Cosa sono stati i 40 giorni di occupazione jugoslava di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale.
Quattro persone che facevano parte del corteo rimasero uccise dal fuoco dei soldati jugoslavi, oltre quaranta furono portate in ospedale ferite
Pallottole sulla folla, e il selciato di via Imbriani si tinse di rosso
Il 5 maggio 1945 la guerra non si era ancora allontanata dalla Venezia Giulia. A pochi chilometri dal capoluogo giuliano si combatteva: a San Pietro del Carso stava trincerato il 97° Corpo d’Armata del generale Kuebler, ora subordinato al Gruppo d’Armate E del generale Loehr, di stanza a Zagabria.
Nella periferia di Trieste i combattimenti erano cessati due giorni prima, ai quali aveva fatto immediato seguito l’assunzione dei poteri da parte del generale Dušan Kveder, affiancato da Giorgio Jaksetich e Franc Štoka, leader indiscusso dell’Osvobodilna Fronta. A Trieste e a Gorizia subito erano state organizzate le manifestazioni, uniche ammesse, inneggianti Tito e l’annessione alla Jugoslavia.
UNA CITTA’ DIVISA. Tito aveva avanzata una formale richiesta al generale Alexander con la quale chiedeva il ritiro angloamericano dal territorio della Venezia Giulia: dal 3 maggio Trieste è divisa al suo interno da una sorta di linea di demarcazione: il porto e il lungomare urbano, separati dal resto della città col filo spinato, sono controllati dai Britannici, il rimanente agli Jugoslavi.
In questo clima maturano i «fatti del 5 maggio», in una combinazione di episodi, casualità e coincidenze.
Il 3 maggio la città aveva visto una prima manifestazione, pomeridiana, filojugoslava, animata tanto dalla popolazione delle contrade periferiche, quanto da quella dei rioni operai. Nella stessa giornata alcuni gregari del Cln e della brigata azionista «Pisoni», guidati dal dott. Callipari, che tre giorni prima aveva occupato e difeso il Palazzo del Governo, si radunano in piazza Garibaldi per dare vita a una manifestazione, bandiera italiana in testa, Il corteo s’ingrossa lungo la via ma viene intercettato da militari jugoslavi alla cui reazione si sbanda disperdendosi.
5 MAGGIO: IL GENERALE CLARK A TRIESTE. Nel corso della mattina del 5 maggio si sparge la voce di una manifestazione italiana in Piazza dell’Unità: effettivamente in piazza si stava svolgendo una manifestazione di donne e lavoratori italiani ma appartenenti alle organizzazioni filojugoslave.
Proprio là una folla consistente si è formata in piazza dell’Unità e fa da argine, più che da ala, ai manifestanti filojugoslavi. Qualcuno inizia a scandire il nome di «Italia». Secondo una versione una donna allora annodò un fazzoletto tricolore italiano al collo di un soldato neozelandese e questi venne issato sulle spalle di alcuni giovani che si diressero, seguiti da altra gente, verso l’Hotel de la Ville, dov’era installato il comando della 9th Brigade neozelandese.
Su quanto accadde davanti all’albergo ci sono alcuni documenti fotografici e cinematografici assai interessanti: in una serie di fotografie scattate da operatori britannici si vede una piccola folla davanti l’ingresso e in mezzo a essa una bandiera italiana. Nelle sequenze successive si può notare l’uscita dall’edificio del generale Mark Wayne Clark, comandante della V Army US, accompagnato da ufficiali britannici, che allarga le braccia come se volesse aprire la folla. Clark era a Trieste dal giorno prima. Non è un generale qualsiasi, ma colui che aveva liberato Roma.
In un breve spezzone cinematografico si vedono distintamente le seguenti sequenze: alcune persone tracciano indisturbate delle scritte filojugoslave sulla facciata dell’albergo; una sentinella neozelandese li osserva. Poi le immagini si fanno più mosse e frettolose. L’operatore non riesce a tenere l’obiettivo su una sola inquadratura, per cui decide di riprendere tutto quanto vede. Così entrano in sequenza: alcuni soldati jugoslavi che imbracciano fucili e mitragliatrici e in lontananza delle persone in abiti civili che si allontanano a passo svelto in direzione di corso Cavour. Cambia bruscamente la scena e l’operatore inquadra, distante e alle spalle, due individui che si allontanano con passo deciso verso piazza d’Unità: uno dei due stringe in mano qualcosa che sembra una bandiera italiana. Come se l’assembramento fosse stato sciolto in seguito ad un intervento di forza.
I BERSAGLIERI IN PIAZZA GOLDONI. Secondo alcune ricostruzioni, la folla risale il tratto iniziale di via Mazzini e parallelamente quello del Corso. In prossimità delle vie Cassa di Risparmio, Roma e San Spiridione, la gente confluisce nella principale arteria raggiungendo rapidamente piazza Goldoni sostando nei pressi via Pellico, già sede del «Piccolo». A un balcone si affacciano tre giovani e uno di questi, Bruno Gallico, ex ufficiale dell’esercito italiano, tiene un breve discorso inneggiante i vincoli italiani di Trieste alla madrepatria. Il tutto avvenire sotto lo sguardo di diversi militari jugoslavi appostati alle finestre. La situazione è tesa ma nulla lascia presagire una drammatica svolta.
In piazza Goldoni accade un altro episodio, mai citato nella letteratura e recentemente emerso da un documento del Cln: improvvisamente sopraggiunge un automezzo con a bordo una ventina di bersaglieri italiani di scorta alla salma del tenente Galliano Marchioli, goriziano di origine ma triestino di adozione, del Gruppo di combattimento «Legnano», battaglione «Goito» del Corpo italiano di liberazione, caduto a Bergamo per fatto di guerra il 3 maggio 1945. La folla riconosce il guidoncino sul parafango, circonda l’automezzo invocando l’Italia e su molte finestre compaiono bandiere italiane. I militari italiani, però, proseguono per il cimitero e la folla, oramai imponente quanto eterogenea, si muove nuovamente verso l’inizio del Corso; alcune voci volevano che il corteo marciasse verso piazza dell’Unità, ma è più probabile che intendesse raggiungere, attraverso via Imbriani, il sacello di Guglielmo Oberdan.
VIA IMBRIANI: QUANTE VITTIME?
Proprio dalla via Imbriani esce una pattuglia jugoslava accantonata nell’atrio di palazzo Diana, mentre un’altra risale il Corso disponendosi a terra in posizione di tiro. Vengono esplosi diversi colpi in direzione del corteo e con l’intenzione di colpire ed uccidere. La folla si sbanda: sul selciato rimangono Graziano Novelli, di anni 30; Carlo Murra, classe del 1927, studente del «Da Vinci» ; Mirano Sanzin di anni 26. Claudio Burla di anni 21, studente dell’Istituto Magistrale morirà quattro giorni più tardi. Claudio Burla quattro giorni prima era stato tra gli insorti del Corpo volontari della libertà, nella brigata «Timavo» agli ordini del capitano Rodolfo Orel. Anche il giovane Murra aveva contribuito all’insurrezione. Si diffuse la voce che le salme raccolte erano state sepolte in una fossa comune. Dagli atti notori si apprende che la sparatoria avvenne alle ore 11.30 del 5 maggio; dodici giorni più tardi il Cln giuliano inviò alle famiglie delle vittime le partecipazioni al cordoglio.
Sulla lapide posta in via Imbriani nel 1947 compare pure il nominativo di Giovanna Drassich, ma è frutto di un’errata trascrizione, in quanto la signora spirò alle 5 di mattina del 5 maggio, all’Ospedale Maggiore dov’era stata ricoverata in precedenza per una ferita d’arma da fuoco.
Oltre una quarantina i feriti accertati. Molti altri ricorsero alle cure del medico di famiglia per evitare la segnalazione del ricovero. In documento del Cln viene indicato tra i morti il nominativo di Vittoriano Stefani, originario di Cherso, ma non sembra trovare conferma.
CHI SPARO’ E PERCHE’? Per quanto si può dedurre dalla letteratura, vengono esplose non meno di tre scariche, sentite distintamente da Quarantotti Gambini che si trovava in quel momento in piazza della Borsa e che vide, dopo la seconda, la folla ondeggiare e cercare riparo nei portoni degli stabili.
Probabilmente vennero sparati dei colpi di fucile dalle finestre del «Piccolo» a scopo intimidatorio e in direzione dello stabile che ospita il caffè Italia. Sulla facciata di un piccolo stabile del Corso, quasi sull’angolo di piazza Goldoni, fino a pochi anni fa si notavano ancora dei fori di proiettile ma di difficile attribuzione, poiché nella medesima direzione aveva sparato quattro giorni prima una mitragliera tedesca.
Poco o nulla si sa sulla composizione e sull’identità degli sparatori e su chi decise ed ordinò di aprire il fuoco.
GLI ANGLOAMERICANI NON CAMBIANO OPINIONE SU TITO. Le ricostruzioni hanno offerto versioni anche contrastanti sull’esatta direzione del corteo ma non sull’opinione che esso segnò un netto punto a sfavore di Tito: l’eccidio di via Imbriani scuote più la popolazione locale che gli alleati angloamericani: l’indomani gli Americani alzeranno la propria bandiera sul pennone del castello di San Giusto, e la banda scozzese si esibirà pubblicamente sul tratto di Rive dirimpetto l’albergo Savoia Excelsior, occupato dai Britannici. Il fatto di sangue non cambiava affatto opinione ed atteggiamento negli angloamericani, salvo che per le osservazioni sull’invadenza di Tito nelle zone attribuite al controllo occidentale.
Certo è che in seguito alla manifestazione, si dovettero registrare una ondata di nuovi arresti per opera dell’Ozna e della Guardia del popolo, e la generica proibizione di ogni manifestazione pubblica.
PER I FILOJUGOSLAVI ERA STATA UNA PROVOCAZIONE «NAZISTA». Già l’indomani «Il Nostro Avvenire» imbastì tutto un teorema non sulla premeditazione «fascista» nella manifestazione ma di una provocazione della Gestapo hitleriana, esibendo sulla stampa alcuni documenti rinvenuti addosso ai feriti e nei pressi nel luogo dell’eccidio, giustificando così la reazione col pretesto che la città si trovava ancora in zona di guerra, per cui la repressione era assolutamente legittima.
IL CLN DAVANTI ALL’IPOTESI DI SOMMOSSA. È stata attribuita al Cln la paternità della manifestazione e nel 1951 Antonio Fonda Savio confermò pubblicamente l’opinione confutando Federico Pagnacco che aveva inteso sminuire l’apporto.
Nel 1951 Fonda Savio rivelò sulla stampa che tre mesi più tardi, il 5 agosto (quindi conclusa la conferenza di Postdam e note le risoluzioni) si tenne a Trieste la prima grande manifestazione di commemorazione dei caduti di via Imbriani: il corteo era guidato dagli stessi uomini che stavano in prima fila il 5 maggio ma non poté deporre le corone sul luogo dell’eccidio, anzi dovette aprire con fatica la strada verso il Corso, presidiato in forze da elementi comunisti e filojugoslavi. Scoppiò un violento tafferuglio e le corone furono infine deposte nel luogo dove oggi c’è la lapide: fu collocata una targa provvisoria dirimpetto. Quello scontro, però, diede convinzione ai partiti del Cln che era giunto il tempo di contendere la piazza agli avversari, potendo contare su un largo seguito finalmente uscito allo scoperto e deciso a dare voce ai propri sentimenti nazionali.
da “Il Piccolo” 4 maggio 2005 di Roberto Spazzali