Il cantautore ligure: la sinistra è responsabile culturalmente, sono state coperte le connivenze tra titini e partigiani rossi
Corriere della Sera 21 dicembre 2005
La vita e la storia devono essere davvero più complicate di quanto si creda, se accade di scoprire quasi per caso, in fondo a due ore di conversazione, che Francesco De Gregori non è l’unico cantautore simbolo della sinistra (mai rinnegata) ad aver vissuto in famiglia i crimini compiuti dai comunisti, sul confine orientale, al finire della guerra.
Racconta Gino Paoli che «mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata.
I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così».
Con la figlia Amanda e l’ex moglie Stefania Sandrelli (Olympia)
Interviene Amanda, la splendida figlia che Paoli ha avuto dal suo amore con Stefania Sandrelli diciottenne: «Papà, ho fatto una lettura pubblica sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, e non hai idea di cosa abbiano commesso i nazisti…». «Sì invece Amanda, conosco bene quella storia. È atroce ma, vedi, le atrocità ci sono state da entrambe le parti. È la guerra che rende l’uomo atroce; per questo io odio la guerra. Una parte della nostra famiglia è finita nelle foibe e di queste cose per decenni non si è parlato. E la sinistra porta una responsabilità culturale, perché il partito doveva coprire la connivenza dei partigiani rossi con la strategia di Tito. Vedrai che ci vorrà un altro mezzo secolo perché le passioni si spengano e se ne parli liberamente. Atrocità hanno commesso anche gli alleati che risalivano l’Italia. Le truppe d’assalto avevano il diritto, riconosciuto per iscritto, di saccheggiare e stuprare: e le truppe d’assalto erano per gli americani i neri, per i francesi i marocchini, per gli inglesi gli indiani. Le conseguenze le hanno patite le donne italiane, finché queste truppe non si sono attendate al Tombolo, in Toscana, in un accampamento frequentato da femmine alla disperata ricerca di cibo, finché non sono arrivati gli americani ad arrestare tutti. Io stesso, Amanda, dovetti scendere dal treno che ci riportava a Genova e passare tra le macerie di Recco distrutta dal bombardamento alleato – non avevo ancora dieci anni – camminando tra due pile di cadaveri. È un ricordo indelebile. Per questo, quando le due torri crollarono, ho reagito diversamente da chi la guerra non l’ha conosciuta, da chi bombardamenti non ne ha subiti mai. Anche se riconosco agli americani (al di là del comportamento di Bush che ha usato la tragedia come un pretesto) di aver reagito dimostrando il loro senso dello Stato. Magari ce l’avessimo anche noi italiani».
La politica appassiona Paoli fin da ragazzo. «Le mie prime manifestazioni furono quelle contro Scelba». Un altro ricordo indelebile, il luglio 1960. «Quando a Genova si seppe che per il congresso missino sarebbe tornato in città Basile, l’uomo che aveva compilato le liste degli operai da mandare in Germania, allora studenti e portuali, professori e camalli reagirono allo stesso modo, senza neppure bisogno di parlarsi. Il Pci fu del tutto scavalcato, come lo fu Togliatti dal fratello, che insegnava all’università e marciò in testa ai cortei. Io presi la mia razione di botte. Le jeep caricavano fin sotto i portici, e i respingenti di gomma facevano male. Il congresso dei missini, che allora si chiamavano ancora fascisti, non si fece più, il governo cadde, ma una generazione ha pagato cara quella vittoria: c’è gente che ha passato in galera vent’anni, un mio amico portuale in galera c’è morto».
«Facevo politica ma non mi sono mai iscritto al Pci. Mai amato le bande, i gruppi, i movimenti: ho visto troppi capi dei movimenti finire da Vespa. Meglio pochi amici, con cui passare la notte a parlare», musicisti come Tenco, Lauzi, Endrigo, ma anche Bagnasco e Renzo Piano. «Più di Marx ho sempre amato Rousseau: i beni della terra e dell’intelletto devono essere beni comuni. Come ogni artista, sono un po’ anarchico. Mi piaceva una scritta che vedevo da ragazzo a Pegli: “Comunismo sì, ma anarchico”. Non so bene cosa voglia dire, però mi ci riconosco». Anarchico si dice fosse De André, «ma con lui non ci frequentavamo. Apparteneva a un’altra casta, suo padre era il braccio destro di Monti, comandava all’Eridania». La politica ha portato Paoli in Parlamento, tra gli indipendenti di sinistra, nel 1987. «Non è stata un’esperienza del tutto negativa. Ho imparato molte cose. Però avrei preferito rendermi utile agli altri. Invece la politica è complicata; per questo gli improvvisati che vi arrivano da fuori combinano un sacco di guai».
Non che Paoli sia entusiasta neppure dei professionisti. «Una volta avevamo politici che facevano affari. Oggi abbiamo affaristi che fanno politica. E il fenomeno non è esaurito da Berlusconi; riguarda anche la sinistra. Io capisco se uno come Della Valle si arrabbia: se perde soldi, son soldi veri. Questi altri giocano: spostano soldi virtuali. E mi dispiace che in questo gioco sia rimasta invischiata la sinistra. Che ora si trova in un bel guaio. Se dice la verità sugli anni di sacrifici che ci attendono, non vince le elezioni. Se dice balle, le vincerà ma sarà cacciata appena comincerà a fare l’inevitabile. In Inghilterra la società è più avanzata: non a caso Marx aveva previsto che la rivoluzione si sarebbe fatta là. Non è andata così ma in compenso hanno avuto la Thatcher, che nei primi anni ha messo il Paese alle strette, però a lungo andare ha portato risultati. Mi farò odiare, ma l’Italia avrebbe bisogno di una destra seria: liberale e dotata di senso dello Stato; che non privatizzi scuola e sanità ma imponga le ristrettezze necessarie a preparare la stagione delle riforme. Prima un po’ di conservatorismo per mettere da parte i soldi, poi gli investimenti per ristrutturare la casa».
Paoli non rinnega il passato; piuttosto, non si riconosce nel presente. Pur non amando Berlusconi, non si è unito alla mobilitazione di artisti e intellettuali contro di lui. «Ho attaccato Berlusconi quando non voleva pagare la Siae, negando alla cultura la sua fonte di sostentamento. Per il resto, non avevo nulla da dimostrare. Tutti sanno bene come la penso. E io non ho cambiato idea; sono loro ad averla cambiata. Io sono sempre di sinistra, diciamo pure comunista; sono loro a non esserlo più. E poi, come dicevo, non credo alle bande. Nel 1968 smisi di suonare per fare l’oste a Levanto: le mie cose non erano più adatte ai tempi, e non mi andava di cantare “viva” o “abbasso”. Restai zitto per sette anni, fino a quando Gianni Borgna, allora capo della Fgci romana, mi invitò a suonare qualche canzone al Pincio. Andai avanti per due ore, e scoprii che i giovani comunisti potevano ascoltare Sapore di sale, che avevano capito come anche la poesia e l’amore fossero politica».
Sapore di sale, forse la più bella canzone mai scritta da un italiano, è del 1963. Sono gli anni in cui Paoli vive come Tenco e come una sua giovane scoperta, Lucio Dalla, nel mito degli chansonniers , degli esistenzialisti, degli artisti maledetti. È l’anno in cui si spara al cuore. «Ogni suicidio è diverso, e privato. È l’unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’unico, arrogante modo dato all’uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero. Il proiettile bucò il cuore e si conficcò nel pericardio, dov’è tuttora incapsulato. Ero a casa da solo. Anna, allora mia moglie, era partita; ma aveva lasciato le chiavi a un amico, che poco dopo entrò a vedere come stavo». L’anno dopo Paoli ha avuto due figli: Giovanni, che ora ha curato per Laterza la sua biografia; e Amanda, con cui adesso discute di storia.
Aldo Cazzullo
21 dicembre 2005