Appunti per una storia vera dell’Italia da 25 luglio 1943 all’aprile 1945

“La verità vi farà liberi” Gesù di Nazareth

 

 

Raccomandazione

Voi che amate la verità, ascoltate questo aneddoto che vi insegnerà molte cose.

Quando d’estate, seguendo la mia passione divorante, mi reco in montagna alla ricerca dei miei amici prediletti, i funghi, adotto da tempo una regola aurea che mi fu insegnata, molti anni fa quando ero ancora alle prime armi, da un vecchio montanaro. “Se vedi venirti incontro un fungaiolo col cesto pieno di porcini, chiedigli gentilmente dove li ha trovati e, quando lui ti avrà indicato dove rivolgere il tuo passo, ringrazialo del prezioso consiglio, salutalo e poi, appena si sarà allontanato, prendi la direzione opposta.” Sono ancora grato a quel vecchietto per avermi insegnato una regola così importante grazie alla quale mi sono fatto la fama di cercatore fortunato.

Premessa

A differenza dei tanti che ne scrivono e che si sono fatta una certa cultura leggendo libri più o meno famosi, io quell’epoca cruciale l’ho vissuta sulla mia pelle. Vi ho partecipato. Poi, finita la buriana, mi sono buttato a leggere quello che ne era stato scritto. Non certo per crederci come fosse oro colato, ma solo per sapere cosa ne dicevano i vari storici e quelli che, dandosi le arie di storici, volevano raccontare la loro storia,. più che altro ripetendo fino alla noia la stessa “vulgata” senza sentire il minimo bisogno di cercare la verità. Anzi con una certa ripugnanza della verità se questa non faceva comodo. Troppe volte la storia viene posta al servizio della politica. Ed è un gran male.

Non sono uno storico e non pretendo di scrivere un trattato. Anzi cercherò di essere breve, ma al tempo stesso di dire molte cose, in gran parte inedite o quasi sconosciute. Soprattutto in controtendenza con l’attuale vulgata. Se i giovani mi leggeranno sarò felice. Perché è ad essi che dedico la mia piccola fatica. Affinché conoscano almeno un pezzetto di verità. Anche se non ho la pretesa di essere il depositario della verità.

Ma mi basterà anche meno. Di aver fatto sorgere in essi qualche piccolo dubbio.

 

Il 25 luglio 1943

Quella domenica mattina il Duce uscì da villa Torlonia per la solita visita al Re. Si era messo in borghese come sempre per andare dal sovrano a riferire sullo stato della guerra. Invano la brava Rachele, da saggia contadina quale era rimasta anche adesso ch’era la moglie dell’uomo più potente d’Italia, lo scongiurò di non andare. “Ti tenderanno una trappola, Benito. Piuttosto falli arrestare tutti quanti quei traditori. Telefona, falli arrestare. Ascoltami, Benito.” Ma Benito era già salito in macchina e non l’ascoltava. Aveva dormito solo qualche ora steso sul divano senza neppure spogliarsi. Era stanco morto dopo la notte infernale passata a discutere con i suoi amici di un tempo che, ora che le cose andavano male, gli stavano voltando le spalle. Eppure aveva letto due giorni prima l’ordine del giorno che Grandi avrebbe presentato in Gran Consiglio. Un documento che parlava di chiedere al Re di assumersi le sue responsabilità nella direzione suprema della guerra. E che male c’era? Era troppo stanco e ammalato, sentiva troppi forti crampi allo stomaco per ragionarci su. Un po’ di riposo non gli avrebbe certo fatto male. In fin dei conti Grandi sarebbe stato un buon presidente del Consiglio e comunque era un fascista. Il Re poi era un amico fidato, perché dubitare del suo appoggio? Ma adesso doveva correre a Palazzo Venezia nel salone del Mappamondo dove lo attendeva l’ambasciatore giapponese conte Hidaka il quale doveva riferirgli degli abboccamenti in atto con l’Unione Sovietica (con la quale il Giappone non era in guerra) al fine di chiudere il conflitto fra l’Asse e l’URSS. Se le cose si fossero messe nel modo giusto, se cioè Stalin avesse aderito a cercare una pace separata, lui, Mussolini, ne avrebbe parlato con Hitler per convincerlo della bontà della causa.

Dopo Hidaka sarebbe stata la volta del Re al quale avrebbe riferito sia del voto del Gran Consiglio, sia di quanto gli avrebbe detto di poter fare l’ambasciatore nipponico. Anzi il Re sarebbe stato contento di quel tentativo di cui non era ancora al corrente. Insomma, andando dal Re il Duce si aspettava le lodi del Sovrano. “Bravo, bravo Duce” avrebbe detto quel suo grande amico di cui lui si fidava come di un fratello. Cugino lo era per via del collare dell’Annunziata che il Re gli aveva conferito da tempo.

Sappiamo che non andò così. Fu arrestato dai carabinieri che dissero di volerlo proteggere. Il Re aveva ceduto dopo mille insistenze ai suoi consiglieri militari che lo circuivano da mesi, forse da anni, al fine di far cadere il Duce e il Fascismo con una mossa proditoria come quella che, dopo molti pensamenti e ripensamenti, venne posta in atto quella domenica di luglio. L’unica ad offendersi fu Elena, la regina montanara, venuta dal suo popolo di pastori montenegrini, in cui la parola onore aveva ancora un valore. Ad Elena sembrò che quanto era avvenuto fosse così vergognoso da chiedere al marito di tornare indietro. “Come hai potuto? In casa mia …?” Il Re, che si era dimenticato persino di scrivere un decreto per autorizzare la cattura del suo Primo Ministro, chiese timidamente ai suoi consiglieri: “Si può rimediare?” “No, Maestà, ormai non si può più …” Così il colpo di Stato fu portato a termine in modo indolore, anche perché ci fu chi pensò a metterci la ciliegina sulla torta: “Il cavalier Benito Mussolini ha rassegnato le dimissioni …” Cavaliere? Dimissioni? Quando mai? I più pensarono che il Duce fosse stato fatto sparire. Badoglio, che ne aveva preso il posto, non perse tempo. Cominciò la sistematica opera di demolizione di tutti gli istituti del Fascismo, fece eliminare chi poteva dargli pensiero, vedi Ettore Muti, ammazzato nella notte mentre, dissero, tentava di fuggire e così via. Soprattutto fece iniziare le trattative di resa con gli Alleati nel momento stesso in cui proclamava “La guerra continua”. E intanto i tedeschi, che avevano mangiato la foglia, facevano venire divisioni su divisioni in Italia e occupavano aeroporti, basi navali, punti strategici, … Ma il Maresciallo Badoglio non ci badava. Aspettava solo che scattasse l’ora della resa, poi si sarebbe visto cosa fare. L’incoscienza al potere.

 

L’8 settembre 1943 e le sue conseguenze immediate

Non esiste nella storia militare un altro esempio di simile cecità di fonte ad un pericolo annunciato, un pericolo reale sotto gli occhi anche dei bambini. Fu l’8 settembre, la fine dell’Italia e della sua dignità, del suo onore. Badoglio e i suoi consegnarono il Paese nelle mani di inglesi, americani e tedeschi. I quali se lo divisero come fosse una torta, pronti a divorarla leccandosi i baffi.

Nei Balcani milioni di nostri soldati furono posti alla mercé delle bande partigiane di Tito. Nell’isola di Cefalonia la nostra guarnigione che si era arresa ai tedeschi dovette subire una spaventosa punizione per colpa di un gruppo di sconsiderati che si mise a far fuoco sugli ex alleati ora padroni della situazione. Fu un massacro al quale fece coro il siluramento della nave che trasportava i superstiti sulla penisola. Di chi la colpa, se non di quel pugno di imbecilli vestiti da generali cui il Re aveva dato ascolto? I tedeschi per rappresaglia al tradimento catturarono seicentomila nostri soldati e li trasferirono in Germania nei loro campi di concentramento a pagare colpe non loro.

La flotta ebbe l’ordine di dirigersi e consegnarsi a Malta. Il Comandante in capo ammiraglio Bergamini non voleva farlo perché lo considerava disonorevole e preferiva affondarsi prima di consegnarsi. Non ne ebbe il tempo perché una bomba teleguidata sganciata da un aereo tedesco colpì la corazzata “Roma” appena uscita dal cantiere, un colosso di 42.000 tonnellate, su cui l’ammiraglio era imbarcato e l’affondò con tutti gli uomini che aveva a bordo. Badoglio ci aveva pensato? Cosa aveva in testa quando tramò la resa? Ai suoi soldati, ai suoi marinai, ai suoi aviatori ci aveva mai pensato? Per fortuna ci fu chi ci pensò, ma si chiamava Mussolini ed era ancora in catene.

 

Mussolini costituisce il nuovo Stato: la Repubblica Sociale Italiana

Al Centro e al Nord dell’Italia dove gli Alleati di Badoglio non erano ancora arrivati la situazione di generale sfacelo migliorò perché Mussolini (che nel frattempo i paracadutisti del maggiore tedesco Morse avevano liberato dalla prigionia del Gran Sasso) accettò di costituire uno Stato alleato della Germania: era l’unico modo per tentare di salvare il salvabile. Senza quello scudo gli italiani sarebbero stati alla mercé di un durissimo occupatore. Mussolini e la sua Repubblica Sociale Italiana conservarono, o meglio riacquistarono, l’autonomia di governo nel senso proprio del termine cioè battere moneta, avere un proprio bilancio, proprie scuole, propria magistratura, un proprio esercito, aeronautica, marina di terra e di mare, propria polizia, in altre parole una propria sovranità. Al Sud, invece, dove gli Alleati occidentali si erano installati dopo la resa senza condizioni del Governo del Re (e lo stato di guerra non era mai cessato), la moneta era quella emessa dal Governo Militare Alleato (le AM-lire), l’esercito era inquadrato nell’VIII Armata britannica (di cui portava la divisa con un distintivo particolare), l’Aeronautica faceva parte della Balkan Air Force inglese e aveva il compito di colpire le basi tedesche nei Balcani a supporto delle formazioni militari di Tito. Così ogni bomba lanciata dagli aerei avvicinava il conquistatore slavo comunista alla sua meta, Trieste.

Al Nord e al Centro e nella parte del Sud non ancora invasa la Repubblica si insediò senza contraccolpi. L’afflusso dei volontari fin dai primi giorni quando nulla era stato ancora predisposto per riceverli, fu eccezionale. In un impeto d’amor patrio (che oggi potremmo giudicare irrazionale, ma allora fu più forte di ogni calcolo) la gioventù italiana si ribellava al tradimento, non voleva arrendersi, voleva tornare al combattimento. Senza armi adeguate, senza un’organizzazione, senza uno spiraglio di speranza di vittoria. Non era quello che i giovani volevano, volevano essere ancora padroni del loro destino. Fu l’autentica rivolta popolare che l’Italia non aveva mai avuto. Si trovavano davanti alle caserme appena riaperte: “Anche tu, qui? Ma non eri contrario al Fascismo?” “E tu? Non ascoltavi Radio Londra?” Si abbracciavano ed entravano a braccetto nella caserma deserta dove un vecchio soldato tedesco distribuiva una brodaglia di crauti che solo un affamato avrebbe avvicinato alla bocca. Non è stato ancora scritto il poema di quei ragazzi che sceglievano la morte per non subire il disonore. Meglio che rimangano in un limbo senza qualifiche di nessun tipo, neanche quella di combattente perché sarebbe troppo riduttiva. Puri folli, ecco come li potrà ricordare la Storia.

Sorsero ovunque centri di reclutamento spontanei senza nemmeno aspettare che vi fossero disposizioni dall’alto, che neppure fosse costituito un Governo. “Con chi vai? Dove ti arruoli? In che Arma?” “Non mi interessa l’arma, ero della leva di mare, ma adesso …” “Vado con Lui, fino alla morte!” Il simbolo della morte, il teschio, l’avevano un po’ tutti sulla giubba. La gente guardava e non capiva. “Ma la guerra non è finita?” si chiedevano le donne guardando quei pazzi che giravano cantando in quelle strane bellissime divise che facevano impazzire le loro figlie.

A Roma l’adesione del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani provocò un’ondata di arruolamenti di generali e ufficiali di ogni ordine e grado senza pari. Cui seguì quella del resto d’Italia. Era una valanga. Tutti volevano tornare alle armi. I tedeschi osservavano stupiti. Ma allora quella che aveva tradito non era la vera Italia, era questa che si ribellava l’Italia autentica.

In campo militare comandavano, com’era ovvio, i tedeschi, ma Mussolini volle che fossero pagati per difenderci. Ogni mese un grosso assegno usciva dalle casse della Repubblica come indennità da versare all’esercito alleato per la sua partecipazione alla comune difesa del suolo italiano. Quando, a guerra finita, lo vennero a sapere i ministri finanziari del Sud rimasero di stucco. Anche dopo impiccato quell’uomo continuava dare lezioni di dignità.