniziando un lungo e tortuoso percorso, comitati politici, antropologi ed organizzazioni non governative (le cosiddette O.N.G.) sono riusciti a scardinare l’insopportabile muro di gomma eretto da numerose realtà occidentali, Stati Uniti in testa. Dai due protocolli aggiuntivi alla convenzione per la repressione del delitto di genocidio del 1948 si è così finalmente giunti all’istituzione di un Tribunale internazionale dei popoli a carattere permanente. Un tribunale sempre vigile che non venga istituito soltanto innanzi al fatto compiuto come nel tragico caso di Norimberga o in conseguenza degli eccidi nella ex-Jugoslavia. Un tribunale d’opinione, privo di effettiva valida efficacia, ma che conserva come obiettivo principale, “non solo i crimini contro l’umanità, ma anche la loro impunità” (FERRAJOLI, 1995, pag. 7).