La difesa del confine occidentale e del fronte Sud
Anche sul confine francese si ripeterà un episodio analogo a quello di Cividale ad opera di un Reggimento della Divisione “Littorio”. Sul confine occidentale facevano buona guardia contro le milizie golliste (i francesi ribelli del colonnello De Gaulle, fuggito a Londra in dispregio al legittimo governo che si era arreso dopo la sconfitta patita da parte dell’esercito tedesco con l’appoggio italiano) e contro le forze alleate che salivano dal sud d’Italia (c’era di tutto dai marocchini ai Gurka indiani, dai polacchi, agli ebrei, ai filippini, ai brasiliani …) le nostre splendide quattro divisioni addestrate in Germania e armate finalmente come si deve. Costituivano, assieme a due divisioni tedesche, l’Armata “Liguria” al comando del Maresciallo Graziani. Anche i tedeschi agli ordini di un italiano? Sì, anche i tedeschi. Non è scritto sui libri di storia, ma è Storia. Al Sud tutti i nostri bravi soldati del Corpo di Liberazione erano agli ordini dei comandi alleati perché l’Italia era ancora ufficialmente in guerra con le potenze Alleate. Era solo “cobelligerante” (parola inventata ad hoc). Al Nord, come sappiamo, i soldati tedeschi venivano pagati dalla RSI per difenderci, al Sud erano gli italiani a incassare il soldo degli occupatori e non in lire, bensì in Am-lire, cioè nella moneta emessa dalla Amministrazione Militare Alleata, unico detentore del potere nell’Italia arresasi l’8 settembre. Un tanto per la Verità e con tutto il rispetto per i combattenti in divisa dell’Esercito del Sud.
Altri reparti di minore entità (tra cui anche Fiamme Bianche) combattevano, inquadrati operativamente in divisioni germaniche, sul fronte adriatico. Sul mare gli scarsi mezzi della Marina Repubblicana sempre all’agguato, sempre pronti a morire per l’Onore in una guerra perduta da tempo. In cielo gli ultimi aerei dell’Aeronautica Repubblicana, quelli prestati dai tedeschi perché le nostre fabbriche non esistevano più, quelli che potevano alzarsi in volo solo se si riusciva a trovare il carburante (ed era sintetico, fatto col carbone dopo che i pozzi di Ploesti in Romania erano andati in fumo). E, una volta alzati, venivano giù uno alla volta, inesorabilmente, come uccelli impallinati dal cacciatore. I verdi prati della valle del Po furono il loro cimitero dal quale mani pietose oggi si chinano a ricuperare i pochi resti ancora incastrati nelle lamiere dei Macchi, dei Reggiane e dei Fiat.
Perdere sì, ma con Onore. Ma chi lo vuol capire, oggi? Anzi, chi lo può capire? Se la filosofia di ogni discorso è che comanda solo la parola Libertà, dove finisce il concetto di Onore? Vi siete mai chiesti perché all’estero questo Governo riscuota più fiducia dei precedenti? Perché la sua parola sia tenuta per buona malgrado tutti i tradimenti dell’Italia del passato? Che c’entri la presenza di qualcuno che non ha mai tradito?
Il crollo dello schieramento in Val Padana
Nel febbraio 1945 il plenipotenziario germanico in Italia generale delle SS Karl Wolff iniziò le trattative di resa con gli Alleati. Hitler non doveva saperne nulla e per questo Mussolini né alcun altro ne fu messo al corrente. In gran segreto Wolff si recò in Svizzera e fece l’accordo dal quale gli italiani della RSI erano esclusi. Abbandonati al loro destino. Per Mussolini chissà cosa fu deciso. Probabilmente che dovesse morire prima del crollo. Sta di fatto che pochi giorni dopo gli abboccamenti in Svizzera, il Duce fu sul punto di morire durante un attacco di aerei da caccia americani alla macchina su cui viaggiava. Era andato nel massimo riserbo a visitare la Brigata Nera di stanza a Castiglione delle Stiviere, poco distante dal Garda. Puntuali arrivarono gli aerei con la stella d’argento e fecero fuoco sulla colonna di pochi mezzi su cui, oltre al Duce, viaggiavano la piccola scorta italiana e quella tedesca. Ma anche lo stesso Wolff che si trovava in testa e, a differenza degli altri che morirono quasi tutti, non venne neppure sfiorato. Quale migliore alibi per il tedesco traditore? Purtroppo, bisogna dire purtroppo col senno di poi, Mussolini venne salvato dalla rapida manovra che il suo bravo autista fece ricoverando la macchina sotto il portico di una fattoria. Sarebbe stato un grande funerale di Stato e l’inumazione al Vittoriale accanto al Vate D’Annunzio. Che peccato. Lo aspettava invece il ludibrio di Piazzale Loreto, una vergogna dalla quale oggi invano i successori dei capi comunisti di allora cercano di lavarsi la coscienza. Forse l’idea del mitragliamento era stata dello stesso generale tedesco che voleva anche lui salvarsi la coscienza da quello che sarebbe poi avvenuto per colpa sua. Forse non lo sapremo mai.
In aprile il fronte italo-tedesco fu sfondato. Gli Alleati dilagarono nella pianura padana. Allora i partigiani calarono dalle montagne in cui si erano prudentemente tenuti fin che le forze italo-tedesche tenevano il fronte. Avendo avuto ordine di lasciar passare senza arrecare molestie i militari tedeschi, si volevano rifare sugli italiani, gli odiati fascisti. La caccia cominciò subito e fu portata avanti sino a che fu possibile. I fascisti si arrendevano con la promessa di poter tornare con un salvacondotto alle loro case. Deponevano le armi e ricevevano il salvacondotto firmato dai capi del Comitato di Liberazione, guarda caso sempre quelli di parte liberaldemocratica. Poi arrivavano i comunisti e aprivano il fuoco. Tanto i fascisti erano armati del solo pezzo di carta rilasciato dal CLN che oramai era niente più che un pezzo di carta. Così un esercito di quasi un milione di soldati coraggiosi che non avevano abbassato la bandiera davanti a nessuno, amici o nemici, veniva massacrato con l’inganno da bande di assassini con la stella rossa che dell’onore e della libertà non conoscevano neanche il nome.
Non tutti i reparti caddero nell’infame tranello. Sul lago Maggiore c’era un Battaglione di Legionari giuliani e dalmati, il “Venezia Giulia”. Li comandava un giovane ufficiale di ventiquattro anni, nativo di Todi, in Umbria, la terra del grande Santo degli italiani, San Francesco. Aveva fatto la guerra e la guerriglia in Balcania dove comandava le bande serbe anticomuniste. Sapeva bene quanto valeva la parola dei partigiani comunisti. Li aveva già visti all’opera e gli bastava. Lui non si arrenderà. Ai suoi 500 legionari si aggrega un reparto di tedeschi che porta il gruppo a 1.000. Puntano su Novara dove stanno arrivando gli americani. Ma prima bisogna sfondare i blocchi posti sulla stretta via del lungolago. Basterà accerchiarli aggirando le montagne di notte col buio e il gioco sarà fatto. Con 200 prigionieri l’ufficialetto fascista (gli voglio così bene che mi permetto di chiamarlo così) arriva a Novara dove riceve gli onori militari dal comandante americano: “Voi siete i degni eredi dei combattenti d’Africa” gli dice lo Yankee stringendogli la mano. L’ufficiale verrà poi processato (eviterà la condanna a morte solo perché il suo accusatore verrà trasferito in tempo, un accusatore che anni dopo diventerà presidente della Repubblica) e dopo anni di galera verrà eletto prima senatore e poi sindaco di Latina, la sua Littoria. Il nome? Ajmone Finestra, attuale presidente (e chi più degno di lui?) dell’Unione Combattenti RSI.
Finestra e i suoi soldati furono portati nel campo di concentramento di Coltano, un’enorme distesa nei pressi di Pisa. Un campo infame in cui, vergogna delle vergogne, era rinchiuso in una gabbia all’aperto, come fosse una belva feroce, un vecchio malato ch’era il più grande poeta americano, un grande ammiratore di Mussolini, Ezra Pound. Il vecchio continuò a scrivere nella sua gabbia i “Canti Pisani”. Campo infame, ma per i prigionieri repubblicani la salvezza. Molti non uscirono vivi, ma nelle piazze d’Italia si vide di peggio nelle “radiose giornate” che ogni anno a fine aprile si commemorano con riti solenni. Furono dai 50.000 ai 100.000 i morti ammazzati dopo finita la guerra. Militari, ma anche vecchi, donne, bambini, tutti comunque da eliminare.
Negli ultimi mesi di guerra ci fu un gran parlare delle “armi segrete” che avrebbero capovolto a favore dell’Asse i destini del conflitto. C’erano davvero quelle terribili armi? Sì, c’erano. Oggi si sa per certo che due rudimentali bombe atomiche vennero fatte esplodere dagli scienziati tedeschi nei boschi del nord e se ne trovano ancora adesso le tracce radioattive. Un ritardo forse di soli pochi mesi fece cadere i “nazifascisti” e salvò dalla possibile sconfitta i “capitalcomunisti”.
La perdita dell’Istria e la mancata difesa di Trieste
Anche in Istria non tutti i reparti si arresero allo slavo invasore. Dove poterono svincolarsi, i nostri soldati ruppero l’accerchiamento e puntarono verso Trieste senza arrendersi. Così furono salvati migliaia di uomini. A Trieste però non giunsero mai se non a piccoli gruppi per lo più disarmati. Un ordine giunto dal Comando Generale la mattina del 30 aprile imponeva loro di deporre le armi e di tornare a casa essendo fallito anche l’ultimo tentativo di organizzare l’estrema difesa della città di San Giusto in accordo con il locale CLN. Fino all’ultimo si era sperato di arrivare a quel patto fra italiani che anche molti del CLN, compreso il comandante militare colonnello Peranna, volevano ardentemente. Molti soldati, l’intera Guardia di Finanza, buona parte della Guardia Civica confluirono nella formazione allestita in fretta e furia dal CLN, il Corpo Volontari della Libertà. Così almeno non ci fu, come invece purtroppo nel resto d’Italia, spargimento di sangue fraterno perché nessuno qui volle macchiarsi di un simile delitto.
Pochi, sicuramente insufficienti allo scopo, poco armati, indecisi sul da farsi, non osarono opporsi allo slavo (che poi, ricordò qualcuno, era un loro “alleato”) che stava scendendo dall’altopiano e si limitarono ad una azione dimostrativa contro i tedeschi in ritirata provocando l’aspra reazione che ci si poteva attendere. Così affermano ancor oggi di aver liberato la città, loro, non le truppe di Tito che subito li scacciarono come nemici perché non erano slavi e non intendevano assoggettarsi al giogo dell’occupatore. Molti riuscirono a fuggire, ma altri, come l’intero gruppo dei finanzieri, vennero presi e avviati alle foibe del circondario di Trieste assieme a tanti altri sventurati caduti nelle mani degli sgherri slavocomunisti che, seguendo gli ordini avuti dall’alto, li precipitarono negli abissi. Dove ancor oggi attendono giustizia.
Pochi sanno che l’ultimo ordine di Mussolini, quando già si trovava a Milano in partenza per Como, fu quello che diede al Principe Borghese di schierare tutta la sua X Mas sul confine orientale. L’operazione non riuscì perché i reparti che defluivano sotto i micidiali attacchi aerei degli alleati dal fronte verso la Valle del Po vennero imbottigliati nei pressi di Padova dalle formazioni partigiane scese in pianura. Così a Trieste non giunsero mai. In precedenza anche dal Sud ci fu un tentativo di arrivare a Trieste prima degli slavi di Tito, ma naufragò per l’ostilità degli inglesi, fedeli alleati e protettori del Maresciallo (per conto del quale avevano raso al suolo l’italianissima città di Zara, la perla della Dalmazia).