Distruzione del Proclama di Pio Riego Gambini

Il 5 febbraio 1950 un gruppo vigliacco di teppisti filo titini hanno compiuto un raid distruttivo a Capodistria. La ricerca dei pezzi perduti.

Distruzione del Proclama di Pio Riego Gambini
Targa marmorea posta nell’atrio del Ginnasio Liceo CARLO COMBI

Dall’opuscolo di Aldo Cherini, DIECI ANNI DI POTERE SLAVO E FINE DELLA CITTA’ DI CAPODISTRIA 1945 – 1955, troviamo questo paragrafo che fa la cronaca di quanto accadde a Capodistria, domenica 5 febbraio 1950.

Nel gennaio 1950, gli slavi abolivano la barriera doganale tra la Zona B del costituendo T.L.T. e i territori passati sotto sovranità jugoslava, un altro passo avanti per il possesso di un territorio loro affidato solo in via fiduciaria civile.

Si veniva a sapere, inoltre, che erano stati slavizzati d’ufficio i cognomi di alcune famiglie.

Il 5 febbraio, un gruppo di attivisti inscenava, verso le ore 10, una manifestazione che ben presto trascendeva con la frantumazione della lapide commemorativa dei caduti della guerra 1915 – 18, posta sulla facciata del municipio nel 1921. Erano Edoardo Filippi, Vittorio Steffè detto Ciacio, Vittorio Martinoli e Vittorio Pogorevaz. Non contenti, costoro penetravano poi nell’atrio e nel cortile del ginnasio – liceo “Combi” infrangendo le 5 lapidi ivi esistenti (Bollettino della Vittoria, Proclama di Pio Riego Gambini, lapide degli studenti caduti, lapidi dedicate a Carlo Combi e al prof. Leonardo d’Andri) e prendendosela con la torretta del sommergibile “Pullino”, troppo massiccia per essere danneggiata, e mandando in pezzi lungo la strada, anche la lapide dell’ex trattoria “San Marco” in Via Crispi (Orti Grandi) posta a ricordo di un episodio irredentistico del 1914. Il fatto sollevava vivo scalpore e prese di posizione a Trieste, tanto che le autorità si vedevano costrette ad aprire un’inchiesta e a condannare il fatto.
Io in quell’anno frequentavo la seconda media del nostro glorioso istituto e va notato che i ragazzi capodistriani erano in minoranza: erano quelli di Isola d’Istria i più numerosi. Miei concittadini erano Edda Porro, Graziella Vattovani, Nello Salvador, Ferruccio Zucca, Tullio Potocar e Pino Burlini. La professoressa capo classe era Lidia Steffè.

Il giorno 6 febbraio, alla ripresa delle lezioni, devo dire onestamente che non trovammo traccia di quanto accaduto il giorno precedente. Unico danno visibile riguardava la torretta del PULLINO, dove sul bocchettone di accesso, una martellata aveva spezzato un piccolo pezzo di fusione. E’ vero che mancavano le lapidi nell’atrio, ma visto che tutto era stato ripulito, pochi ci fecero caso.

Era stata adottata la tecnica già collaudata di operare in un giorno festivo, il che presumeva la quasi sicura assenza di testimoni. Gli unici, terrorizzati, erano stati i custodi Zetto che nulla avevano potuto fare per impedire lo scempio.

In una recente visita alla sede delle Comunità Istriane di via Belpoggio a Trieste, percorrendo un corridoio, il mio sguardo viene attirato da una fotografia a colori incorniciata e appesa al muro. E’ un lavoro del noto fotografo triestino Ceretti che per molti anni aveva avuto lo studio in Corso Italia. Aveva immortalato l’immagine di un elegante pannello di legno pregiato, sul quale era stato incollato un frammento di marmo contenente circa quattro lettere scolpite. Su una targa di ottone satinato, era stato inciso il seguente testo:

GIA’ LAPIDE

NEL LICEO “COMBI” DI CAPODISTRIA RICORDAVA SUOI FIGLI CADUTI
NELLA GUERRA 1915 – 1918
PER LA REDENZIONE DEI POPOLI DI QUA E DI LA DELLA GIULIA
LA INFRANSE il 5 – 2 – 1950
LO STESSO MARTELLO CHE PRIMA AVEVA DISTRUTTI I VENETI LEONI DI DALMAZIA
ED E’ UNA DELLE TANTE DOLOROSE IMPRONTE LUNGO IL CALVARIO DEGLI ISTRIANI OGGI

QUESTO FRAMMENTO

Rimane un mistero l’identità del possessore del cimelio, quasi sicuramente un capodistriano, che mi auguro continui a custodirlo gelosamente. Dell’indegna azione di oltre mezzo secolo fa, rimaneva quindi solo questa piccola reliquia.

Non era vero. Si viene così a sapere che anche Paolo Grio, allora bambino, era in possesso di un altro pezzo (leggermente più piccolo) della lapide distrutta e che un suo fratello maggiore era riuscito a recuperare poco prima che il materiale venisse buttato. Grazie alla sua disponibilità abbiamo fotografato anche questa scheggia, della quale, come per la precedente, si è riusciti a conoscere anche la posizione nel testo.

Il collage non è riuscito perfettamente perché, non essendo in possesso di una fotografia originale della lapide, si è utilizzata la ricostruzione grafica del dott. Aldo Cherini, tratta da un suo libro.
Ci rimane comunque questa unica importante memoria del proclama di Pio Riego Gambini, caduto sul Podgora e il cui corpo non venne mai ritrovato.

Quello che resta della sua erma che faceva bella mostra di se in Belvedere, giace da più di cinquanta anni nei magazzini di Palazzo Tacco, ora sede del Museo Regionale. La sua testa, staccata di netto il 16 agosto 1946, da un gruppo di scalmanati guidati dallo studente capodistriano Emilio Cralli – Kralj, per fortuna venne recuperata. Ora è appoggiata al busto e si nota ancora l’impronta del taglio. La polvere che lo ricopre fa una strano effetto: la statua sembra piangere.

Piero Valente