La recente costituzione del “Comitato paritetico”, previsto dalla legge sugli Sloveni, ha riproposto la questione dei rapporti tra maggioranza italiana e minoranza slovena nella nostra città. Una problematica che per decenni ha pesato in maniera rilevante, ma che da qualche tempo (anche per fattori internazionali) sembra positivamente destinata a proporsi in termini meno laceranti, in qualche modo in un’ottica di normalizzazione. In tutto ciò gioca l’affermarsi, a livello sia nazionale che locale, di una visione bipolare della politica, sicché la discriminante tra Polo e Ulivo finisce con il travalicare quella tra Italiani e Sloveni.
Proprio in tale mutato contesto possono risultare utili ed opportune alcune considerazioni sulla questione che costituisce lo sfondo di ogni problematica maggioranza – minoranza: il tema, cioè, dell’identità della città.
Una identità, quella triestina, che sicuramente (e fortunatamente) non trova fondamento in qualsivoglia “patrimonio genetico”. La logica drammatica delle etnie, quella dell’identità fondata su “il sangue e la terra” che tante tragedie ha provocato nei vicini Balcani, tale logica non ci appartiene in alcun modo. Trieste – e Manlio Cecovini lo ha illustrato in modo insuperabile – è città italiana non per ragioni di sangue, bensì per un atto di libera scelta. Le componenti etniche che sono venute a costituire la storia e la realtà di Trieste sono state estremamente composite: accanto ai Veneto-Friulani ed agli Sloveni vi sono stati i Greci, i Tedeschi, gli Armeni, i Serbi, i Croati ed altri ancora. Tali diverse componenti hanno trovato, storicamente, il motivo forte di coesione nella “scelta” della lingua, della cultura e della civiltà d’Italia, quale riferimento di appartenenza e di identità. Tale comune scelta ha fatto di Trieste una civitas, una comunità vera ed organica, anziché un semplice coacervo di gruppi e di gruppuscoli (poteva ben diventare una sorta di Tangeri dell’Adriatico).
Il connotato della “identità italiana per scelta” ci rende in qualche modo diversi da tutti gli altri abitanti della nostra penisola: a Roma, a Milano, a Bari, a Palermo si è Italiani per automatica necessità, a Trieste lo si è per un atto di libertà. Da ciò deriva quella nostra specificità che ha fatto affermare, a più d’uno, che Trieste sarebbe la più italiana tra le città d’Italia. Da ciò anche la nostra particolarissima sensibilità su tale tema: perché quello dell’identità (specie se d’elezione) tocca sempre forti sensibilità, nei singoli non meno che nelle collettività. In questa prospettiva il ruolo degli Sloveni di Trieste può e deve trovare la sua piena e logica collocazione. In passato essi per lo più si sentivano legati all’Italia solo da un vincolo giuridico (la cittadinanza), ma non da quello sostanziale della piena appartenenza. Risultavano in ciò diversi da tutte le altre componenti minoritarie per le quali il riferirsi alla cultura e civiltà d’Italia non va assolutamente a negare le loro specificità (valga per tutti il caso dei Greci di Trieste). Gli Sloveni apparivano così corpo estraneo, rispetto al contesto dell’italianità, quale scelta accomunante di tutti gli altri Triestini.
L’odierna evoluzione, in atto nella comunità slovena, il loro progressivo sentirsi Italiani (a pieno titolo) pur se di lingua e cultura slovena fa venire meno le ragioni della loro estraneità: gli Sloveni di Trieste costituiscono una delle diverse componenti minoritarie, anche se con una collocazione diversa da tutte le altre. Ciò in forza della loro presenza storica sul territorio (autoctonia) che da un lato li tende affini alla componente italiana e dall’altro diversi da tutti gli altri gruppi minoritari (il cui insediamento è stato storicamente posteriore).
Tale processo di normalizzazione, come avviene per questo tipo di fenomeni, richiede sicuramente dei tempi non brevissimi per poter diventare patrimonio comune della collettività. Eppure è importante che esso sia in atto e che, sempre più, la logica di una comune appartenenza ad una medesima identità renda possibile il reciproco rispetto e la rispettiva accettazione.
Paolo Sardos Albertini