I fatti del ’53 – Trieste e la Lega nazionale

La discrasia triestina
“Non stupisce quindi la discrasia sulla percezione e sul ricordo dei fatti alla quale si assiste a seconda che il problema venga visto da Trieste ovvero da qualsiasi altra città italiana Trieste”

A proposito delle vicende triestine del novembre 1953 Giuseppe Parlato scrive testualmente: “Non stupisce quindi la discrasia sulla percezione e sul ricordo dei fatti alla quale si assiste a seconda che il problema venga visto da Trieste ovvero da qualsiasi altra città italiana Trieste”. Discrasia fortemente ed anche soffertamene avvertita dall’opinione pubblica triestina; sovente viene imputata ad una sorta di cronica disattenzione nazionale, nei confronti di ciò che accade in questo lembo d’Italia, ai suoi confini orientali.
In realtà non è forse del tutto giusto parlare di disattenzione, quanto piuttosto (almeno in certi casi) di una oggettiva difficoltà a cogliere taluni aspetti del tutto specifici della situazione giuliana, a percepire alcune sue anomalie rispetto a quanto avviene nel resto d’Italia.

 

Per individuare tali specificità ed anomalie, relativamente ai “fatti del ’53”, occorre però risalire alla primavera del 1945. Nella giornata del 30 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale – Cln di Trieste ordina l’insurrezione contro i Tedeschi ed i partigiani del Corpo Volontario della Libertà prendono così il controllo della città. Il giorno immediatamente successivo, il primo maggio, arrivano a Trieste le truppe jugoslave di Tito che, come primo atto, disarmano proprio gli uomini del Cln, cercano di metter le mani sui loro dirigenti (a Trieste questi riusciranno a nascondersi ed a salvarsi; a Gorizia diversi di loro scompariranno per sempre, nelle foibe o nei gulag di Tito) e danno così inizio a quei tragici quaranta giorni di sangue e di terrore durante i quali i Triestini, a migliaia, finiranno nelle nere fauci delle Foibe carsiche o verranno caricati su camion con destinazione, senza ritorno, verso la Jugoslavia di Tito. Ci vorrà l’intervento delle truppe neozelandesi perché i Titini siano costretti ad andarsene ed il terrore abbia a cessare (almeno a Trieste, non certo in Istria dove gli uomini di Tito continuarono ad imperversare).
In definitiva, nel giro di solo ventiquattrore ore – dal trenta aprile al primo maggio – Trieste si è trovata a dover scoprire che la seconda guerra mondiale (quella degli Alleati contro i nazi-fascisti) era sì finita, ma è che era immediatamente cominciata la terza guerra mondiale (più avanti la si definirà “guerra fredda”), quella cioè che vede schierate da un lato le nazioni dell’Occidente e dall’altro quelle dell’Oriente. Terza guerra mondiale che – sia pure con certe sue regole atipiche – coinvolgerà il mondo intero per quasi mezzo secolo e cioè fino al 1989. Troverà conclusione solo quando una delle due parti contendenti (l’impero comunista) si vedrà annientata e cancellata dalla Storia nel più ignominioso dei modi: un impero (che pure controllava tanta parte del pianeta) definitivamente scomparso non per sconfitta militare e neppure per insurrezioni interne, bensì incredibilmente per pura e semplice implosione del proprio sistema politico-economico; una sorta di auto dichiarazione di bancarotta fraudolenta che non ha precedenti di sorta, in secoli e secoli di storia del genere umano.

Inizio della terza guerra mondiale, si diceva, che a Trieste viene dunque constatato (e con palmare evidenza) già dalla giornata del primo maggio 1945: in quella giornata coloro che dovevano essere gli alleati ed i liberatori (i Titini) si palesano subito come nemici temibilissimi ed occupatori la cui ferocia niente, ma proprio niente ha da invidiare a quella dei loro predecessori Nazisti.

Tutto ciò peraltro avviene mentre in Italia, al governo di Roma, siedono ancora assieme i rappresentanti di tutti e sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (Togliatti, per intenderci, è titolare del Ministero di Grazia e Giustizia) e continueranno a farlo fino al 1947, quando De Gasperi, dopo il viaggio USA, deciderà di scaricare dalla compagine governativa il Partito Comunista. Sarà poi solamente nelle successive elezioni politiche del 18 aprile 1948 che risulterà evidente, a tutti gli Italiani, la indiscutibile realtà dei due nuovi schieramenti: da un lato chi sta con l’Occidente (De Gasperi ed i suoi alleati) dall’altro chi è schierato con il blocco orientale (Togliatti e Nenni). Ma a Trieste tutto ciò era già arcinoto e lo si sapeva molto chiaramente da ben tre anni.

Anomalia triestina rispetto allo scenario nazionale, ma non è certo che a livello internazionale la situazione di scarsa percezione della novità fosse molto diversa. Infatti il Trattato di Pace di Parigi porta la data del febbraio 1947 e, nella sua dichiarata formulazione, dovrebbe immortalare gli esiti dalla seconda guerra mondiale e consegnare definitivamente il mondo all’intesa tra i suoi vincitori, gli Alleati nella lotta al nazismo. In realtà nel febbraio del ’47 i vincitori del maggio’45 non erano più Alleati, erano già divisi e ben schierati su due fronti contrapposti: URSS da un lato; USA, Inghilterra e Francia dall’altro. Nel ’48, solo pochi mesi dopo la firma del Trattato di Parigi, con il blocco di Berlino si arriverà anzi ad uno dei punti più vicini al passaggio dalla guerra fredda a quella calda, si rischierà che lo scontro politico-diplomatico degeneri in quello delle armi e della guerra calda. A Trieste, invece, il carattere non solamente politico, ma anche cruento del nuovo confronto lo si era già sperimentato nei quaranta giorni titini del maggio ’45 e lo si stava largamente continuando a sperimentare il terra d’Istria, di Fiume e di Dalmazia, ove il Maresciallo di Belgrado si era visto concedere carta bianca dai vincitori della Seconda Guerra mondiale.

Certamente anche per questa “discrasia” il Trattato di Pace di Parigi, tra le genti giuliane, meritò sempre di essere bollato come Diktat: strumento di ingiustizia (sia pure salomonica) che, della tre città italiane in discussione, ne assegnò una all’Italia (Gorizia), una alla Jugoslavia (Pola) e con la terza (Trieste) pretese costruire un fantomatico Territorio Libero che avrebbe dovuto nascere proprio quale segno tangibile della perenne intesa tra i quattro Grandi vincitori.

Tale intesa, in realtà, nel momento in cui si firmava il Trattato era già ampiamente tramontata e conseguentemente il nuovo staterello – il T.L.T.- non ebbe mai i natali: proprio perchè gli Alleati erano ormai diventati ex Alleati (anzi avversari) e non riuscirono quindi a mettersi mai d’accordo sull’avvio del nuovo Stato. Occorreva infatti procedere alla nomina congiunta di un Governatore ed a tale nomina mai si arrivò perché venne a mancare ogni accordo.

Alla fin fine quel Trattato di Pace si dimostrò non solo un atto di ingiustizia e di iniquità (perché volle decidere la sorte delle genti, a loro scapito e loro malgrado), ma anche un vero e proprio momento di “stupidità internazionale”, se è vero come è indubitabile che non seppe prendere atto di una novità politica essenziale e cioè dell’avvenuto inizio della guerra fredda o, se si vuole usare una più corretta definizione, della Terza Guerra mondiale.
Eppure, sarebbe bastato che i signori negoziatori, i paludati diplomatici di Parigi fossero venuti a chiedere qualche informazione a Trieste per sentirsi spiegare come stavano in realtà le cose, per scoprire che la quattro grandi potenze non erano più gli alleati del ’45, bensì i contendenti del nuovo conflitto planetario (e lo sarebbero rimasti fino quasi alla fine del secolo).
La difficile percezione nazionale delle vicende triestine va dunque largamente attribuita non a disattenzione o a cattiva volontà, ma proprio al fatto che la città giuliana visse con largo anticipo ciò che il resto della nazione italiana si trovò a sperimentare e scoprire solo più tardi.
Del resto questo del maggio ’45 non sarà il solo caso di anticipazione triestina rispetto al resto d’Italia.

 

 

Un protagonista: Don Marzari
Lo strumento del Comitato di Liberazione Nazionale, che era servito contro i Nazisti, non poteva venire riproposto pari pari per combattere ora il Comunismo jugoslavo. Occorreva qualcosa di nuovo e di diverso e, nell’individuare e realizzare tale novità, il ruolo di don Edoardo Marzari appare sicuramente determinante e decisivo.

Edoardo Marzari è stato di certo un personaggio importante, un vero protagonista della vita triestina (e meriterà sicuramente in futuro una maggiore attenzione, un più attento approfondimento da parte di chi si occupa di storia).
Nato a Capodistria, egli entra in seminario da adulto. Dopo l’ordinazione si dedica con totale coinvolgimento ai suoi compiti sacerdotali; particolarmente quale educatore, guida e riferimento per il mondo giovanile (quello dello scoutismo cattolico). Don Marzari è però anche un intellettuale ed un vivace ed attento giornalista: protagonista dalla fine degli anni ’30 nella gestione – sovente burrascosa, in quegli anni – del settimanale cattolico Vita Nuova, di cui si troverà sempre più a svolgere de facto il ruolo di direttore.
Certo è che, nella primavera del 1945, egli si trova al vertice del Comitato di Liberazione Nazionale, nonché nelle mani delle SS, nel carcere del Coroneo dove vi è stato richiuso dalle autorità tedesche. I carcerieri nazisti lo sottopongono anche ad una certa dose di torture – come lui stesso relazionerà al suo vescovo mons. Santin – ma egli riesce a non parlare (“Ho resistito senza urlare e rammentando i miei doveri di sacerdote, oltre che di uomo e di italiano”). Liberato dal carcere con un colpo di mano dei Volontari della Libertà (il commando è guidato da un futuro sindaco di Trieste degli anni ’70, Marcello Spaccini) è proprio don Edoardo Marzari che, il trenta aprile 1945, si trova a dare l’ordine di insurrezione, in armi, per liberare Trieste dagli occupanti tedeschi.
L’insurrezione si realizza il larga sinergia con il corpo della “Guardia civica”, organismo quest’ultimo costituito da Cesare Pagnini, podestà di Trieste durante l’occupazione tedesca. Comitato di Liberazione Nazionale e Guardia Civica operano, di fatto, in larga sintonia; laddove in una logica da guerra civile avrebbero dovuto combattersi e magari trucidarsi come avversari e nemici irriducibili. Anche questa è un’anomalia, una ulteriore anomalia triestina: per don Marzari, per il Cln della Venezia Giulia (non però per i Comunisti che già parlano a nome e per conto di Tito) la Resistenza era e resterà solamente guerra di liberazione. Si trattava cioè di cacciare lo straniero invasore ed occupante, si trattava propriamente di liberare Trieste e l’Italia. La loro Resistenza è stata dunque ben diversa da quella manifestatasi in tante altre parti d’Italia, ove al tema della liberazione dallo straniero si intrecciarono (o magari si sovrapposero) altre logiche quali quella della guerra civile del regolamento di conti tra fratelli oppure la logica della guerra rivoluzionaria finalizzata a realizzare un nuovo ordine sociale e politico.
A Trieste il trenta aprile si è scesi nelle strade per cacciare l’invasore tedesco. Se per farlo veniva offerto l’ausilio della Guardia Civica, tanto meglio. A Trieste, dopo il primo maggio, l’invasore da combattere non era più la Germania di Hitler (ormai sprofondata nella disfatta), ma la Jugoslavia del Maresciallo Tito. E don Edoardo Marzari, in assoluta coerenza con le motivazioni della sua Resistenza, della sua guerra di Liberazione, non ha avuto esitazioni nell’individuare immediatamente nel comunismo titoista il nuovo gravissimo pericolo da fronteggiare e da combattere.
Nel capoluogo giuliano, dopo i tragici quaranta giorni dell’occupazione titina, il problema prioritario era quello di evitare che le sorti dei negoziati internazionali in corso giocassero a favore delle pretese jugoslave sulla città di San Giusto. In tale prospettiva era estremamente importante contrastare quelle forze politiche locali che dichiaratamente di muovevano a supporto delle tesi e delle pretese di Belgrado e che operavano da vera e propria quinta colonna del Comunismo jugoslavo. Si trattava in primis del Partito Comunista (Togliatti esplicitamente aveva appoggiato la pretesa di Tito di un confine sull’Isonzo), si trattava anche di larga, larghissima parte della componente slovena della popolazione giuliana che, in una miscela di nazionalismo e di ideologia, guardava alla Jugoslavia come alla propria nazione madre.
In Istria poi la situazione era ancor più drammatica (ed il capodistriano don Marzari non poteva certo non curarsene). L’occupazione jugoslava imperversava sulle popolazioni civili, nel più assoluto disprezzo del diritto, della civiltà e dell’umanità. Il meccanismo del terrore che veniva messo in atto sarà quello che, con tempistiche più o meno varie, porterà alla fine ben trecentocinquantamila italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia a lasciare tutto, lavoro, case, cimiteri. Preferendo, per sé e per i propri discendenti, la strada dell’Esodo e della diaspora.
Il Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste e dell’Istria e don Marzari cercano di fronteggiare, come possono, la drammatica situazione: con interventi sia materiali che politici. 

Far capire al resto d’Italia il dramma che si sta vivendo al confine orientale non è però compito facile: i profughi istriani che arrivano a Bologna o a Venezia non sono accolti come i fratelli, in fuga da un pericolo mortale; bensì vengono ingiuriati – dagli attivisti della CGIL o del PCI – quali criminali fascisti che abbandonano il “paradiso comunista” del Maresciallo Tito solo perché consapevoli delle loro colpe borghesi e fasciste. Fortunatamente questi episodi (verificatisi e documentati) non sono la regola. Tante altre città italiane hanno saputo, da subito, accogliere gli esuli giuliano-dalmati con generosità e calore. Ma ciò non toglie che il problema esistesse e fosse molto concreto: come far capire all’Italia ufficiale, al governo di Roma (dove c’erano ancora ministri targati PCI) la novità di una Jugoslavia non più alleata, bensì oramai nemica? Come far capire quanto fosse urgente aiutare coloro che di questo nuovo terribile nemico già erano le vittime? Come far sì che il pericolo venisse arginato e quali strumenti mettere in campo per questa nuova battaglia politica?
Lo strumento del Comitato di Liberazione Nazionale, che era servito contro i Nazisti, non poteva venire riproposto pari pari per combattere ora il Comunismo jugoslavo. Occorreva qualcosa di nuovo e di diverso e, nell’individuare e realizzare tale novità, il ruolo di don Edoardo Marzari appare sicuramente determinante e decisivo.

Ri – nasce la Lega Nazionale
Dal primo maggio 1945 la politica triestina avrà come tema centrale lo scontro tra due schieramenti: da un lato il partito italiano, in cui la Lega Nazionale sarà l’espressione più esplicita e formale, ma che comprenderà tutte le forze politiche che si ritrovano nello schieramento degli Usa e dell’Occidente; dall’altro gli slavo-comunisti, che si coagulano attorno al Partito Comunista e che raccolgono gran parte del consenso etnico sloveno (anche se non comunista).

La Lega Nazionale era stata costituita ancora nel 1891, nelle province italiane dell’Impero Austro Ungarico e cioè Trieste, Trento, Istria, Fiume e Dalmazia. La sua nascita era stata piuttosto travagliata, per gli ostacoli poliziesco- amministrativi messi in atto dalle autorità austriache. Il tutto si era concluso con la sentenza del 28 ottobre 1891 del Tribunale dell’Impero di Vienna che aveva sancito la nullità dei divieti della Direzione di Polizia. 

Il quotidiano di Trieste, Il Piccolo, che aveva mandato un suo inviato speciale a Vienna per seguire il processo, usciva con la notizia d’aperture ove si leggeva “La legge ed il diritto ci hanno assicurato ieri la conservazione del più caro dei beni: la lingua, la nazionalità nostra. Per la legge e nella legge rimane la Lega Nazionale e rinvigorito sempre più nella coscienza degli italiani di queste province il loro diritto…”. La notizia era seguita da quella dell’avvio di una sottoscrizione pro Lega Nazionale che vedeva, in una sequela di nomi, sia quello del proprietario e direttore del giornale, Teodoro Mayer, che quello dei tipografi che stampavano Il Piccolo.

La Lega Nazionale diventava, in breve, protagonista assoluta della battaglia degli Italiani della Venezia Giulia e del Trentino, per difendere la propria identità. Costruiva e gestiva scuole (arriverà ad avere 21 asili e 28 scuole), apriva ricreatori per accogliere i giovani, organizzava feste e concerti, produceva e diffondeva cartoline ed oggettistica varia (c’erano i fiammiferi della Lega e la pubblicità che li promuoveva “E’ proibito di fumare …senza usare i fiammiferi della Lega Nazionale”) ed in genere realizzava una presenza di forte egemonia culturale sul territorio che niente aveva da invidiare a quanto più tardi teorizzerà Antonio Gramsci.

Tutto ciò proseguiva, con un crescendo costante, fino all’inizio del conflitto mondiale o, piuttosto, fino al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. La sede sociale di Trieste – quella più importante – venne assaltata e data alle fiamme nella giornata del 23 maggio 1915 (e nello stesso giorno veniva bruciata anche la sede del “Il Piccolo”), l’associazione venne sciolta, scuole e ricreatori vennero chiusi ed il patrimonio della Lega fu oggetto di sequestro. Una sorta di bilancio di questa fase è ravvisabile nel rapporto inviato al governo di Vienna dal barone Fries Skene “Nel campo italiano la Lega Nazionale rappresentava l’organizzazione principale dell’irredentismo, ad essa erano affiliati gabinetti di lettura, società di educazione popolare, sodalizi agrari ed economici che, con la scusa di promuovere gli interessi dei propri soci, facevano della politica anti austriaca)
Dopo la vittoria di Vittorio Veneto e il congiungimento all’Italia di larga parte dei territori coperti dalla Lega Nazionale, questa venne ricostituita nella Venezia Giulia e riprese le sue attività: un elenco del 16-17 dicembre 1928 riporta come strutture della Lega ben 80 scuole materne (con refezione agli alunni) e 14 ricreatori e doposcuola. La scuole invece non ci sono più, in tale elenco, perché già trasferite al sistema educativo nazionale. A breve sarà lo stesso anche per asili e ricreatori ed in genere per tutte le altre attività della Lega Nazionale: il tutto “trasferito” all’Opera Nazionale Balilla ed all’Opera Nazionale Italia Redenta. L’atto di decesso della Lega Nazionale porta la data del 13 agosto 1929.

Un premessa certo lunga, eppure necessaria per illustrare cosa era stata la Lega Nazionale, nella sua versione irredentista, quale poteva essere nell’immediato secondo dopoguerra il ricordo che tale esperienza aveva lasciato nel comune sentire dei giuliani e come si trattasse in realtà, propriamente e solamente, di una “cara memoria” di ciò che i propri genitori ed i propri nonni avevano saputo fare in un contesto storico politico completamente diverso e contro un diverso nemico straniero, da quasi un trentennio ormai scomparso dalle carte geografiche (l’Impero d’Austria e d’Ungheria).
Sicuramente non c’era alcun collegamento diretto tra quella Lega Nazionale (ufficialmente chiusa dal fascismo nel 1929) e la nuova realtà triestina emersa dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’inizio della guerra fredda. Il collegamento mediato, molto mediato, era solo uno: nella Trieste del ’45 una volta di più era messa in pericolo, in discussione l’identità italiana della sua popolazione; l’insidia era più sottile e minacciosa rispetto al passato, perché attivava non solo gli strumenti dell’etno-nazionalismo (quello slavo), ma anche e soprattutto quelli dell’ideologia (era il Comunismo in quanto tale che giocava la partita a sostegno del Maresciallo Tito). E ciò comportava, anche tra gli Italiani, la presenza di una quinta colonna che, per solidarietà ideologica, operava a favore dello straniero nemico.

Certo è che già nell’ottobre 1945 viene formato un organismo promotore – con la presenza di esponenti di diverse forze politiche – che si propone di unire tutti gli italiani della Venezia Giulia, al di fuori di qualsiasi partito politico. “A tale scopo viene proposto di ricostruire la Lega Nazionale, perché con la sua tradizione e con il suo nome che desta tanti ricordi negli Italiani di Trieste, sarebbe garanzia sufficiente per un buon successo.” La proposta, messa ai voti, viene approvata all’unanimità.
Nei mesi successivi sorgono peraltro difficoltà, proprio sulla questione del nome e sembra prevalere la dicitura Lega Italiana o Unione degli Italiani; le difficoltà ed il dibattito hanno peraltro quale oggetto specifico e primario i rapporti con i partiti e con il Cln in quanto tale. Nel dicembre dello stesso anno la situazione si è però chiarita; definiti in termini di collaborazione e di non intrusione i rapporti con il Cln, si ritorna così alla denominazione “Lega Nazionale”. Il Comitato promotore, nella riunione del 9 dicembre 1945, presso l’Università di Trieste, dichiara “costituita l’associazione denominata Lega Nazionale con sede in Trieste, avente quale finalità la difesa del patrimonio di cultura e di tradizione italiana nella Venezia Giulia riallacciandosi all’opera svolta nel passato dalla prima Lega Nazionale”.
Nei primi verbali del Comitato (peraltro parziali e incompleti) non compare il nome di mons. Marzari. Egli è sicuramente presente alla seduta del Consiglio del 19 febbraio ’46, come pure risulta che nelle elezioni per le cariche direttive del 28 settembre ’46 è il solo don Marzari ad avere l’unanimità dei consensi, anche se sarà chiamato a ricoprire non la presidenza, ma la vice presidenza.
In realtà, tenendo conto del ruolo di don Marzari quale presidente del Cln e delle problematiche iniziali nei rapporti Lega -Cln, risulta chiaramente individuabile il ruolo importante svolto dal sacerdote capodistriano nel definire ed impostare la funzione e la natura della nuova Lega Nazionale. Eloquente e pienamente condivisibile quanto scrive in proposito Roberto Spazzali circa l’azione “…oscura – ma non meno importante – di Edoardo Marzari che, pur ripetutamente assente alle innumerevoli sedute del Consiglio Direttivo, aveva introdotto la Lega Nazionale alla diretta attenzione dell’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Alcide De Gasperi. La simpatia di De Gasperi per la Lega Nazionale trovava fonte di diretta ispirazione proprio in don Marzari che sapientemente era riuscito a creare un rapporto tra la questione giuliana e la necessità di creare un’istituzione di difesa culturale che fosse in grado di dare voce alla situazione in atto nella Venezia Giulia“.

Si è osservato in precedenza come don Marzari e gli altri uomini del Cln, di fronte la manifestarsi a Trieste della nuova situazione conseguente alla guerra fredda, si trovassero a dover affrontare due ordini di problemi. Innanzitutto occorreva approntare uno strumento politico atto a contrastare il nuovo nemico che non era più il nazi-fascismo, bensì il comunismo e l’impero dell’Est che lo sosteneva. Il secondo problema era quello di far percepire al Governo di Roma, ai partiti nazionali, alla pubblica opinione italiana questa nuova situazione che per molti poteva apparire scandalosa ed inaccettabile (i Comunisti erano ancora gli eroici protagonisti della Resistenza, la Jugoslavia era pur sempre uno dei paesi “liberatori” e chi ad essi si opponeva poteva essere solo un residuato del nazi-fascismo sconfitto). Un duplice problema, dunque: di azione politica a Trieste e di comunicazione efficace verso Roma. E la Lega Nazionale appare – per don Marzari e per gli altri suoi collaboratori del Cln – la giusta soluzione per entrambe tali esigenze.

Il taglio politico con cui la Lega Nazionale viene proposta è infatti chiaramente riconducibile ad una categoria politica all’epoca di pacifica acquisizione ed utilizzo: il partito italiano. Non certamente un partito vero e proprio, ma solo una associazione; con i partiti la Lega coesiste e collabora, in qualche modo ne accetta la piena rappresentatività e legittimità; ha il compito di farsi portavoce di ciò che costituisce il patrimonio comune di diverse forze politiche (l’identità nazionale), ognuna delle quali conserva intatte le sue specificità e le sue diversità. Partito italiano dunque, ma non partito etnico (come la definizione potrebbe invece far pensare). Il suo senso, vero e compiuto, risulta piuttosto dal confronto, dal rapportarsi all’avversario, a quelle forze politiche che occorre contestare e combattere. E tali forze politiche sono individuabili nello schieramento del Comunismo, nella Jugoslavia di Tito e nello schieramento dei Paesi dell’Est (Giuseppe Stalin & co.); il tutto, nella sintesi approssimata, ma efficace del comune parlare sarà indicato nella definizione di “gli slavo comunisti”.

Dal primo maggio 1945, da quando a Trieste scoppia la guerra fredda (e ciò almeno fino al ’54) la politica triestina avrà come tema centrale lo scontro tra questi due mega schieramenti, o questi due “poli”, per dirla con il linguaggio di oggi: da un lato il partito italiano, in cui la Lega Nazionale sarà l’espressione più esplicita e formale, ma che comprenderà tutte le forze politiche che si ritrovano nello schieramento degli Usa e dell’Occidente; dall’altro gli slavo-comunisti, che si coagulano attorno al Partito Comunista (non è un caso che si definisca Partito Comunista della Venezia Giulia, non Italiano) e che raccolgono gran parte del consenso etnico sloveno (anche se non comunista).
La Lega Nazionale risulta rispondere pienamente, a questo suo nuovo compito, in primo luogo con l’incredibile successo della sua proposta, presso l’opinione pubblica della Venezia Giulia. Bastano solo alcuni dati: nella riunione del Consiglio Direttivo del 25 marzo 1946 Tullio Faraguna prospetta i problemi organizzativi che derivano dal gran numero di adesioni e parla di ben tre mila (!) nuovi soci al giorno. La Lega Nazionale si era presentata ufficialmente alla pubblica opinione con un manifesto il 19 marzo 1946. Il manifesto era stato redatto da Silvio Benco e recava una serie di autorevolissimi sottoscrittori che andavano dal sindaco Gianni Batoli al Rettore Ermanno Cammarata, dal giurista Salvatore Satta al prof. Livio Pesante (futuro maestro di tanta parte dell’intelligenza triestina di sinistra).

Dopo appena sei mesi da tale presentazione ufficiale, vale a dire nel settembre dello stesso anno, la Lega Nazionale contava già ben 180.000 soci. Il tutto a dimostrazione che la scelta operata, quella di far scendere in campo questo strumento politico-associativo si era dimostrata veramente vincente, giacchè attraverso l’adesione alla Lega Nazionale la popolazione della Venezia Giulia si era trovata a poter dar voce a quella scelta di campo – a favore del binomio Italia e libertà – che le veniva invece negata dal rifiuto del plebiscito (reclamato costantemente da De Gasperi, ma sempre senza esito).
Se, a Trieste, la scelta di costituire la Lega Nazionale era risultata vincente, si poteva dire altrettanto per l’altra esigenza, quella cioè di far percepire a Roma ciò che accadeva ed era accaduto al confine orientale? Anche a tale proposito è desumibile che un ruolo centrale l’abbia avuto don Marzari. I suoi frequenti viaggi romani, i suoi contatti nella capitale, i suoi interlocutori primari e cioè lo stesso Papa Pacelli ed Alcide De Gasperi sono la testimonianza di un lavoro intenso e qualificato. In particolare è pensabile che la stessa scelta del nome “Lega Nazionale”, preferito a quello di “Lega Italiana”, possa aver avuto una qualche motivazione nel voler proporre a De Gasperi una denominazione, una figura a lui famigliare, per quella che era stata la prima Lega Nazionale, presente tanto a Trieste che a Trento, una denominazione che – come era successo per decine di migliaia di triestini – così anche per al trentino Presidente del Consiglio evocava sicuramente un “caro ricordo” del passato e, specie se proposta da un personaggio come don Marzari, una sicura garanzia di non trovarsi di fronte a niente di avventato ed avventuroso.

La rinata Lega Nazionale servì dunque sicuramente a far percepire a Roma il dramma giuliano, servì anche ad attivare i primi soccorsi nazionali agli esuli istriani che fuggivano dalle orde titine, costituì il primo embrione ed il punto di riferimento dei primi comitati giuliano dalmati che cominciarono a costituirsi in giro per l’Italia. Tale giudizio è formulato da Roberto Spazzali, nel suo pregevole lavoro dedicato alla ricostituzione della Lega Nazionale dove, nelle conclusioni finali, scrive testualmente: “In quei primi mesi di vita la Lega Nazionale potè contare su un solo grande amico, perfetto conoscitore di quelle che erano state le regioni irredente – in quanto lui stesso protagonista delle maggiori scelte – nonché attento osservatore degli sviluppi in atto nella Venezia Giulia: Alcide De Gasperi.
I documenti presenti nell’archivio della Lega Nazionale non permettono incertezze: De Gasperi fu vicino alla Lega Nazionale sin dai primo momenti, attraverso l’amicizia personale con don Edoardo Marzari sostenne la sua attività assicurando il finanziamento, al di là del parere espresso dai partiti do governo, e dando un consistente impulso alla sfera delle “simpatie romane” che era riuscita a costruirsi attorno ai primi nuclei di profughi giuliani, fiumani e dalmati sparsi nelle varie città della penisola, per i quali l’accoglienza iniziale non fu delle migliori a causa della sostanziale ed allora evidente diffidenza nei confronto di coloro i quali avevano operato tanta sofferta decisione.

Un’ultima osservazione sulla ricostituzione della Lega Nazionale. La sua lettura, quale strumento primario del partito italiano, contrapposto al partito slavo- comunista, può forse apparire, a chi non ha vissuto quegli anni, come una forzatura, possibile frutto di una lettura distorta della realtà, posto che nell’elenco dei partiti operanti all’epoca a Trieste non si trova certo traccia alcuna né di quello italiano né di quello slavo-comunista.
In proposito una risposta significativa (e forse curiosa) può venire da un documento proposto da Gianni Chicco nel suo lavoro sulla documentazione diplomatica statunitense ed i fatti triestini del ’53. Si tratta di un documento intitolato “Political Parties – British/Unites States Zone – Free Territory of Trieste”, risulta datato 5 aprile 1954 a proviene dall’Ufficio Stampa (Press Relations Office) del Governo Militare Alleato del Territorio Libero di Trieste. In tale lavoro vengono presentati tutti i partiti politici presenti sulla scena politica triestina, descrivendone contenuti, mezzi di informazione, dirigenti ed esiti elettorali. A conclusione si analizzano i dati delle elezioni triestine, sia di quelle del 12 giugno 1949 che di quelle del 25 maggio 1952. In entrambi i casi l’anonimo estensore dell’Ufficio Stampa anglo americano fornisce un unico dato complessivo per quelli che definisce Italian parties e ciò in contrapposizione al resto dello schieramento (partito comunista, partiti etnici sloveni ed indipendentisti pro Tito). Le tabelle che concludono l’esposizione riportano le percentuali dei singoli partiti, ma quelli “italiani” (dalla DC ai missini, dai socialdemocratici ai monarchici) vengono sommati in un unico totale che risulta del 63,7% nel ’49 e del 62,91% nel ’52.
Quell’ anonimo funzionario dell’ Allied Military Government, Br/US Zone, Free Territory of Trieste, nell’inviare le sue informazioni alle Cancellerie di Londra e di Washington conferma quanto qui più volte sostenuto e cioè che a Trieste, in quegli anni, lo scontro politico effettivo era tra due poli contrapposti e cioè il partito italiano e quello slavo-comunista.

 

Trieste e il Governo Militare Alleato
“La Lega Nazionale invita la cittadinanza ad esporre il tricolore”. Bastavano queste poche parole perché il giorno dopo Trieste fosse tutta avvolta di bandiere e perchè la strade e le piazze della città di San Giusto si riempissero di cittadini bramosi di esprimere e testimoniare la propria identità italiana.

Durante il periodo del Governo Militare Alleato – G.M.A. la situazione politica triestina presenta una serie di evoluzioni. Protagonista numero uno dello scenario politico è senz’altro quello che abbiamo definito come il “partito italiano, che nella Lega Nazionale ha un suo strumento primario e che, in termini elettorali, rappresenta circa due terzi della popolazione”.

Per costoro è pacifico che l’arrivo degli Alleati, nella primavera del ’45, fosse stato salutato come la vera e propria “liberazione”, perché poneva fine ai quaranta giorni di occupazione titina ed all’incubo del terrore e delle foibe. Gli Alleati – Inglesi ed Americani – avevano continuato ad essere sentiti come amici e protettori, anche nella fase immediatamente successiva, quella cioè nella quale il nuovo assetto mondiale della guerra fredda si era oramai esplicitato in tutta Europa. Era evidente che gli Italiani di Trieste non potevano non stare con l’Occidente. Anche perché era altrettanto evidente che il partito avverso – quello slavo-comunista – stava dall’altra parte, con lo schieramento dell’Oriente di Giuseppe Stalin. Siamo nel 1948, quando con la famosa Nota Tripartita del 20 marzo Stati Uniti, Inghilterra e Francia fanno proprie le tesi italiane che reclamano la restituzione all’Italia di tutto il Territorio Libero, vale a dire non solo Trieste e la sua Zona A ma anche quella Zona B sottoposta all’amministrazione jugoslava. Tale presa di posizione degli Alleati era certamente finalizzata, nella tempistica, a dare una mano a De Gasperi per le imminenti elezioni del 18 aprile, ma rispondeva altrettanto coerentemente alla logica della guerra fredda: si trattava comunque di far arretrare la cortina di ferro, dal confine di Trieste a quello sul fiume Quieto.

Lo scenario comincia però a cambiare: Stalin caccia dal Cominform il comunismo jugoslavo, reo di divergenze sui programmi balcanici dell’URSS. Improvvisamente il ruolo internazionale del Maresciallo Tito subisce una drastica metamorfosi: era uno dei più fedeli ed ortodossi tra i leader comunisti, diventa di colpo l’eretico ed il revisionista (nei paesi dell’Est, all’epoca, si va in galera o al muro per l’accusa di “titoismo”). Tito dà così avvio a quel mirabile gioco delle tre carte che egli riuscirà a portare avanti fino al momento della sua morte: in politica interna sempre e comunque comunista (con quegli alti e bassi, nella gestione poliziesca del potere, che appartiene a tutti i regimi di quel tipo); in politica estera una posizione terzista tra i due schieramenti, che prenderà il nome di “non allineati” o di “paesi neutrali” (ma che avrà al suo interno anche la Cina di Mao); per quanto riguarda la politica militare, infine, un progressivo anche se non dichiarato allineamento con la Nato, a cui il Maresciallo Tito saprà abilmente “vendere” la supposta capacità di contrapporre una efficace guerriglia all’eventuale arrivo di truppe sovietiche.

Questa novità, introdotta dal divorzio Stalin-Tito, gioca chiaramente anche sui riflessi internazionali della situazione triestina. La nota tripartita del 20 marzo ’48 appare sempre più svuotata di vera volontà politica. Per la nazioni Alleate la priorità è ora quella di tessere nuove trame con Belgrado, non certo di spostare la cortina di ferro. L’Italia è l’alleato ormai pacificamente acquisito; mentre la Jugoslavia è il soggetto da blandire ed agganciare (ambienti diplomatici statunitensi arrivano, addirittura, a dichiararlo esplicitamente ad interlocutori Italiani).

L’opinione pubblica triestina tutto ciò lo avverte e non è un caso che, 1952, proprio la ricorrenza della Nota Tripartita determini nella città giuliana dei disordini di particolare gravità. Partiti e associazioni avevano organizzato una manifestazione al teatro Verdi, per ricordare gli impegni presi dagli Alleati quattro anni prima. In conclusione della manifestazione la banda della Lega Nazionale doveva tenere in piazza Unità un concerto (regolarmente autorizzato). Vi fu invece l’intervento, estremamente energico e brutale, della polizia per disperdere la folla all’uscita dal Teatro. I disordini di piazza durarono per altri due giorni con il susseguirsi di scontri e l’immancabile assalto alla sede degli Indipendentisti (visti dai più come i prezzolati da Tito). Gianni Chicco, che ricostruisce la vicenda, riferisce che, secondo la stampa britannica, le persone scese in piazza per ascoltare il concerto della banda (della Lega) si erano trovate coinvolte in una manifestazione e violentemente caricate dalla polizia che non aveva neppure usato i microfoni prima di caricare. Sempre Chicco cita quanto scritto da The Times del 25 marzo “…Poiché gli ufficiali comandanti la polizia nella Piazza erano tutti britannici, gli Italiani sono ora convinti che la Gran Bretagna da sola favorisca la Jugoslavia alle spese dell’Italia.

Di sicuro questa è l’occasione nella quale – per gli Italiani di Trieste – da un lato si incrina la fiducia nella tutela degli Alleati e dall’altro si genera anche il distinguo tra Inglesi ed Americani, vedendo nei primi quelli (anche storicamente) più vicini a Tito, nel mentre gli Americani continuano ad essere sentiti come amici e protettori. Certamente il rapporto della popolazione italiana con il Governo Militare Alleato appare ormai incrinato. Anche se, sullo sfondo, resta una sorta di equivoco di base (vi resterà fino alla fine): gli scontri avvengono tra la piazza ed i poliziotti del Governo Militare, ma tutti sanno bene che il vero nemico è altrove. Non è un caso che l’avversione si concentri sulla Polizia Civile, sospettata – a torto o a ragione – di grosse infiltrazioni di elementi filo Jugoslavia.
Sempre nel lavoro di Chicco si trova un’altra significativa citazione, tratta dal The Daily Telegraph del 13 marzo 1953: “Uno scolaro che sta lanciando pietre ai Britannici è rappresentato su una medaglia che l’italiana irredentista Lega Nazionale ha coniato in ricordo degli scontri dell’anno passato a Trieste. Sfortunatamente, non è questo il solo segno per cui ci potranno essere ancora disordini quest’anno… nell’anniversario della Dichiarazione della Tre Potenze del 1948 che suggeriva un possibile ritorno di Trieste all’Italia“. La previsione del giornale britannico si rivelerà peraltro erronea. Vi erano stati sì degli scontri, nella giornata dell’otto marzo 1953, ma riferibili essenzialmente ad un singolo partito (a conclusione di un comizio del Movimento Sociale).

La scadenza del 20 marzo passò invece senza disordini o manifestazioni. Dai verbali della Lega Nazionale risulta chiaramente che questa fu una scelta consapevole: c’era la convinzione che forse qualcosa si stesse movendo e quindi fosse preferibile stare ad attendere. Sicchè i dirigenti della Lega, dopo averne discusso, decisero di non lanciare quello che era una sorta di codice di comunicazione con i cittadini italiani di Trieste: la pubblicazione sul quotidiano locale di un semplice annuncio “La Lega Nazionale invita la cittadinanza ad esporre il tricolore“. Non serviva altro; bastavano queste poche parole perché il giorno dopo Trieste fosse tutta avvolta di bandiere e perchè la strade e le piazze della città di San Giusto si riempissero di cittadini bramosi di esprimere e testimoniare la propria identità italiana, sovente con il tricolore al collo.
Passa comunque la scadenza del 20 marzo, si arriva all’8 ottobre ’53 quando, una nuova nota alleata interviene sulla questione Trieste. Questa volta è solo bipartita, perché proviene da Inglesi ed Americani, ed ha quale contenuto non il destino di tutto il territorio, ma solo l’intenzione di lasciare all’Italia l’amministrazione su Trieste.
La dichiarazione non può certo avere effetti particolarmente rassicuranti sugli Italiani di Trieste: costituisce infatti una implicita sconfessione di quel di più che era stato dichiarato nel ’48 e non c’è neppure la minima garanzia che, questa volta, alle parole seguiranno i fatti. Perplessità, in realtà, decisamente ben fondata, se è vero che il progetto iniziale era che gli anglo-americani passassero i poteri all’Italia contestualmente alla pubblica dichiarazione; poi invece, con evidente marcia in dietro, si scelse di rendere pubblica l’intenzione, senza però definire le modalità ed i tempi di attuazione.
Il tutto da inserirsi nel braccio di ferro in atto tra governo di Belgrado e governo di Roma (il presidente del Consiglio era Giuseppe Pella) con schieramento di carri armati ai rispettivi confini.
Che il “caso Trieste” stesse avviandosi ad una conclusione era abbastanza percepibile; quale sarebbe stato tale esito era però tutt’altro che scontato. Quanto avrebbe giocato la supposta divaricazione tra Stati Uniti ed Inghilterra? Quanto sarebbe riuscita a spostare i baricentri decisionali la politica, abile, spregiudicata, levantina del Maresciallo di Belgrado? Quale avrebbe potuto essere il ruolo assegnato alla quinta colonna della Jugoslavia che operava in città, nello schieramento degli “slavi-comunisti”, magari nelle vesti di celebratori della “liberazione” del 1 maggio 1945?
In tale situazione, con questi angosciosi interrogativi nel cuore, il partito italiano di Trieste, la stragrande maggioranza dei suoi cittadini reagì non attivandosi “contro” un qualcuno o un qualcosa. Scesero in piazza “per”: fu una sorta di esplosione di amore per il Tricolore. Quel tricolore che la Polizia Civile fece rimuovere dal palazzo del Municipio, quello che gli stessi poliziotti strapparono dal collo di cittadini che ritornavano da Redipuglia.
Il Tricolore, esposto alle finestre su invito della Lega Nazionale, divenne la causa formale e sostanziale dei disordini, degli scontri, dei caduti del novembre 1953. Simbolo di tutto ciò è un cimelio religiosamente conservato alla Lega Nazionale. Si tratta di una bandiera con il bianco, il rosso ed il verde segnati dal tempo; ben visibili le macchie di sangue, ben visibili i fori anneriti della pallottole. La portava al collo Severio Montano, assassinato a Trieste in piazza Unità il giorno 6 novembre 1953. E’ stata affidata dalla figlia alla Lega Nazionale, perchè Saverio Montano, come Pierino Addobbati, come Antonio Zavadil, come Erminio Bassa, come Leonardo Manzi, come Francesco Paglia erano tutti soci della Lega Nazionale.

Morti inutili o martiri del Risorgimento?
Taluno che, in tempi abbastanza recenti, ha preteso trattare di questi argomenti, in sede locale, ha prospettato la tesi che il sacrificio dei sei caduti del novembre ’53 sarebbe stato inutile o addirittura dannoso. L’argomentazione – forse riconducibile a ricerca di originalità o magari a legami ideologici con il vecchio schieramento slavo-comunista – trascura innanzitutto un dato elementare e cioè che esattamente un anno dopo quel tragico novembre e cioè il 26 ottobre 1954 l’Italia ritornerà finalmente a Trieste e Trieste ritornerà finalmente all’Italia. E’ ben vero che il criterio post hoc ergo propter hoc non è il massimo del rigore scientifico, ma è pure innegabile che è dai fatti e non dalle teorie che bisogna prendere le mosse.

Ed i fatti ci sono e possono essere piuttosto eloquenti; proviamo ad elencarne alcuni:

  1. la politica di Inglesi ed Americani stava chiaramente seguendo una linea di disimpegno nei confronti dell’Italia, dalla nota tripartita del ’48 si era già passati alla dichiarazione dell’8 ottobre ’53 ed anche questa, da atto che doveva essere operativo, era stata ridimensionata a pura dichiarazione di intenti; dove poteva portare questa deriva di disimpegno?

  2. Le pretese jugoslave, l’aggressività del maresciallo Tito erano crescenti, proprio perché c’era la consapevolezza che i piatti della bilancia potevano spostarsi a loro favore e che il fattore tempo avrebbe giocato nel rafforzare il potere di ricatto verso l’Occidente.

  3. La politica del Governo di Roma, che nel Presidente Pella aveva offerto una risposta energica alle provocazioni di Tito, quanto avrebbe potuto o saputo perdurare su tale linea? E’ a tutti ben noto che nei Palazzi romani la fermezza può essere l’eccezione, non certo la regola.

  4. La consapevolezza di quanto potesse costituire una minaccia la presenza, sul territorio, di una componente disposta forse a giocare (anche in termini militari) da vera e propria quinta colonna del Maresciallo per operare l’annessione di Trieste a Belgrado; ciò poteva riguardare la presenza slovena, ma poteva coinvolgere anche gli stessi comunisti triestini, per i quali la frattura tra Stalin e Tito non sembrava, apparentemente, aver avuto effetti tanto laceranti, nei confronti del loro appoggio alle pretese jugoslave.

  5. Un’ultima considerazione: non è dato sapere quanto la dichiarazione dell’otto ottobre fosse accompagnata da idonea volontà di attuazione; certo è che il suo percorso avrebbe dovuto superare sia la resistenza di Tito sia sicure resistenze nella politica anglo-americana, tutta protesa ai rapporti con la Jugoslavia. E’ chiaro che una esplosione di volontà popolare, consacrata dal martirio, dalla testimonianza nel sangue di sei cittadini rafforzò in termini di vis democratica il percorso di quelle decisioni (solo) scritte sulla carta. Furono quelle manifestazioni, furono quei morti a rendere evidente quale fosse la volontà dei cittadini di Trieste e per dei governi democratici, come quello Inglese e quello Americano, la volontà dei cittadini è pur sempre un dato importante, di cui tenere adeguato conto.

A conclusione di tutto questo, al di là di certe pseudo tesi (bizzarre o ideologiche, che siano) il dato solare ed indiscutibile è che quel Tricolore per il quale Trieste era scesa in piazza, per il quale in sei avevano sacrificato la vita (ed a centinaia erano finiti negli Ospedali o nelle Carceri o erano dovuto fuggire in Italia), quel Tricolore che nei momenti cruciali la Lega Nazionale invitava ad esporre alle finestre, dopo meno di un anno, dal 26 ottobre 1954, quel Tricolore ritornerà ad avere piena legittimità sulla città di San Giusto. Sarà, così, il coronamento di quella affermazione della propria identità italiana che ha caratterizzato i Triestini sia ai tempi della dominazione austriaca che nelle lunghe e travagliate vicende del secondo dopoguerra.

In realtà, leggere tale vicenda nella sola ottica di questa sorta di “passione italiana” delle genti giuliane (siamo inguaribilmente innamorati dell’Italia e non possiamo farci niente per non esserlo) risulta sicuramente vero, ma può essere anche parziale. La vicenda di Trieste ha riguardato certamente i Triestini, ma ha parimenti coinvolto, anche in termini oggettivi, l’Italia tutta.
Perché la data del 26 ottobre 1954 ha certamente significato, per Trieste, il ritorno alla casa materna (la madrepatria), ma anche per l’Italia tutta ha rappresentato il conseguimento di una completezza, il sanare un vuoto, il rimuovere una amputazione.

Quel anelito dei patrioti dell’ottocento, che aveva animato tutto il percorso risorgimentale, aveva un fine chiaro ed inequivocabile: realizzare l’unità territoriale della nazione italiana. Quel anelito ha trovato piena soddisfazione solo nel momento in cui l’Italia ha realizzato la sua completezza con il recupero delle città giuliana. Ciò è avvenuto grazie al sacrificio dei sei caduti del novembre 1953. Il loro martirio, la loro testimonianza col sangue sta dunque a significare anche il coronamento, il concludersi di tutto il processo risorgimentale. Per questo la Lega Nazionale reclama dallo Stato italiano il riconosciuto di ultimi martiri del Risorgimento italiano per Pierino Addobbati, Antonio Zavadil, Severio Montano, Erminio Bassa, Leonardo Manzi e Francesco Paglia.
Sarà un atto di giustizia, di riconoscimento della verità storica, di vera testimonianza di quanto la realtà della Patria possa e debba avere ancora diritto di cittadinanza nell’Italia di oggi.