Avvenire 06/11/05
A trent'anni di distanza dal Trattato di Osimo che nel 1975 sancì il distacco dall'Italia, gli storici restano divisi sulla decisione. E per molti ex esuli l'intesa resta un tradimento
Cedere l'Istria fu inevitabile?
da Trieste Francesco Dal Mas
Il Trattato di Osimo, a trent'anni di distanza, resta «infame», come fu definito all'epoca? La cessione alla Jugoslavia della Zona B dell'ex Territorio libero di Trieste, passate le contrapposizioni del tempo, appartiene ancora alla categoria del «cedimento-tradimento» o a quella della «necessità dolorosa ed inevitabile», secondo i due schieramenti che divisero non solo Trieste, ma l'Italia intera?
Le passioni che s'infiammarono con quel 10 novembre 1975, la data appunto degli accordi di Osimo, non si sono ancora spente. Nella città di Trieste per i sommovimenti politici che comportò. (Basti ricordare la «Lista del melone» che s'insediò con Manlio Cecovini sullo scranno più alto del Comune). Ma soprattutto fra gli ex esuli italiani, che continuano a sostenere di essere stati abbandonati dal loro Paese.
«Guardato trent'anni dopo, il trattato di Osimo appare un po' meno «infame» e si conferma un po' più vera la motivazione della «dolorosa, ma inevitabile necessità per il tributo da pagare all'unità europea e alla pace» è il giudizio di Corrado Belci che da triestino e da parlamentare dell'allora Dc collaborò alla definizione del trattato. Belci, all'epoca molto vicino ad Aldo Moro, che volle con fermezza quell'intesa, è infatti convinto che senza questo passaggio sarebbe stato più difficile costruire la nuova Europa. Per lo storico Paolo Simoncelli, invece, il Trattato si è rivelato un inutile e, al tempo stesso, pesantissimo sacrificio. E non gli si può certo attribuire alcun merito nell'apertura dell'Europa, «avvenuta solo in seguito al crollo del muro di Berlino e a quanto verificatosi successivamente nell'ex Jugoslavia».
Osimo sancisce il trasferimento alla Jugoslavia dell'Istria nord-occidentale, riconoscendo lo stato di fatto venutosi a creare dopo la fine della Seconda guerra mondiale. «Oggi si vede meglio – afferma Belci – che il possesso materiale della zona B da parte della Jugoslavia non era modificabile «né con il consenso né con la forza», come disse Moro all'atto della ratifica parlamentare del Trattato. Per alcuni l'alternativa era l'attesa dello smembramento della Jugoslavia, la sua decomposizione in stati nazionali, nel dopo-Tito, fenomeno poi avvenuto con le guerre intra-jugoslave. Avrebbe potuto essere l'occasione per riprendersi l'Istria.Ma abbiamo visto che fine hanno fatto queste velleità. L'alternativa reale che si poneva all'Italia era quella tra ricorrenti conflitti e tensioni (vedi 1970 e 1974) e una prospettiva di costruttive intese future. L'Italia scelse la seconda strada ben sapendo che, in quel momento, quella scelta comportava amarezza e dolore in una parte dei suoi cittadini». Per lo storico Simoncelli la verità è un'altra. «Probabilmente Moro, che è all'origine degli accordi di Osimo, da un lato non aveva una formazione intellettuale risorgimentale», afferma lo studioso che all'università ha conosciuto da vicino l'allora uomo di governo. «Quindi non era sensibile, generazionalmente alla vicenda Trieste italiana. Non aveva il padre e lo zio che potevano essere stati sul Carso. Dall'altro, era il momento in cui personalmente Moro aveva avviato la corsa alla Presidenza della repubblica, per cui aveva bisogno di un sostegno convinto della sinistra. Ricordo personalmente che aveva paura esclusivamente dell' eversione di destra, sottovalutando quella di sinistra. Moro non ha mai parlato, in tutte queste circostanze, di rinuncia alla sovranità della zona B, ma preferiva riassumere, con le sue circonlocuzioni particolarmente ardite, che si trattava di un cambio di titolo giuridico. Cambiare il titolo giuridico significava evidentemente giungere a definire la sovranità statuale jugoslava». Simoncelli mette sotto accusa il Trattato anche perché «a fronte di una perdita di sovranità non c'è stata la minima applicazione di garanzia alla minoranza italiana rimasta nella ex zona B».
«Noi italiani potevamo applicare – rimprovera lo storico – quello che era stato il modello perfetto, internazionalmente riconosciuto, l'accordo De Gasperi-Gruber, ovvero la reciprocità. La sovranità jugoslava fu riconosciuta senza che venissero minimamente considerate le garanzie che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che si danno a tutte le minoranze». Belci riconosce il dramma patito dagli italiani. Ma insiste perché si considerino le prospettive. «Prendendo atto della nuova realtà, possiamo constatare – osserva -che una presenza italiana in Istria è rimasta, la cultura italiana è curata dalle comunità italiane presenti (in qualche caso con episodi di notevole significato), una cooperazione negli studi linguistici, nell'arte, nella letteratura, nel cinema e in altri aspetti della vita culturale si può sviluppare con interessi convergenti, anche negli effetti turistici, tra Italia, Slovenia e Croazia». Replica Simoncelli: «Di fatto, però, anche nel processo di associazione della Slovenia e della Croazia all'Unione europea i nostri governi non hanno dimostrato la necessaria fermezza per quanto riguarda i beni italiani; il potere contrattuale si è ridotto al lumicino». L'Italia di Osimo, insomma, è stata fin troppo rinunciataria? Trent'anni dopo sono in molti a ritenere di sì. Negli ambienti diplomatici si ricorda, addirittura, che l'allora ambasciatore italiano a Belgrado, Giuseppe Walter Maccotta, fu completamente scavalcato nelle trattative; i governi dell'epoca decisero di affidarsi a rappresentanti personali. Viene richiamata, al contrario, la Germania come esempio di resistenza in attesa dell'unificazione e del ritorno di Berlino. «Ma il confronto è improprio – puntualizza Belci -.Anche la Germania ha avuto la sua Osimo. I territori oltre l'Oder-Neisse, a cui la Germania ha rinunciato prima e dopo l'unificazione, hanno le seguenti proporzioni: tra Bradenburgo orientale, Slesia, Pomerania orientale, Prussia orientale (e Danzica), la popolazione tedesca era di 9 milioni e 757 mila unità. Da quei territori i profughi furono 6 milioni e 944 mila, i morti un milione e 220 mila, i rimasti un milione e cento mila. La crudezza della storia si percepisce meglio quando la si guarda nel suo insieme».
IL CONVEGNO
A Trieste studiosi e testimoni
Il 10 novembre 1975, a Villa Leopardi Dittaiuti ad Osimo, Italia e Jugoslavia firmavano il Trattato di Osimo. La Lega Nazionale e l'Unione degli Istriani, trent'anni dopo, promuovono una serie di iniziative per approfondire l'evento. Anzitutto, sabato 12 novembre nell'auditorium del Museo Revoltella di Trieste, danno «La parola a storici e giuristi»; al convegno partecipano Massimo de Leonardis, Giovanni Cavera, Roberto Spazzali, Maurizio Maresca, Fulvio Rocco. La giornata sarà conclusa alle 17.30 da una tavola rotonda tra politici e testimoni, moderata dai giornalisti Ranieri Ponis e Fulvio Fumis, con Antonino Cuffaro, Fulvio Depolo, Franco Franzutti, Giorgio Tombesi, Carlo Ventura, Renzo de' Vidovich. Alla Galleria del Tergesteo sarà inaugurata il 10 novembre alle 18 una mostra iconografica a cura di Piero Delbello.