Foibe: la storia sepolta di una tragedia italiana di Silvia Ferretto Clementi

Presentiamo le pagine introduttive e le conclusioni della tesi di laurea di Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia (www.ferretto.it), dedicata alle Foibe

Per comprendere la tragedia che ha colpito le popolazioni giuliano dalmate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e ben oltre la conclusione delle ostilità, è indispensabile far riferimento alle cose che ognuno di noi reputa importanti, in base ad una personale scala di valori.

La famiglia, gli amici, la casa, i beni, i ricordi, le tradizioni, le proprie radici culturali legate a suoni, sapori, odori della terra in cui si è cresciuti e al legame inscindibile con i propri morti. I 350.000 italiani costretti a fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia hanno dovuto
lasciare tutto questo.

Molti di loro hanno perso familiari, amici e conoscenti.

Le loro case e proprietà sono state confiscate e mai indennizzate.

Accusati di essere criminali italiani nemici del popolo, migliaia di loro sono stati massacrati senza pietà, vittime di una furia omicida alimentata da un nazionalismo esasperato. Costretti a optare tra rimanere italiani e andarsene, oppure divenire jugoslavi pur di
rimanere sulla propria terra, la maggior parte di loro intraprese la via dell’esilio come una scelta di libertà e venne accolta in Patria con l’ostilità e il fastidio che si prova per gli indesiderati.

La propaganda comunista, l’indifferenza e la disinformazione li fecero apparire all’opinione pubblica come “criminali”. Insultati e tacciati di essere reazionari e fascisti, secondo l’equazione manichea che bollava senza distinzione: “esule uguale fascista”, furono lasciati soli.

Prima della guerra la popolazione del confine orientale era stata fascista né più né meno del resto degli italiani.

Sostenere che in una terra di frontiera estremamente disomogenea e pervasa, per secoli, da passioni contrastanti tra etnie diverse, gli istriani fossero tutti vocati al fascismo è evidentemente illogico e rappresenta semplicemente una delle tante menzogne raccontate su un popolo che, nonostante le profonde ingiustizie e atrocità subite, non ha mai, in alcun momento, fatto ricorso all’uso della violenza e al terrorismo.

Un esempio dal quale, anche quei popoli che rivendicano oggi il diritto di avere una propria terra, dovrebbero trarre insegnamento.

La memoria dei martiri delle foibe è stata sepolta ed infangata per lunghi anni.

Dopo una spietata “pulizia etnica”, gli esuli hanno dovuto subire infatti anche una sistematica pulizia storiografica e la loro tragedia è stata dimenticata.

Albert Camus nel suo libro, La peste, scrisse: “La profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli è vivere con una memoria che non serve a nulla.”

Pochi italiani hanno riconosciuto che, con il loro sacrificio ed i loro beni, gli esuli hanno pagato una consistente parte del “debito di guerra” per la sconfitta dell’Italia.

La loro tragedia, sepolta per oltre cinquant’anni, con colpevoli lacune e disarmanti silenzi, è stata frutto di una epurazione tanto vergognosa quanto “necessaria” per non dover riconoscere ed ammettere anche gli innumerevoli errori compiuti in nome della Resistenza; ma, soprattutto, per non dover ammettere e riconoscere che se tutti i democratici furono antifascisti, non tutti gli antifascisti furono democratici. 

Sono molte le pagine scritte che devono essere riviste, tenendo sempre ben presente che l’opera di revisione, necessaria e doverosa, deve però riguardare i fatti, le interpretazioni, gli errori compiuti, l’acquiescenza e le omissioni.

Il revisionismo non può e non deve certo riguardare i principi e i valori che portarono alla nascita della democrazia nella Repubblica italiana.

Ricordare gli italiani uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito e far conoscere a tutti, anche ai più giovani, quali e quanti massacri sono stati compiuti all’ombra della falce e martello, non giustifica ne potrà mai modificare il giudizio di condanna, morale, politico e storico delle persecuzioni razziali, ma è un atto di giustizia dovuto, perché la mancanza di verità storica costituisce un oltraggio alla memoria delle vittime ed insieme alla nostra coscienza.

Le responsabilità sono sempre personali o dei governi, non dei popoli. Confondere le responsabilità e attribuirle genericamente e indifferentemente ad un’intera popolazione o, peggio, ad un gruppo etnico, significa alimentare la spirale d’odio ed il conflitto rendendolo difficilmente sanabile.

Le motivazioni che hanno portato all’ ”Olocausto” e alla “pulizia etnica” sono profondamente diverse così come lo sono le loro dimensioni. I nazisti eliminarono gli ebrei e gli zingari, gli omosessuali e i portatori di handicap per ragioni “razziali”, una sorta di “pulizia biologica”; i titini eliminavano gli italiani per balcanizzare il territorio e “bonificare” l’Istria, Fiume e la Dalmazia dalla presenza millenaria del ceppo latino-veneto.

La “pulizia etnica” posta in atto contro gli italiani è sempre stata considerata una tragedia minore, un fenomeno reattivo, una conseguenza dei torti subiti durante il fascismo, che costituirono sicuramente un ottimo pretesto, servito su un piatto d’argento, al nazionalismo di Tito, ma non certo la causa primaria.

Quei tragici avvenimenti furono infatti il frutto di un disegno politico scientemente preparato e cinicamente eseguito. Nella memoria collettiva e nella storiografia ufficiale l’Olocausto è giustamente presente, e non potrebbe essere altrimenti. Trova spazio in tutti i libri di testo, nella cinematografia mondiale sia filmica che documentaristica e viene ricordato costantemente dai mezzi di informazione. Ogni studente italiano conosce bene quegli orrori.

La tragedia istriana, giuliano dalmata, al contrario, è stata per decenni omessa da tutti i testi scolastici ed è solo da dopo il dibattito sulla faziosità dei libri di testo, che in alcune edizioni viene riportata qualche informazione a riguardo, anche se spesso, purtroppo, ancora in forma superficiale e didascalica.

La condanna politica e morale di tutti gli stati nei confronti dell’antisemitismo è unanime, e, in forma autocritica, anche molti esponenti dei governi tedeschi sono sempre stati in prima linea nell’esecrare quegli accadimenti.

Diversamente, in merito al genocidio titino, non c’è mai stata alcuna presa di posizione ufficiale di condanna da parte dei governi balcanici: la Jugoslavia prima, la Croazia e la Slovenia poi, oltre a non aver mai espresso le loro “scuse ufficiali” ai familiari delle vittime, non hanno collaborato ad aprire, agli storici di tutto il mondo, i loro archivi di stato.

Anche sul piano giudiziario, le procedure ed i risultati sono da sempre stati diversi: sebbene alcuni siano riusciti ad eludere la giustizia internazionale, molti gerarchi nazisti sono stati processati a Norimberga. Nessun criminale titino ha invece scontato un solo giorno di carcere, a cominciare proprio dal loro leader, inspiegabilmente a lungo stimato e “riverito” da molti capi di stato.

Ai criminali di guerra slavi l’Italia ha addirittura concesso e sta ancora versando la pensione INPS, che non ha mai invece riconosciuto ad alcuno degli internati nei lager titini.

CONCLUSIONI

Il 1 maggio 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell‘Unione Europea e a Gorizia è stato abbattuto l’ultimo muro di quella “cortina di ferro“ che, per oltre mezzo secolo, ha diviso l’Europa, secondo la logica di Yalta.

Il confine che per tanti anni ha diviso italiani e slavi, che ha a lungo rappresentato una linea di separazione ed esclusione ed è stato fonte di reciproca e profonda inimicizia, spesso sfociata in mutue accuse di nazionalismo o xenofobia, potrebbe, oggi, trovare una sua giusta e nuova connotazione in una dimensione più europea.

Essere parte dell’Unione Europea significa infatti far parte di una comunità più ampia, sovranazionale, all’interno della quale ogni stato membro, pur conservando la propria cultura, le proprie tradizioni, il proprio sentimento nazionale patriottico, rispetta gli altri Stati e, a differenza di quanto avveniva in passato, si pone come obiettivo la condivisione, non solo della moneta, ma anche e soprattutto dei valori e dei principi.

Gli accordi economici non bastano a unire le Nazioni, occorrono sogni, idee, progetti comuni e soprattutto valori condivisi. È questa la condizione sine qua non affinché dagli orrori e dagli errori di esasperati nazionalismi si possa trarre un insegnamento, facendo sì che fra le genti possa, finalmente, prevalere il reciproco rispetto.

Un’Europa unita non può essere costruita su odio e rancori mai sopiti. È evidente, infatti, che per ricucire uno strappo tra due popoli divisi da secoli, non bastino semplici dichiarazioni di buona volontà. È indispensabile il rispetto delle minoranze e dei diritti civili e che si arrivi quanto prima ad una memoria condivisa.

Se da un lato pretendere di rimettere in discussione i confini orientali è evidentemente improponibile, dall’altro deve essere chiaro che alcune delicate questioni in sospeso da ormai più di cinquant’anni devono essere seriamente affrontate e risolte.

Prime fra tutte: la restituzione dei beni confiscati ai cittadini italiani al momento dell’esodo, una maggiore tutela delle nostre minoranze rimaste nell’ex Jugoslavia e l’abolizione delle molte restrizioni ancora in vigore, sia in Slovenia che in Croazia, nei confronti dei cittadini italiani e delle nostre iniziative economiche e culturali, ma, soprattutto, il sacrosanto diritto delle famiglie dei “desaparecidos” italiani di conoscere quali sia stata la sorte dei propri cari ed il luogo in cui giacciono le loro spoglie.