La fine di Mussolini e del suo Governo
Molto controversa e ancora oggi avvolta in un fitto mistero è la fine del Governo della RSI. L’unico fatto documentato nel mare di frottole sparse a beneficio dei partecipanti all’oscura vicenda è un filmato di pochi minuti girato da un privato sulla piazza di Dongo in occasione della strage dei ministri repubblicani e di alcuni altri personaggi minori. Attraverso quel documento sicuramente originale almeno sappiamo come sono morti quegli eroici militari e civili fedeli fino all’ultimo alla parola data. Senza quella prova certa chissà quale fine gli avrebbero fatto fare a quei poveretti dopo averli trucidati come cani. Ma della cattura e della fine del Capo del Fascismo manca ogni documentazione o almeno non si trova traccia. Fatto molto strano perché la macchina fotografica fu inventata ben prima e di ogni episodio storico abbiamo non una ma centinaia di fotografie. E’ legittimo sospettare che le foto ci siano ma non siano in linea con la versione che si è voluta dare agli avvenimenti. Forse alle Botteghe Oscure in qualche cassetto segreto c’è qualcosa. Chissà, un giorno, causa la rottura di un tubo dell’acqua … Le foto ufficiali cominciano dunque da Piazzale Loreto (e non si possono più cancellare, vero, onorevole D’Alema?), ma prima, in tutto quel tempo in cui Mussolini fu nelle mani dei partigiani non c’è uno straccio di documentazione. Solo chiacchiere, affermazioni l’una in contrasto con l’altra. Tutti eroi adesso che il leone è in gabbia. Ma prima … Non una foto piccola così. Perché? Perché? E perché nessuno ne parla come fosse la cosa più naturale del mondo? Tirate fuori le foto, signori partigiani, su tiratele fuori. Avete paura che vi cada la corona? Vediamo allora di ricostruire noi le ultime ore del Governo della RSI seguendo il buonsenso e la logica che sono, in assenza di documentazioni probanti, l’unica via da seguire. Scopriremo assieme la verità a lungo nascosta. Sappiamo (ma gli “storici” lo ignorano) che Mussolini disponeva di tre aerei (un SM 79, un SM 81, un Cant Z 506) sempre pronti a portarlo in Spagna, ma che non li volle usare. Sappiamo che la Svizzera si rifiutò persino di dare asilo ad Anna Maria, la figlia poliomielitica del Duce. Sappiamo dunque che il Duce non voleva e non avrebbe potuto fuggire. Chi parla di fuga è in malafede, ma tutti i libri lo fanno.
Partiamo da Milano, dalla Prefettura di Corso Monforte in cui il Capo del Governo si è portato da Gargnano nell’estremo tentativo di agevolare un indolore passaggio di consegne ai nuovi detentori del potere. Trova costoro, ma non sentono ragioni, vogliono vendetta, non giustizia, sono belve assetate di sangue. Pertini è il più inflessibile. Per lui Mussolini deve essere ucciso come un “cane tignoso”. Altro che passaggio di consegne. Mussolini è un eterno ingenuo (basta la vicenda di Villa Savoia per capirlo), ma non al punto di non capire che lo vogliono morto, anzi vorrebbero portarlo a piedi fra gli sputi e le percosse per le vie di Milano perché hanno già deciso di appenderlo in piazzale Loreto. Non lo sa, ma lo intuisce dagli sguardi truci dei suoi interlocutori. Niente resa al CLN, bisogna pensare ad un’altra soluzione che salvi non lui ma i suoi fedeli. In Prefettura ha appreso che Wolff si è arreso lasciandolo all’oscuro di tutto. Si sente tradito e circondato. Chissà la sorte che quel bravo Wolff gli ha riservato. Prende la decisione di far presidiare la città dal corpo più neutrale delle sue Forze Armate, la Guardia di Finanza Repubblicana, abbastanza forte per reggere quel peso. E si avvia verso la famosa Ridotta della Valtellina, la RAR, Ridotta Alpina Repubblicana, che gli era stata proposta dal Federale Porta e caldeggiata dal fido Pavolini, il Segretario del Partito di cui (a ragione) si fida ciecamente. Gli dicono che la Ridotta è approntata. Si parte. La città è calma e l’intero viaggio fino a Como, prima tappa verso la mitica Ridotta, si svolge senza problemi. I partigiani sono ancora sulle montagne.
Poi, forse preoccupato dalle notizie che gli forniscono informatori in malafede, Mussolini sembra improvvisamente cambiare programma, ma, come sempre, non si confida con nessuno. Non si capisce cosa aspetti a partire. Il tempo passa e lui non si muove dal lago. La strada per la Valtellina è libera e ogni ora che passa può essere fatale. Pare che aspetti un segnale che non arriva. Finalmente saluta la moglie Rachele e se ne va da Como senza neppure avvertire Pavolini. Cosa ha in mente? Adesso, non vedendolo arrivare, i presidi lungo la strada per la Valtellina anziché essere rinforzati (a Como sono acquartierati 5.000 uomini) sono stati ritirati. A Dongo c’era una ventina di uomini della Brigata Nera di Como. Ritirati anche quelli. Dongo, passaggio obbligato per arrivare a Sondrio, può venir occupata dai partigiani azzurri della 52° Brigata costituita anche da finanzieri che hanno aderito al CLN e sono fedelissimi al colonnello Malgeri. Si sistemano nel Municipio da dove è appena uscita la Brigata Nera. Fanno un posto di blocco senza convinzione e aspettano gli eventi. Ma forse qualcuno di loro sa che è in arrivo l’uomo che aspettano. L’uomo da consegnare secondo i patti agli americani. Sta scritto negli accordi di Yalta e perfino il CLN di Milano è d’accordo, come rivelerà quasi in punto di morte Leo Valiani, uno dei grandi capi del CLN.
Adesso, messo da parte il sogno dell’ultima barricata su cui cadere “con il sole in faccia”, il Duce ha in testa una sola idea. Vuole evitare ogni ulteriore spargimento di sangue. Ormai sarebbe inutile. E poi c’è il domani. Meno ne rimangono di vivi fra i suoi fedelissimi e più duro sarà il futuro del Fascismo e dell’intera Nazione. “Se avranno me, gli altri saranno salvi. Morto me sarà tutto finito.” (Povero Benito, tu non li conosci i comunisti, sono passati sessanta anni e ancora ti danno la caccia a te e ai tuoi fedeli soldati, macché soldati, bande di delinquenti, sono loro i veri, gli unici, combattenti). Prende la decisione di consegnarsi e pensa subito alla sua Guardia di Finanza ancora in armi a Milano e anche su, nelle stazioncine di montagna. Ma come trovare un contatto? Lo troverà, ma solo dopo aver penato per ore e ore nell’autoblinda del Federale di Pistoia Idreno Utimperghe, mentre il terzetto dei suoi “amici” tedeschi (Birzer, Kisnatt e Fallmayer) studia il modo di venderlo al nemico al miglior prezzo. Una volta nelle mani della Guardia di Finanza col patto di essere consegnato agli americani che dovranno processarlo e ai quali potrà mostrare le carte compromettenti di Churchill, prima si meraviglia che l’abbiano arrestato (“Ma no, Eccellenza, Vi abbiamo solo fermato” gli dirà scusandosi il brigadiere Antonio Scappini), poi ringrazia per iscritto per il buon trattamento ricevuto. E’ molto strano che i finanzieri che lo hanno in custodia esigano questa dichiarazione, ma nessuno sembra poi averci fatto tanto caso. Di certo qualcuno l’aveva pretesa. Perché? Rimane disciplinatamente in attesa della consegna agli americani che tardano ad arrivare, quando all’improvviso viene rapito da un certo capitano Neri, alias ragionier Canali, che lo fa suo prigioniero personale e per non farselo portar via a sua volta (in giro ci sono almeno tre pattuglie alla caccia del Capo della RSI, una è americana, l’altra è inglese, la terza comunista) lo conduce da certi suoi amici che lo devono ospitare per la notte con tutti i riguardi, lui e la sua compagna che ha voluto seguirlo invece di prendere l’aereo ch’era pronto per lei con destinazione Madrid. I coniugi De Maria, due quarantenni, brave persone che nessuno sospetterà abbiano in casa il Duce che tutti cercano e non trovano, non sanno con chi hanno a che fare, ma eseguono gli ordini del Canali e cedono la loro stanza per la notte ai due personaggi di riguardo. Canali, prima di andar via nella notte, mette due suoi fidati alla porta della stanza. Non devono lasciare entrare nessuno per nessun motivo. Del resto chi ci arriverebbe fin là? Il Duce consegna ad un prete partigiano un paio di pagine scritte poco prima. Il prete emigrerà in Sud America e del documento non si saprà più nulla. Chi lo ha in mano? E perché si rifiuta di esibirlo? Da questo momento comincia il mistero fitto come la pece. Chi viene all’alba (verso le 5 e mezza) a prelevare i due prigionieri? Canali e la sua amica Gianna? Chi spara a bruciapelo sui due davanti alla stalla della palazzina dei De Maria? Neri e Gianna? O piuttosto il Commando inglese guidato dal fantomatico capitano John e con al seguito il partigiano (e futuro ingegnere) Bruno Lonati? La morte risale nella autopsia di medici neutrali (quelli ufficiali vennero chiamati a sottoscrivere la pura versione ufficiale dei fatti) alla mattina molto presto. Invece la versione fabbricata poi a tavolino la fa risalire al pomeriggio e come avvenuta in un luogo di comodo dove il “giustiziere del popolo” avrebbe pronunciato una sentenza “in nome, appunto, del popolo” del quale, da sempre, i comunisti si ritengono gli unici legittimi rappresentanti. Ma anche questa volta il diavolo dopo aver fatto le pentole, non fa i coperchi. Bisognerà rimboccarsi le maniche e ricostruire ex novo la sceneggiatura della cattura e dell’esecuzione del mostro. Quel mostro che non ha permesso agli amici del compagno Stalin di spadroneggiare nel nostro Paese fin dal 1922.
La sceneggiatura deve avere uno scopo preciso. Passare il Duce per un vigliacco e uno spaccone, un traditore del popolo. Infatti è il dopo che preoccupa gli sceneggiatori. Se no sarebbe facile. Ormai è morto e più che morto non si può. Passata la buriana, gli italiani, tutti gli italiani non solo i fascisti, ricorderanno il grande uomo che li salvò dal comunismo e che costruì città e palazzi di cui rimane il segno in ogni angolo d’Italia. Bisogna evitare che gli facciano un monumento. Pazienza gli americani che lo hanno sempre avuto in simpatia e che se lo avessero preso gli avrebbero fatto un processo all’acqua di rose riconoscendogli più meriti che colpe (guai se l’avessero preso, ossia salvato, lo ammette perfino un D’Alema). Ma gli italiani, agli italiani bisognava pensare.
Cosa gli facciamo dire davanti al nostro plotone d’esecuzione (che non è mai esistito)? Che lui si sentiva uno schiavo di Hitler e lo seguiva come un cagnolino segue il suo padrone? Ma no, è troppo poco. Ci vuol altro. Ci vuole la promessa “Ti darò un impero se mi liberi”. Questa avrà più presa, piacerà di più. (Ci vorranno quaranta anni perché un certo Veltroni si decida a scrivere sull’Unità che quella fu una brutta invenzione. Mussolini disse: “Sparate al petto”. Una piccola differenza, ma tanto sono false tutte e due perché non ci fu nessun plotone di esecuzione).
Bisognava cominciare con lo stabilire il nome del giustiziere. Chi? Chi più degno del comandante dei partigiani comunisti in persona? Chi più degno di Luigi Longo, il fiduciario di Stalin in Italia? E’ lui che sotto il nome di colonnello Valerio si reca con la lista in mano (in cui c’è anche Benito Mussolini perché a chi lo aveva scritto non risultava che qualcuno l’avesse portato via) a far fucilare nella piazza di Dongo i ministri fascisti dopo che si è resa impossibile la fucilazione pubblica in piazzale Loreto di tutti quanti, come primo atto del nuovo corso in Italia con loro al comando. (Poi ci ripenseranno e decideranno di cambiare il nome del giustiziere. Toccherà, guarda caso ad un altro ragioniere, un certo Walter Audisio, che dovrà assumersi quel ruolo per ordine del Partito, ma in cambio avrà il seggio in Parlamento … purché non parli. Perché scelsero un ragioniere come Canali? Una bella domanda.) Ma Valerio sa bene che Mussolini non è col gruppo dei ministri. Lo sa perché prima di Dongo era andato a Bonzanigo dove gli avevano detto che in casa De Maria avrebbe trovato l’uomo che cercava. Un uomo vivo, naturalmente, da portare assieme agli altri a Milano per la grande festa in piazza. E chi ci trova davanti a casa De Maria prima ancora di mettervi piede? Ci trova due cadaveri e due deficienti col fucile in braccio che balbettano di non saperne nulla. E allora che ci può fare il povero colonnello Valerio con quei due cadaveri al posto di un Mussolini vivo? E quel cadavere di donna che non è certo Donna Rachele, che c’entra quello? Longo è furioso, non sa che pesci pigliare. Intanto fa portare i due morti nel garage di un vicino albergo. Poi, visto che la festa a Milano non si può più fare, decide di fare la mattanza a Dongo. Infine si ritira a meditare sul da farsi, mentre il povero neosindaco di Dongo, Rubini, urla che lui non ci sta, che lui aveva dato la sua parola che ai prigionieri non sarebbe stato torto un capello. Altro che capello, ci vuole un acquazzone amazzonico per pulire la piazza da tutto il sangue che la allaga.
Valerio alla fine decide per la fucilazione di Mussolini e della Petacci, ma non certo a Milano, in un posto nascosto dove nessuno possa vedere che vengono fucilati due cadaveri. E l’autopsia? Penseranno anche a quella, ma dopo, con calma. Intanto andranno tutti a Piazzale Loreto, dove li esporranno al pubblico, poi qualcuno di buona testa penserà alla versione da dare. Non sarà la stessa cosa del processo popolare, ma sarà sempre un gran spettacolo. A Milano spiegherà tutto ai suoi amici. “Ma non dovevi portarli vivi? E adesso che ci facciamo con questi cadaveri? La gente mica è scema, la gente li voleva vedere fucilare.” Lui non sa che rispondere. Prima si tira fuori di tutto e meglio è.
Ma intanto e prima di tutto bisognerà punire esemplarmente i responsabili della mancata grande festa di Milano. Ma chi? Chi sono i responsabili? Non possono essere altri che Canali e la sua Gianna. Bisognerà farli fuori prima che parlino. Si va per le spicce. Nel giro di pochi giorni uno dei due partigiani che avevano in custodia i due prigionieri, viene trovato morto. Suicidato. Lo segue il Canali, scomparso nel nulla. Poi è la volta della Gianna, finita annegata nel lago di Como. Rimane uno solo dei quattro che hanno visto, il giovanissimo partigiano Sandrino, ma lui è un compagno di parola, non è uno che parla. “La mia vita vale più di quattro milioni” dirà a Giorgio Pisanò che gli presenta il grosso assegno a lui intestato. E aggiunge: “Saprai tutto quando sarò morto perché lascerò tutto scritto”. Ma quella carta, che pure esiste, non verrà mai fuori. Passata di mano in mano e poi sparita nel nulla. Come tutto il resto. Il povero Pisanò la cercò tutta la vita. Inutilmente. Bravi questi comunisti a nascondere la verità a tutti i costi.
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