Luciano Garibaldi
Lo storico Guido Deconi ha ricostruito in volume le stragi compiute dai comunisti titini non solo dei connazionali filofascisti e filonazisti, ma anche dai partigiani non comunisti, temuti antesignani di una Jugoslavia democratica
Sia in Slovenia che in Croazia», scriveva tempo addietro Robi Ronza su “II Giornale”, «alla fine della guerra i comunisti titini fecero strage non solo dei connazionali filofascisti e filonazisti, ma innanzitutto dei partigiani non comunisti, temuti antesignani di una Jugoslavia democratica che Tito vedeva come il fumo negli occhi».
E aggiungeva: «Si calcola che nei dintorni di Lubiana circa ottomila di questi ultimi siano stati sterminati e sepolti in giganteschi cimiteri segreti. Tale è la consistenza di questi cimiteri che essi sono divenuti un problema inconfessato ma reale per i progettisti delle nuove autostrade slovene e croate. Ufficialmente non esistono, ma chi traccia le nuove autostrade deve stare bene attento a non andarci dentro».
Per concludere: «Finora in Slovenia e in Croazia questi orrori continuano a venire censurati. La ragione di tale censura è che nelle classi dirigenti adesso al potere sono troppo numerosi coloro che in gioventù parteciparono a questi massacri o sono figli di persone che li diressero, o appartengono a famiglie che si arricchirono con la razzia dei beni degli uccisi e degli espulsi».
Ebbene, questa dura ma rigorosamente esatta rappresentazione della tragedia storica legata alla Slovenia ha trovato adesso una clamorosa conferma nell’opera di Guido Deconi, istriano, ma ormai milanese fin da ragazzo, che a proprie spese, e forte della sua conoscenza della lingua slovena della lingua slovena e dei vari dialetti di quella terra, ha tradotto in italiano, e pubblicato in un volume di 800 pagine, una serie di pubblicazioni semiclandestine uscite a varie riprese in Slovenia a cura di un gruppo di giovani ostili al regime che tuttora domina quelle terre, e desiderosi di mondarsi delle colpe del passato.
«Mio padre fu infoibato», mi dice Guido Deconi. «È anche per questo che ho deciso di dedicare questi anni della mia ormai non più giovane vita ad un lavoro certamente titanico, ma, a mio avviso, necessario; Per il ristabilimento della verità storica sulle terre italiane che più hanno sofferto le conseguenze della seconda guerra mondiale, e per un doveroso omaggio verso le migliaia di martiri innocenti».
Il volume di Guido Deconi ha per titolo “Slovenia: anche noi siamo morti per la patria – I sepolcri tenuti nascosti e le loro vittime”. Nel frontespizio, l’autore ha voluto scrivere: «Questo libro è dedicato alla memoria di mio padre Antonio, trucidato a Canale d’Isonzo durante i festeggiamenti del primo maggio 1945, e a mia madre Maria Angela che, essendo deceduta prima, non ha potuto assistere né alla rovinosa caduta del del comunismo ne della dissoluzione della Jugoslavia».
Incominciamo subito da un episodio di altissima drammaticità, narrato nelle pagine del commovente, anzi straziante libro-testimonianza. È il maggio 1945. Alcuni battaglioni di soldati inglesi trasferiscono su treni merci, dai campi di prigionia situati in Italia, lungo la costa marchigiana, diecimila soldati della “Difesa anticomunista del territorio sloveno”, per consegnarli agli sgherri di Tito. Sono i “domobranzi”, ragazzi che hanno risposto alla chiamata alle armi del governo di Lubiana, sotto protettorato tedesco, e hanno fatto il loro dovere, battendosi contro le bande di Tito. Il loro destino? Le foibe, dove verranno gettati vivi dopo avere subito orribili sevizie. Si erano arresi alle truppe britanniche sperando nella prigionia garantita dalla Convenzione di Ginevra. Ma gli inglesi li tradirono vigliaccamente.
Perché la storia “ufficiale” non l’ha ancora spiegato, ma qualche storico “marginale” una spiegazione l’ha data: gli inglesi dovevano in qualche modo far tacere Stalin, ch’era venuto, a conoscenza della tresca Mussolini-Churchill e minacciava il finimondo. Lo placarono dandogli in pasto 150mila ucraini, cetnici, domobranzi e mongoli che avevano servito sotto la svastica hitleriana.
Non siamo che all’inizio di una storia raccapricciante. Che incomincia con una leggenda finalmente sfatata: la guerra partigiana contro i fascisti non ebbe inizio nel 1941 in Slovenia né in Croazia né in Serbia, ma a Trieste, nell’ottobre 1943, ad opera di elementi triestini, dunque cittadini italiani, ma di madre lingua slovena. Insomma, i nonni – anche se non tutti – di coloro che ancor oggi leggono il noto quotidiano sloveno liberamente pubblicato nel capoluogo giuliano. La Slovenia è letteralmente disseminata di inumazioni di massa: domobranzi, italiani, preti e seminaristi, appartenenti alle minoranze di lingua tedesca. Su un totale di 60mila morti tra l’ottobre 1943 e gli anni post-bellici, i risultati della ricerca ci dicono che 40mila furono le persone assassinate dai comunisti e 20mila quelle morte sotto i bombardamenti alleati su Lubiana e le città costiere, oppure fucilate dai tedeschi nel corso delle loro rappresaglie, non meno feroci di quelle che sarebbero state, dopo la fine della guerra, le stragi comuniste. Gli esempi sono allucinanti. Vi si racconta, per esempio, la storia di una madre di 17 figli uccisa con braccio il suo ultimo nato, di appena un anno. Oppure le vicende dei gulag di Celjc e San Vito dove, tra il 1945 e il 1948, decine di italiani e sloveni anticomunisti furono soppressi dopo torture inenarrabili e dopo essere stati costretti a gridare «Siamo traditori! Siamo banditi!». Il libro è dunque una sconvolgente antologia di sadismo, crudeltà e ferocia.
Chiedo a Maria Renata Sequenzia, presidente del Movimento nazionale “Associazione culturale Istria Fiume Dalmazia”, un commento all’opera di Deconi: «Da queste pagine», dice la battagliera presidente, «risulta evidente il massacro di cittadini inermi e innocenti, senza alcuna distinzione di età, né di sesso: bambini, donne, vecchi, uomini, ad arbitrio totale di belve assatanate, vengono considerati nemici del regime comunista, vengono strappati, solitamente di notte, alle loro case, trascinati in luoghi rtascostì – per lo più in prigioni e campi di concentramento imparagonabili a quelli italiani – e poi sottoposti a strazi inenarrabili fino alla morte per essere infine gettati in qualsiasi buca, foiba, anfratto, bosco, abbandonati alle bestie e alle intemperie, disfatti senza nome, cancellatì, annullati».
«Il recupero, dove impossibile quello dei corpi, almeno quello della memoria», prosegue Maria Renata Sequenzia, «è il filo conduttore principale dell’attività di questo piccolo e lodevole gruppo di giovani revisionisti sloveni che hanno il merito di aver portato alla luce le malefatte dei carnefici comunisti in un quadro di orrori mai prima descritto con tanta precisione. E naturalmente, di Guido Deconi, che ha tradotto tutto in italiano».
Chiedo a Guido Deconi di spiegare il significato politico e storico dell’iniziativa cui si è ispirato il suo lavoro. «Le autorità slovene», mi risponde, «hanno approvato, almeno formalmente, delle leggi affinchè le ingiustizie venissero sanate, ma queste leggi non vengono applicate in quanto lederebbero pesantemente gli interessi degli stessi governanti che altro non sono se non gli ex portaborse dei grandi condottieri comunisti del passato. La Corte Costituzionale slovena ha abolito la cosiddetta “legge delle confische” ma non le confische avvenute sessantanni fa, che rimangono inalterate, tanto che a nessuna famiglia e a nessun avente diritto è stato restituito quanto fu tolto. Una cosa comunque si può affermare: le autorità statali slovene hanno autorizzato e finanziato alcune associazioni per la ricerca e l’individuazione dei sepolcri tenuti nascosti».
Chissà, forse lo hanno fatto per agevolare il lavoro degli ingegneri addetti alla costruzione delle nuove autostrade. Continueremo a pensarla così finché non si metteranno in ginocchio di fronte ai nostri e ai loro morti.