Non subito, ma nella primavera successiva, cominciarono a formarsi sulle montagne nuclei di sbandati, di ribelli, di renitenti (questi ultimi a seguito dell’improvvida decisione di ricorrere alla chiamata alle armi). Poi si formarono le bande partigiane, in parte di fede monarchica (fazzoletti azzurri), in parte liberali e cattoliche (fazzoletti verdi), in maggior parte comuniste e socialiste (fazzoletti rossi ossia Brigate Garibaldi). Le bande ribelli non potevano mettere piede nelle città e nei centri abitati saldamente presidiati dai soldati repubblicani e dalle forze tedesche (i quali si sobbarcavano il controllo delle strade, delle linee ferroviarie, di quelle elettriche, degli acquedotti, ecc. ecc. un enorme sforzo di sorveglianza che impegnava giorno e notte centinaia di migliaia di uomini). Nelle città i ribelli operavano con piccole pattuglie in borghese (i GAP, Gruppi di Azione Partigiana) che compivano attentati ai danni dei soldati e delle autorità politiche. Quando riuscivano ad ucciderne uno, si scatenava la rappresaglia dei tedeschi che applicavano le durissime leggi di guerra. Era quello che i ribelli attendevano, sapendo che così si sarebbero attizzato l’odio della popolazione contro i tedeschi. I repubblicani, invece, avevano maggior riguardo per le vite dei loro compatrioti e spesso non ricorrevano alla rappresaglia. Un tipico caso fu quello dell’assassinio del Presidente dell’Accademia d’Italia, l’archeologo Pericle Ducati, cui seguì non molto dopo, l’altro, del successore all’Accademia, il grande filosofo Giovanni Gentile. Entrambi uccisi a sangue freddo, inermi e senza scorta, l’uno a Bologna, il secondo a Firenze, davanti a casa sua, sulla verde collina di Fiesole. Non ci fu rappresaglia. Ma servì a poco perché la Resistenza aveva le sue regole e doveva osservarle. Non servì neppure il lamento dei moderati che si dissociarono da quel gesto infame compiuto dai comunisti. Si arrivò persino a sparare sulle bare durante un funerale. In un paese civile come l’Italia. Sono le regole della guerriglia, che oggi si chiama anche terrorismo, ma dipende da che parte la si guarda.
Perché i ribelli si opponevano alla Repubblica Sociale? Perché non ne accettavano la sovranità come invece dimostrava di fare la stragrande maggioranza della popolazione? Le spiegazioni sono diverse. C’era chi si era trovato costretto a salire in montagna per sfuggire alla cattura e alla deportazione in Germania subito dopo la resa italiana. Erano i militari del sud rimasti tagliati fuori dalla propria terra che, in parte aderirono alla RSI, in parte preferirono darsi alla macchia. Queste erano per lo più le formazioni azzurre. Poi c’erano gli idealisti che sognavano la fine della dittatura mussoliniana. E al tempo stesso non avevano mai amato i tedeschi con quella loro aria di superuomini che si davano in ogni loro atteggiamento. Non c’entrava niente invece la faccenda dei lager e dei campi di sterminio degli ebrei che oggi tiene banco e di cui nessuno allora sapeva nulla (neppure gli stessi soldati della Wehrmacht ne seppero qualcosa prima di vedere i documentari girati dagli americani dopo ch’ebbero occupata la Germania).
E poi c’erano i comunisti, le Brigate Garibaldi col fazzoletto rosso. Questi facevano una loro guerra privata. Ben organizzati, militarmente inquadrati, con tanto di Commissari politici spesso russi, legati mani e piedi alle direttive del Partito Comunista, sorretti da una ferrea disciplina, miravano a instaurare in Italia uno Stato di tipo sovietico. Dai “capitalisti” americani li divideva un odio mortale anche se ne ricevevano ogni aiuto. Armi, viveri, equipaggiamento gli arrivavano dal cielo nelle notti chiare calati con il paracadute su per i monti dall’odiato americano col quale si aspettavano di arrivare prima o dopo a fare la resa dei conti. Intanto le prime scaramucce si facevano già vedere. Se potevano, i “rossi” cercavano di mettere in difficoltà i loro amici “azzurri” o “verdi”. In Carnia decisero addirittura di farli fuori senza mezze misure. Fu l’eccidio di Malga Porzùs, consumato a freddo, spietatamente, con stile impeccabile. Non doveva salvarsi nessuno. E invece qualcuno si salvò solo perché ci fu un ritardo imprevisto di una staffetta. Fu il caso di un mio caro amico, ora scomparso, Alfredo Berzanti, che poi divenne il primo presidente della Regione Friuli Venezia Giulia. Berzanti non divenne mai amico dei comunisti, neanche quando il suo partito, la DC, glielo impose. Non poteva dimenticare.
Qual’era agli occhi dei comunisti la colpa degli osovani? Il sospetto che i partigiani verdi della Brigata Osoppo avessero stretto un patto con i repubblicani della X Mas per la comune difesa del confine orientale contro gli slavi di Tito. Probabilmente, anzi quasi certamente, era vero, ma il grave era che loro, i comunisti, agivano per ordine degli jugoslavi di cui si sentivano alleati e fratelli. Al comandante Bolla fecero anche un “regolare” processo prima di ucciderlo nel Bosco Romagno (nei pressi di Cividale). Nel verbale del processo sta scritto che lui, il povero Bolla, udita la sentenza, gridò: “Viva l’internazionale fascista!” Non gli bastava ucciderlo, bisognava inventare una simile infamia con cui infangare la sua memoria. Quello non fu che un episodio, certo il più noto, della guerra fra partigiani delle due fedi.
Molti si sono chiesti perché al Sud non ci fu una speculare Resistenza armata fascista. La risposta è facile: perché, pur essendo nata con moto spontaneo, Mussolini diede ordine di farla cessare. “Noi fascisti non spariamo alle spalle” e la Resistenza cessò. Alla Principessa Pignatelli (il cui marito era il capo della guerriglia contro gli Alleati) disse che invece si istituisse un Soccorso civile per i nostri finiti nelle galere angloamericane e invece autorizzò lo spionaggio oltre le linee (le “volpi azzurre” che affidò al Comandante David, e di cui fecero parte Giorgio Pisanò e la famosa Paola Costa).
La Capitale sul Garda
Bisogna anche dire che dopo la liberazione di Mussolini, mentre procedeva alacremente e quasi miracolosamente la costruzione del nuovo Stato repubblicano (prefetture, questure, uffici dell’amministrazione pubblica, stabilimenti militari, annona, stampa della moneta, dei francobolli, banche; dopo lo sfacelo seguito alla data infame c’era tutto da rimettere in piedi) occorreva anche pensare alla sede del nuovo Governo. Roma non poteva esserlo perché troppo vicina al fronte di guerra. Mussolini voleva la sua Romagna, la Rocca delle Caminate. Vi fece il primo Consiglio dei Ministri. Poi, non avendogli i tedeschi concesso per motivi di sicurezza la sede di Milano, ripiegò sul lago di Garda che non gli piaceva neanche un po’. Ma qui c’erano ville estive da requisire a bizzeffe e i ministeri vi vennero alloggiati in quattro e quattro otto. Tutto il lungolago fu invaso dai ministeriali romani che avevano accettato di lasciare l’Urbe. Da Salò (il centro maggiore) a Gardone, a Maderno, a Bogliaco, a Gargnano, in ogni angolo della splendida riviera occidentale del lago si accamparono gli uomini dei ministeri e le loro famiglie. Il Duce prese dimora nella Villa Feltrinelli appena fuori l’abitato di Gargnano da dove ogni mattina raggiungeva in macchina o a piedi la sede del Governo in villa delle Orsoline nel centro del paesino. Posti bellissimi anche d’inverno stante la mitezza del clima che ha reso famoso il Garda facendone un luogo di perpetua villeggiatura. Ma, mentre donna Rachele e i figli se ne giovavano, lui era tutto preso dalle cure del Governo, che non era una sinecura. Riceveva dalla prima mattina fino a sera tardi ambasciatori, ministri, prefetti, comandanti militari, anche semplici cittadini. A Gargnano Mussolini ritrovò la Fede, si confessò ad un pio sacerdote e si comunicò.
Non tutti i ministeri ebbero sede sul Garda. Quello dello spettacolo fu insediato a Venezia, quello della Educazione Nazionale (retto da Carlo Alberto Bigini che già nel dicembre ’43 aveva scritto su incarico di Mussolini la Costituzione della RSI) risedette a Padova.
Il cruccio di Mussolini era la guerra civile che i comunisti e anche altri antifascisti andavano scatenando in ogni parte d’Italia. Lui fin che poteva frenava le rappresaglie, faceva liberare prigionieri, salvava molti suoi nemici da morte sicura sottraendoli dalle celle in cui erano rinchiusi. Eppure quell’uomo riuscì a trovare anche il tempo per un grande progetto: la Socializzazione delle imprese. E a far varare i punti programmatici della nuova Repubblica: i 18 punti di Verona, che stabilivano il ritorno al metodo democratico dell’elezione popolare. Al pluralismo politico ci sarebbe arrivato negli ultimi mesi quando riconobbe la validità della funzione dei partiti di opposizione. Storia ignorata. Storia cancellata.
Si ricostituiscono Esercito, Marina, Aeronautica.
Nascono la GNR, la X Mas, il SAF, le BN, le Fiamme Bianche.
La prima Arma a risorgere fu la Milizia che non si era mai sciolta, neppure oltre i confini patri, neppure in terra nemica, nei Balcani. Quegli uomini, spesso avanti in età, non mollarono mai. Rimasero al loro posto accanto agli alleati di prima e continuarono a combattere. Presto a loro vennero aggregati i Carabinieri non più Reali e il nuovo Corpo raggiunse la consistenza di 180.000 uomini. Venne denominato, per i nuovi compiti che riceveva ossia di servizio d’istituto oltre che di impiego bellico, Guardia Nazionale Repubblicana che ricordava i tempi della Rivoluzione Francese. Il distintivo al bavero non era più il fascetto, bensì una doppia M d’argento che voleva significare Mussolini e Mazzini (e somigliava parecchio al contrassegno delle SS). Poi nell’estate del ’44 tutte le forze armate repubblicane ebbero un simbolo unico: il Gladio circondato da una corona d’alloro. Della GNR faranno parte nomi divenuti poi famosi come Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Mario Castellacci, quasi tutti usciti dalle nove Scuole Allievi Ufficiali che Renato Ricci aveva organizzato per preparare l’ossatura del nuovo Esercito Repubblicano. Ne sfornarono quattromila con un’ottima preparazione sia bellica che civile. Ogni anno i superstiti si radunano a ricordare il loro grande sogno di gioventù. Sono rimasti in pochi. Un po’ curvi, ma non piegati.
Il Principe Junio Valerio Borghese che comandava il reparto degli assaltatori della Marina, ne fece un nuovo Corpo di terra pur conservando il nome di X Flottiglia Mas, anche se dei mitici motoscafi siluranti ce n’erano rimasti pochi (li aveva ancora una sezione di mare, assieme ai sommergibili tascabili e ai barchini d’assalto). La corsa ad arruolarsi fu uno spettacolo mai visto. Persino dalla Francia arrivarono e con nomi che diventeranno altisonanti (Yves Montand, Michel Piccoli, Serge Reggiani, tutti figli di italiani legati come non mai alla loro Patria).
Poche, ma c’erano anche le navi da guerra. La Marina nera (per distinguerla da quella in grigioverde della X Mas) sorvegliava i porti e batteva il mare. Un nome per tutti fra quelli molto famosi: il comandante Grossi e fra i giovanissimi il guardiamarina Raimondo Vianello, figlio di un ammiraglio.
Negli aeroporti si riformarono le squadriglie da caccia e da bombardamento. Gli aerei vennero ripresi (con le belle o con le brutte) ai tedeschi che se li erano incorporati e dovettero restituirli uno alla volta molto seccati. Alla guida di una delle più famose squadriglie il maggiore Adriano Visconti, cugino del famoso regista, che verrà barbaramente assassinato a guerra finita.
Fra i Generali della Repubblica vi era, udite udite, anche una donna. Una donna di ferro cui Mussolini, che l’aveva conosciuta anni prima come dirigente del Partito, affidò la costituzione e poi il comando del SAF, il Servizio Ausiliario Femminile. Si chiamava Piera Gatteschi. Donne in divisa, donne soldato, 8.000 volontarie di ogni ceto sociale. A differenza delle partigiane (staffette o combattenti), le Ausiliarie, belle e giovani, non erano armate che della loro grazia e della loro fede che non tradirono. Per la loro serietà furono chiamate le “monache del Duce”. Alla Liberazione ne sarà fatta strage.
Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, volle, in dissenso con Graziani, costituire un esercito di partito, il Corpo delle Brigate Nere, in contrapposizione a quello comunista delle Brigate Rosse. Tutti gli iscritti al PFR da una certa età vi facevano parte. Fecero tutti il loro dovere fino all’ultimo. Anche i giovanissimi, i quattordicenni vollero dire la loro: si costituirono le Fiamme Bianche di cui alcuni reparti furono avviati al fronte.
In Germania, chiusi nei campi d’internamento c’erano centinaia di migliaia di nostri soldati catturati dopo il tradimento dell’8 settembre. Il Duce li fece optare per l’arruolamento nel nuovo esercito repubblicano o, in alternativa, per il lavoro nelle fabbriche tedesche. Non più schiavi, ma lavoratori o soldati. La maggioranza, sapendo che la guerra stava concludendosi e male per noi, scelse la fabbrica, ma intanto ebbe un trattamento più umano. Ma quei centomila che si rimisero il grigioverde tornarono in Italia con una voglia di rivincita che non pareva più possibile. Addestrati dai terribili sottufficiali tedeschi, impararono a fare la guerra come neanche se la sognavano. Le quattro Divisioni, Monterosa, San Marco, Littorio, Italia, che ritornarono in patria con un fervore incredibile, furono accolte dai partigiani nascosti dietro l’angolo con le loro fucilate e molti furono i morti nelle imboscate. Ma quelle divisioni erano di ferro e non mollarono. Presidiarono le valli e i valichi del confine occidentale fino all’ultimo. In qualche caso persino attaccarono i reparti americani che venivano su dalla Toscana ricacciandoli indietro. Ancor oggi quei reduci si ritrovano ogni anno sulle loro montagne ed è sempre una festa. Hanno i loro sacrari in cui mette piede solo qualche coraggioso rappresentante ufficiale, sindaci amici, deputati, senatori della parte non immemore, anche un ministro, quello che fu uno di loro, il bersagliere della Divisione “Italia” Mirko Tremaglia da Bergamo (uscito con i gradi dalla Scuola di Modena). E che continua a sentirsi uno di loro anche se fa il ministro di un’altra repubblica.
Un fatto molto rilevante per il suo significato morale, ma non solo per quello, fu che mai, in nessun luogo, in nessun momento, né in mare, né in terra, né in cielo vi furono scontri fra soldati italiani del Sud e quelli del Nord. Circostanza non casuale. L’esatto contrario di quanto avvenne al Nord fra repubblicani e partigiani dove i secondi avevano come obiettivo prioritario i primi. Subito, appena finita la guerra i combattenti in divisa dei due schieramenti si ritrovarono da camerati e oggi si ritrovano nelle associazioni combattentistiche uniti come prima. Non così fra combattenti del Nord e guerriglieri fra i quali non è mai stata fatta pace. Basterebbe questa contrapposizione, così stridente da far riflettere, per capire che la guerra civile fu una cosa ben diversa dalla guerra di liberazione che oggi si vorrebbe unitaria.
La questione del Confine Orientale
Il più grande cruccio di Mussolini fu la questione del confine orientale. Bisogna sapere che subito dopo la resa italiana i tedeschi avevano approntato a difesa dei loro confini due zone di operazioni militari, oltre a quella del fronte sud su cui premevano gli Alleati. Le due zone di operazioni vennero chiamate delle Prealpi, quella del Trentino Alto Adige, e del Litorale Adriatico, quella del Friuli, della Venezia Giulia, della Slovenia e della Dalmazia. Erano state sottoposte, in carenza di uno Stato italiano alleato (che si costituirà solo alcune settimane dopo) a due funzionari austriaci che ricoprivano la carica di capi regione dei due Land Tirolo e Carinzia. L’uno divenne il Supremo Commissario della Z.O. delle Prealpi, l’altro di quella del Litorale. I loro nomi Hofer e Rainer.
La loro nomina avvenne in circostanze piuttosto strane. La riunione di insediamento si svolse nel Quartier Generale del Fuehrer a Rastenburg nella Prussia Orientale il pomeriggio del 12 settembre, cioè a soli tre giorni dalla resa italiana. Ma durante la riunione arrivò un messaggio: il Duce era stato liberato. Certo si sarebbe adirato a sapere che in sua assenza si era presa una così grave decisione. D’altra parte l’Italia era in quel momento senza un governo (se non quello di Badoglio, passato dall’altra parte) e, peggio ancora, senza un esercito. E allora che fare? La soluzione fu trovata dal furbo ministro Goebbels. Bastava retrodatare di due giorni l’ordinanza e tutto tornava posto. Cosa fatta capo ha e Mussolini non poté, quando, lo seppe, che fare buon viso a cattivo gioco (ma non seppe mai il trucco della retrodatazione che venne fuori solo al processo contro Rainer nel 1946 a Lubiana). La sovranità italiana non venne mai messa in discussione, ma il Duce dovette combattere una estenuante battaglia per riaffermare continuamente quello che né Rainer né Hofer osarono mai contestargli, cioè il buon diritto italiano su quelle terre. Intanto Rainer e Hofer approfittando della forza di cui disponevano, spadroneggiavano e spesso si mettevano in conflitto con le autorità italiane, soprattutto con le Forze Armate della RSI. In realtà i tedeschi temevano un altro voltafaccia come quello dell’8 settembre e non si fidavano più di nessuno dopo la lezione ricevuta.
Nel dopoguerra per giustificare il mancato accordo degli antifascisti con le forze repubblicane che costò la caduta di Trieste in mani slavocomuniste, gli storici di quella parte, cioè gli unici che avevano voce in quegli anni, sostennero che dopo l’8 settembre Hitler si era annesso il territorio del Litorale come quello delle Prealpi. Asserzione infondata e tutta da dimostrare, ma che faceva gioco per mascherare la colpa storica degli antifascisti. Ancora oggi ad ogni campagna elettorale (sono le elezioni a comandare il gioco) rispunta quell’accusa a carico delle forze politiche comunque legate al patrimonio patriottico della città. Qualcuno arrivò perfino ad insinuare che Mussolini avesse regalato queste terre a Hitler in cambio della sua liberazione dalla prigionia del Gran Sasso. Vedete dove può condurre la faziosità politica. Contro tali vaneggiamenti sta tutto, dal fatto che a Trieste si continuava a nascere italiani, che la moneta, i francobolli, la giustizia, le amministrazioni pubbliche, le scuole, l’università erano più che mai italiane. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuole udire. Per loro, per quei bravi cattedratici, Trieste doveva essere diventata una provincia del Reich germanico e questo giustificava molte cose a cominciare dalla mancata difesa della città sul finire del conflitto per finire alla “damnatio aeterna” dei suoi ultimi difensori. Una eccellente opera di rovesciamento delle responsabilità, perfetta in ogni suo particolare. La Storia scritta dai vincitori, in una parola. “Le menzogne dei vincitori diventano la Storia” ammonisce Arrigo Petacco.
La verità è invece quella che senza la RSI Trieste e l’intera Venezia Giulia (e forse anche il Friuli) sarebbero da sessanta anni in qua un pezzo di Jugoslavia (adesso di Slovenia).
Negli ultimi mesi di guerra Mussolini pensò addirittura di spostare la sede del suo Governo a Trieste, credendo così di meglio tutelare l’italianità del confine orientale. Anche se poi, per il precipitare degli eventi, non se ne fece nulla, è un dato da ricordare per la storia (quella vera).
La difesa del Confine Orientale
Le forze italiane dislocate nel territorio soggetto alla amministrazione provvisoria del Supremo Commissario Rainer e che a lui erano operativamente subordinate (cioè il loro impiego bellico era nelle mani del Commissario attraverso il Comandante Superiore italiano, generale Medaglia d’Oro Giovanni Esposito) erano di tutto rispetto. Erano costituite da ben 20.000 uomini ed erano uomini decisi a tutto. A differenza di quanto avveniva prima della nascita della RSI, le forze repubblicane erano costituite interamente da volontari.
Il grosso, circa la metà, era costituito dai cinque Reggimenti della Milizia, qui denominata per volere tedesco Milizia Difesa Territoriale, ma portante la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana e funzionalmente dipendente dal Comando Generale della stessa che si trovava a Brescia. Divise, organici, stipendi, disposizioni, rincalzi di ufficiali subalterni e superiori arrivavano da Brescia, altro che Terzo Reich. Il giorno che Rainer con la scusa che gli aerei scendevano a mitragliare i presidi se vi vedevano sventolare il tricolore ordinò di non issarlo sui pennoni, si ebbe per tutta risposta un sollevamento generale dei militi a cominciare dal comandante del Reggimento “Istria”, il colonnello Libero Sauro, figlio del martire Nazario. Pagò per tutti il più alto in grado che fu allontanato da Pola, ma la bandiera rimase là dov’era, anzi ogni presidio se ne fece confezionare una più grande e la sventolò fino all’ultimo giorno in cui rimanemmo a guardia del confine orientale. Non sta scritto sui libri di storia ma è Storia. I militi di questo Reggimento erano quasi tutti istriani del posto, di ogni età e condizione civile. Erano veramente i difensori della loro terra. Per questo in Istria i partigiani di Tito, in maggioranza slavi, ebbero vita dura. Non ebbero l’appoggio della popolazione perché le simpatie della gente andavano ai bravi guardiani di casa, ai loro fratelli in divisa. Lo si poté constatare dopo la fine della guerra con l’esodo massiccio della popolazione che sgombrò interi villaggi e spopolò le città. Un esodo che non ha precedenti nella storia delle nostre terre e che invano per sessanta anni si è cercato di occultare o giustificare con altre motivazioni.
Gli altri quattro Reggimenti erano stanziati nelle province di Trieste, Gorizia, Udine, Fiume. Quelli delle isole del Quarnero verranno annientati fino all’ultimo uomo. Medaglie d’oro a bizzeffe se avessimo vinto la guerra. Invece l’oblio e semmai l’accusa di traditori da parte dei veri traditori.
Accanto a questi diecimila uomini sparpagliati sull’intero territorio, distribuiti in piccoli presidi di venti quaranta militi ciascuno, che assicuravano il controllo delle vie di comunicazione, delle linee ferroviarie, delle linee telefoniche, delle centrali elettriche, degli acquedotti e garantivano la sicurezza dei singoli cittadini, stavano i reparti di linea schierati sul confine a fronteggiare il IX Corpus di Tito. Questo Corpus era una vera e propria Armata con artiglierie, comandi, accampamenti, insediata su una vasta zona interna dove trovava la solidarietà della popolazione. Anche le forze della RSI, benché inferiori di numero, erano agguerrite e ben decise a difendere il territorio italiano. Attorno a Gorizia erano schierati migliaia di uomini: i Battaglioni della X Mas, i Battaglioni Bersaglieri, il Reggimento alpino “Tagliamento”, i Battaglioni da fortezza, i Battaglioni della Milizia Confinaria, i Battaglioni Costieri.
Il IX Corpus poté entrare a Gorizia solo dopo il crollo della resistenza italo-tedesca alla fine di aprile 1945. Cioè a guerra finita. Prima furono bloccati da quel pugno di ragazzi che seppero morire in battaglia a Tarnova sotto la bufera di neve, a Tolmino, a Idria, a Santa Lucia, lungo la linea ferroviaria delle valli dell’Isonzo e del Bacia. Finirono quasi tutti sottoterra o, i più fortunati, a guerra finita nei campi di sterminio di Borovnica e di Prestrane.
Anche altri reparti combattenti non possono essere dimenticati e sono le Brigate Nere, i Battaglioni di Polizia, gli aviatori delle basi di Campoformido, di Merna (da cui partivano i bombardieri per le incursioni fino a Gibilterra), di Osoppo. E tutti i servizi di avvistamento aereo che segnalavano l’arrivo delle formazioni americane sulle nostre città affinché la popolazione potesse mettersi in salvo nei rifugi. Gli attacchi aerei avevano infatti carattere terroristico più che militare. La Contraerea faceva quel che poteva ma non era certamente in grado di evitare che i grossi bombardieri statunitensi scaricassero le loro bombe sulle nostre case. Tanti furono quelli che precipitarono nel golfo di Trieste colpiti dai cannoni della Contraerea e ancora più spesso dalla caccia repubblicana che saliva in cielo ogni volta che arrivavano i Liberators e le Fortezze Volanti. Anche per i nostri eroici piloti il golfo fu tomba generosa. A ricordare il loro sacrificio non c’è una lapide.
Sul mare non c’erano più le poderose corazzate che si erano consegnate al nemico a Malta dopo la resa dell’8 settembre, né gli incrociatori pesanti che tutto il mondo ci invidiava e ch’erano finiti in fondo al Mediterraneo silurati su segnalazione dei traditori annidati nei nostri comandi, c’erano solo i piccoli, piccolissimi sommergibili tascabili della Marina Repubblicana perpetuamente in caccia di naviglio nemico.
E a Trieste il bravo Podestà Cesare Pagnini aveva istituito un corpo speciale ai suoi ordini, la “Guardia Civica”. Fece anche quello il suo dovere collaborando alla sorveglianza degli impianti insidiati dai partigiani comunisti.
In Dalmazia la resistenza agli invasori slavocomunisti cessò del tutto con lo sgombero della popolazione dalla capitale Zara nell’ottobre 1944. La città non esisteva praticamene più. Più di quaranta bombardamenti selvaggi ordinati da Tito in persona ed eseguiti dagli aerei delle RAF inglese avevano ridotto il centro storico ad un ammasso di macerie. L’italianissima Zara era finalmente piegata come voleva il despota croato (ma forse neppure croato, bensì russo). Anche il prefetto repubblicano Serrentino riparò a Trieste dove l’anno dopo venne trovato dai titini e ucciso.
Sul finire della guerra si verificherà un caso quasi unico. I partigiani della “Osoppo” e gli alpini del “Tagliamento” si misero d’accordo per difendere dagli slavi in arrivo la cittadina di Cividale che così non subì l’occupazione del nemico. L’avvenimento viene ricordato ogni anno a Ferragosto a Spignon, sul cocuzzolo della montagna, il luogo dove fu stretto il patto. Andateci.