“Carlo Stuparich: un eroe da riscoprire”
Il 30 maggio del 1916 il sottotenente Carlo Stuparich, che avrebbe compiuto 22 anni il successivo 3 agosto, è al comando del 3° plotone della 14a Compagnia del 4° Battaglione del 1° Reggimento della Brigata Granatieri di Sardegna, attestato sul ciglione del Monte Cengio, là dove esso digrada sulla Val Silà; da alcuni giorni egli vi si trova di avamposto in un’ “umida grotta” e da lì ha sentito “il bisogno di comunicare e ricordare” inviando il 27 una cartolina ad un’amica; da essa sappiamo che la pioggia insistente e continua gli fa per contrasto venire in mente l’estate ed il mare tanto amato.
L’ “offensiva di primavera” – che curiosamente la storiografia italiana preferisce chiamare con il termine tedesco di “strafexpedition” (spedizione punitiva), che invece la storiografia austriaca raramente usa – scatenata il 15 di maggio del 1916 dal generale Franz Conrad von Hötzendorf, Capo di Stato maggiore dell’esercito austriaco, ha già ottenuto importanti successi nei primi quattro giorni di battaglia lungo la direttrice nord-sud dell’attacco all’estremità occidentale del fronte, costringendo il generale Pecori Giraldi, comandante della 1a Armata, ad attestare le truppe su una nuova linea difensiva di molto arretrata rispetto alla precedente, con fulcro nel massiccio del Pasubio, che a prezzo di enormi sacrifici riesce però a tenere.
Dal 19 del mese l’epicentro dell’attacco diviene pertanto l’Altopiano dei sette comuni ed è qui che il generale Cadorna, Capo di Stato maggiore dell’esercito italiano, che sino all’ultimo non aveva creduto alla possibilità di una simile offensiva malgrado avesse ricevuto sin dal mese di marzo numerosissime segnalazioni della forte concentrazione di truppe che si stava formando, fa convergere dal fronte orientale la 30a Divisione, nella quale era inquadrata la Brigata Granatieri di Sardegna con i suoi due reggimenti, a riposo da un mese nella pianura friulana a nord di Palmanova.
A questo punto consentitemi però una breve digressione. L’offensiva della quale stiamo parlando, che voleva – non dimentichiamolo – essere risolutiva perché mirava alla pianura veneta ed a Venezia per poi prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano schierato sul fronte orientale, è la prima di questa portata dell’esercito austriaco durante la prima guerra mondiale ed inoltre è in assoluto la prima grande battaglia moderna in montagna. Essa infrange le convenzioni strategiche del tempo – abbiamo già detto che Cadorna fino all’ultimo non ci voleva credere – e si connota per i suoi tratti di forte originalità, perché all’epoca i regolamenti di impiego non prevedevano che in montagna si operasse con grandi unità; è di tutta evidenza pertanto che la sua pianificazione non poteva che essere frutto di studio lungo ed approfondito nonché di accurata preparazione. Se teniamo conto che Conrad diventa Capo di Stato maggiore il 18.11.1906 e che negli anni precedenti era stato comandante di Divisione nel Trentino, è legittimo ritenere per ovvia conseguenza che Conrad sicuramente, e gli alti comandi austriaci probabilmente, avevano già predisposto piani di attacco complessi ed articolati contro l’Italia fin dai primi anni del ‘900, in un periodo cioé in cui l’Italia nemmeno si sogna di fare altrettanto, perché con l’Austria è alleata nella Triplice fin dal 1882. Anche alla luce di tale considerazione mi permetto di richiamare alla vostra attenzione la straordinaria e lungimirante lucidità politica di Guglielmo Oberdan – repubblicano e mazziniano – che proprio in segno di protesta ed ammonimento contro la stipula di tale Alleanza, ha voluto coscientemente interporre il proprio sacrificio tra il regno d’Italia e l’impero d’Austria. Il doveroso riferimento a Guglielmo Oberdan è sì di carattere storico-politico, ma esso è anche funzionale alla vicenda umana di Carlo Stuparich; il compagno di Guglielmo Oberdan, a lui vicino nella preparazione dell’ultima missione, è stato infatti l’istriano Donato Ragosa, legato da rapporto di amicizia a Marco Stuparich, padre di Carlo.
Il 21 maggio quando i Granatieri, risalita la Val Canaglia, arrivano sull’Altopiano incrociano ciò che è rimasto delle truppe che presidiavano le sue linee di difesa settentrionali in ritirata disordinata, frammisto ai profughi dei paesi dei Sette comuni in fuga. Mentre la ritirata spesso diventa rotta, viene faticosamente apprestata una nuova linea difensiva; alla Brigata Granatieri di Sardegna tocca l’estremità occidentale che si incardina sul nodo del Cengio, “una fortezza naturale” come la definisce il generale Giuseppe Pennella, comandante dei granatieri. Nei giorni successivi vengono apprestate tutte le difese fortificate che la mancanza di mezzi rende possibili. Il 28 il generale Pennella ridispiega la Brigata, in esecuzione di un ordine ricevuto dal comando della 30a Divisione, ma tale decisione, forse causata dalla insufficienza delle artiglierie e, comunque, al centro di furiose polemiche che continueranno per anni, si rivela impropria ed è alla base del dramma che sta per compiersi. Il 29 gli austriaci – che dispongono di una straripante superiorità di fuoco delle artiglierie – cominciano infatti ad infiltrarsi sul pianoro del Cengio dalla sua parte settentrionale, e cioé dalla Val d’Assa, e si impossessano di Punta Corbin; malgrado il parere contrario del generale Pennella viene dato ordine di rioccuparla. L’azione di tre Compagnie del 2° Granatieri inizia nella notte e prevede la risalita della Val Silà, la ricongiunzione con i pochi effettivi già schierati sul ciglione settentrionale del Monte Cengio, tra i quali c’è appunto il plotone al comando di Carlo Stuparich, ed infine l’attacco a Punta Corbin. Verso le sette del 30 inizia l’attacco e la lotta divampa furiosa sino alle undici, quando il comandante dell’azione, ten. col. Camera, dopo aver constatato che il continuo afflusso di nuove truppe nemiche rendeva impossibile la riconquista di Punta Corbin, ordina la ritirata. Il cap. Morozzo Della Rocca – anch’egli Medaglia d’oro al valore per le azioni sul Cengio – non vede il plotone comandato da Carlo Stuparich ed invia una pattuglia per informarlo del ripiegamento La pattuglia non giunge a destinazione, né farà più ritorno al suo reparto e così Carlo Stuparich – che pure avrebbe avuto la possibilità di ritirarsi – resta al posto assegnatogli assieme ai suoi granatieri dove “di fronte a forze nemiche soverchianti, accerchiato da tutte le parti, senza recedere di un passo, sempre sulla linea del fuoco animò ed incitò i dipendenti, finché rimasti uccisi e feriti quasi tutti i suoi granatieri e finite le munizioni, si diede la morte per non cadere vivo nelle mani dell’odiato avversario“.
Le ultime parole sono la citazione testuale della motivazione della Medaglia d’oro al valor militare, concessa nel 1918 alla memoria del sottotenente Carlo Stuparich ed ogniqualvolta le leggo non posso non ricordare le parole che Virgilio rivolge a Catone nel I canto del Purgatorio, anche perché Carlo Stuparich aveva studiato ed amato Dante.
“Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.”
Una figura quella di Catone che Dante esalta anche nella Monarchia dove dice che “Catone per accendere negli uomini l’amore della libertà, rivelò il valore ed il prezzo della libertà, poiché preferì, libero, uscire dalla vita che rimanervi senza libertà“.
Non paia improprio questo richiamo alla coerenza morale di Catone per come venne intesa da Dante, perché nel novembre del 1915 Carlo Stuparich, che si trova a Schio, inquadrato nella Territoriale, e che sta brigando per poter ritornare in prima linea con i suoi granatieri, riepiloga lievemente la sua vita passata: “quel poco di esperienza che mi hanno portato 21 anni di vita piuttosto isolata, è esperienza interna, di felicità morale“.
Felicità morale dunque, che non può essere raggiunta se non attraverso la coerenza del compimento del dovere, come la lezione umana della madre gli ha attraverso l’amore insegnato e come egli ha appreso dalla straordinaria testimonianza offerta da Guglielmo Oberdan, trasmessagli dai racconti del padre, che a sua volta li aveva uditi dall’amico Donato Ragosa, come abbiamo già ricordato ultimo compagno di Guglielmo Oberdan.
Ed ecco quindi che fin dagli anni della scuola – quel Ginnasio comunale che solo a redenzione avvenuta la città e gli studenti poterono intitolare a Dante Alighieri – Carlo Stuparich è estremamente rigoroso con sé stesso e più le cinque ore mattutine di lezione e le tre pomeridiane gli pesano, maggiore è la disciplina che si impone, come confida al fratello Giani: “Sai un periodo che ho patito più che mai ? La mia VIII ginnasiale [a.s. 1912-1913, ultimo anno della scuola superiore]. Eppure mi dovevi vedere a scuola: disciplina soldatesca. E più l’anarchia e l’andate alla malora mi turbinavano dentro, più mi disciplinavo di fuori.“
La letteratura e la musica sono però due importanti valvole di sfogo per il giovane studente che dimostra una straordinaria e sicura precocità di gusto.
Accanto alla letteratura tedesca, in particolare del romanticismo, sulla quale già si era formato il fratello Giani, di tre anni più anziano, nella sua biblioteca trovano infatti ampio spazio i classici latini e, soprattutto, greci che preannunciano i suoi studi universitari a Firenze. Accanto ad essi alcuni fondamentali classici della letteratura italiana come Boccaccio, Alfieri – in particolare la Vita – Foscolo e Verga, che completano l’interesse più propriamente scolastico per il già citato Dante ed il Leopardi. Grande attenzione egli rivolge inoltre ai saggi critici del Carducci e del De Sanctis, sentito come una sorta di padre spirituale e che egli preferisce addirittura a Croce, Gentile e Spaventa. É sempre Carlo nel 1911, quando cioé ha solo 17 anni, ad iniziare l’acquisto dell’opera omnia del Mazzini – che sarà completata dal fratello dopo la sua morte – che egli definisce in una sua lettera dalla trincea del gennaio del 1916 “tensione quotidiana verso il meglio” e di cui alcuni giorni dopo consiglia la lettura ad Elody Oblath affermando: “Egli era l’amore e la venerazione della mia seconda adolescenza, poi l’avevo un poco dimenticato, è ritornato a darmi fede ed ostinazione a dirmi della vita degna … Grande e puro Mazzini” Per Carlo Stuparich Mazzini rappresenta insomma una sorta di Bibbia laica, come si desume da una lettera del marzo del 1916 dalle trincee di San Floriano nella quale afferma “Io leggo magari una parola di Mazzini al giorno perché mi tenga caldo l’idealismo“.
Ma Carlo, a differenza del fratello, è fortemente attratto ed interessato dalla cultura inglese – in trincea nell’estate del 1915 legge Dickens – e francese; di entrambe si interessa non solo agli aspetti letterari ma anche a quelli storico-filosofici e non è un caso se nella sua biblioteca appaiono Locke e l’americano James, Montaigne e Pascal, Chateaubriand e De Maistre.
Come sappiamo da una affettuosissima lettera al fratello del 1912 e come è ovvio immaginare molto ha inoltre influito su Carlo la lettura de Il mio Carso, sentito però principalmente come metafora del rapporto uomo-natura: “Quando ebbi finito quel brano < Mi conosceva la terra su cui dormivo …> della 1a parte, avevo come un tremito, un singhiozzo. Ho sentito lì tante voci espresse che qualche volta avevo inteso dentro di me, confusamente, dinanzi a qualche spettacolo di natura. L’anima del Carso è sì l’anima del libro; Slataper ha penetrato assai quello spirito aspro, quel gigante impietrito e se lo è assimilato nella sua natura.“
Per quanto una consistente diminuzione di udito dovuta a causa di una malattia infantile – forse una scarlattina ovvero otiti mal curate – gli complichi la passione, Carlo Stuparich ama profondamente anche la musica; in una lettera da Firenze al fratello del dicembre del 1914 egli infatti afferma: “Per me il mondo deve avere poche parole e forti, la vita si riduce essenzialmente in musica, movimento visibile e sentimenti puramente interni.” D’altra parte nella famiglia Stuparich è consolidata la tradizione della Hausmusik, così come lo studio del violino è caratteristica non solo di Carlo Stuparich ma anche di altri letterati triestini come Svevo, Benco e Saba. Gli autori preferiti sono ovviamenti quelli classici con Bach in primo luogo, ma le sue riflessioni sulla musica soprattutto dopo l’incontro fiorentino con Giannotto Bastianelli, andranno al di là del codice specifico per assumere aspetti più ampiamente filosofico culturali; in una lettera da Firenze al fratello nel maggio del 1914 dice infatti: “É interessante questa lenta ma sensibile deviazione dal Croce verso il Gentile. Anche Bastianelli imbevuto di Croce, aveva diviso nella < Crisi > nettamente lo spirito in due momenti: nella pura esteticità e nel momento pratico della volontà, donde gli risultava una concezione piuttosto mistica della musica, la musica come contemplazione del mondo. E ora invece sente la musica come attività, in cui c’è dentro religione filosofia tutto lo spirito, attività che fuori di sé non ha niente, che per l’artista è tutto, unità che non si riferisce ad un fuori di sé.” Comunque anche dal punto di vista più strettamente musicale Carlo Stuparich dimostra una sensibilità tutta particolare che gli consente di prendersela con il gusto tardo romantico imperante all’epoca a Trieste e di scoprire le novità conosciute ed apprezzate da pochi, come quella, per esempio costituita dalla musica di Arnold Schönberg che rompeva con tutti gli schemi del passato.
Le poche cose che Carlo Stuparich riuscì a pubblicare sono alcuni articoli di argomento pedagogico sulla triestina “Voce degli insegnanti”, nei quali critica severamente il metodo di insegnamento austriaco, tutto teso a soffocare la personalità dello studente rendendolo ripetitore acritico ed annoiato degli schemi approvati dal Ministero, mentre condivide con entusiasmo il progetto educativo di Giovanni Gentile delineato nel suo “Sommario di pedagogia”, che sarebbe poi stato alla base della riforma realizzata nel 1923, quando il filosofo era divenuto ormai ministro.
Altri articoli di carattere filosofico e morale egli pubblica sulla “Voce” prezzoliniana e sono proprio questi ultimi, assieme alle lettere inviate dal fronte soprattutto negli ultimi mesi di vita nonché ai pochi frammenti ed al quanto mai scarno diario, a costituire il nucleo centrale e più interessante del libro postumo “Cose e ombre di uno”, che il fratello pubblicherà dolente dopo la fine della guerra e della sua prigionia.
Sono testi con i quali Carlo Stuparich giorno dopo giorno, tassello dopo tassello organicamente organizzati, tiene fede all’impegno, che coincide con un programma, intuito fin dagli anni della scuola ma dichiarato nel 1913: “Esame di esistenza meglio che di coscienza, perché coscienza è concetto troppo puro, troppo semplicistico, che ci illude su una nostra libera potenza sempre dilatabile, ci fa essere giudici ingiusti, che insomma ci fa trascurare massimi fattori determinanti. Poi il mio esame voglio che sia un tessere e non un disfare o fare liste di peccati e di meriti. Io sono un uomo piccolo, i miei fatti sono piccoli fatti, ma se da essi faccio procedere un’armonia esistenziale, cresco davanti ai miei occhi e mi chiamo buon compositore di vita …“
Ecco allora che per Carlo Stuparich il vociano “esame di coscienza” non può che essere velleitario e personalistico ripiegamento su sé stessi se non addirittura narcisismo, dal quale è possibile e doveroso fuggire esclusivamente attraverso l’atto, nel quale la coscienza personale si coniuga con i valori della cultura e della storia e con il compimento del proprio dovere liberamente scelto nei confronti della famiglia, della società, della patria.
Da quando giunge al fronte sopra Monfalcone nel giugno del 1915 e sino alla conclusione della sua breve vita, il suo esame di esistenza si connota – per non dire si trasforma, che sarebbe forse esagerato – per una serie di osservazioni che sono ad un tempo politiche e morali e che possono forse parere fuori del tempo per il loro timbro appassionatamente risorgimentale, ma che a me paiono genuinamente democratiche nel momento in cui Carlo Stuparich recupera con naturalezza e trasporta con spontaneità nella sua vita quotidiana di trincea gli ideali mazziniani del dovere, del sacrificio, dell’azione:
– “…adesso è epoca di dovere e sacrifizi…” (1.6.1915)
– “Italia mia … ora non si parla più indarno. Non si deve ammirare, si deve lasciare che facciamo semplicemente…” (11.7.1915)
– “La guerra d’Italia era necessaria in questo momento.” (25.7.1915)
– “Anche la morte non è la stessa in ogni modo. C’è una morte italiana e ci sono altre morti. Ma soltanto quella può e deve essere la nostra.” (9.11.1915)
– “In questo giorno sereno e luminoso, la mattina ho letto Cadorna e a mezzogiorno la morte di Scipio. La seconda impressione ha integrato e consolidato la prima. Tutte e due sono impressioni di semplice energia libera da titubanze morali, da rimpianti, da nostalgie domestiche. Operiamo in questo momento tutto quello che abbiamo idea di operare tra mesi ! Siamo padroni solo del presente. Dobbiamo dire: noi facciamo, no noi faremo. E quale può essere la nostra migliore attività in questo momento ?” (21.12.1915)
– “Bisogna vivere o morire per sacrificio a ciò che è tanto più grande, e assai più vale di noi; non per sacrificio a noi stessi.” (22.12.1915)
– “Noi facciamo quello che dobbiamo fare.” (22.2.1916)
– “Qui ci raccogliamo …. per non restare ai margini della nostra storia.” (28.3.1916)
– “Certo, talvolta davanti a questa fioritura primaverile il tuo animo s’intenerisce e la guerra gli pare assurda, e antipatica la violenza. Ma la storia restituisce presto l’orgoglio di nazione e il senso della necessità di questi urti e di queste accensioni.” (6.4.1916)
– “Come andrà ?” (27.5.1916)
Mi sembra quindi che il pensiero di Carlo Stuparich, dal quale come si è visto sono del tutto assenti le connotazioni forti e talvolta esasperate che caratterizzano invece altre voci come quelle, per esempio, dei nazionalisti, dei futuristi, dei dannunziani, debba a buon diritto essere inserito in quello che gli storici definiscono “interventismo democratico”, ed è proprio in tale senso che il titolo della conferenza, “un eroe da riscoprire”, assume il suo significato. L’interventismo democratico ha infatti ben poche voci forti e le più originali ed incisive – penso ovviamente a Carlo Stuparich ed a Pio Riego Gambini – vengono dalla guerra spazzate via assieme ad una generazione intera. Quale sarebbe potuto essere il loro contributo alla vita politica e culturale della nostra città negli anni successivi alla conclusione della guerra, in particolar modo in quelli dell’equilibrato governatorato militare del gen. Petitti di Roreto ?
Nessuno – ovviamente – può rispondere a tale domanda, ma consentitemi – e corro volentieri il rischio di commettere un peccato di ingenuità – di pensare che la storia di Trieste forse sarebbe stata migliore, perché in essa avrebbero trasfuso la stessa intelligenza, la stessa coerenza, la stessa moralità delle quali hanno dato una testimonianza che fa ormai parte della storia patria durante la prima guerra mondiale ovvero, come io preferisco, durante la quarta guerra di indipendenza.
Conferenza tenuta al Circolo Ufficiali di Trieste il 7.4.2005
Manifestazione promossa dalla A.N. Granatieri di Sardegna – Sezione di Trieste “Carlo e Giani Stuparich”
Prima di iniziare consentitemi di ricordare la figura del generale di Artiglieria Mario Paolo Sardos Albertini, capodistriano, patriota e persona straordinariamente per bene, scomparso l’altro giorno a Verona e, per quanto sia ben cosciente che si tratta di piccola cosa, di dedicare alla sua memoria questa conferenza.