“Non stupisce quindi la discrasia sulla percezione e sul ricordo dei fatti alla quale si assiste a seconda che il problema venga visto da Trieste ovvero da qualsiasi altra città italiana Trieste”
A proposito delle vicende triestine del novembre 1953 Giuseppe Parlato scrive testualmente: “Non stupisce quindi la discrasia sulla percezione e sul ricordo dei fatti alla quale si assiste a seconda che il problema venga visto da Trieste ovvero da qualsiasi altra città italiana Trieste”. Discrasia fortemente ed anche soffertamene avvertita dall’opinione pubblica triestina; sovente viene imputata ad una sorta di cronica disattenzione nazionale, nei confronti di ciò che accade in questo lembo d’Italia, ai suoi confini orientali.
In realtà non è forse del tutto giusto parlare di disattenzione, quanto piuttosto (almeno in certi casi) di una oggettiva difficoltà a cogliere taluni aspetti del tutto specifici della situazione giuliana, a percepire alcune sue anomalie rispetto a quanto avviene nel resto d’Italia.
Per individuare tali specificità ed anomalie, relativamente ai “fatti del ’53”, occorre però risalire alla primavera del 1945. Nella giornata del 30 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale – Cln di Trieste ordina l’insurrezione contro i Tedeschi ed i partigiani del Corpo Volontario della Libertà prendono così il controllo della città. Il giorno immediatamente successivo, il primo maggio, arrivano a Trieste le truppe jugoslave di Tito che, come primo atto, disarmano proprio gli uomini del Cln, cercano di metter le mani sui loro dirigenti (a Trieste questi riusciranno a nascondersi ed a salvarsi; a Gorizia diversi di loro scompariranno per sempre, nelle foibe o nei gulag di Tito) e danno così inizio a quei tragici quaranta giorni di sangue e di terrore durante i quali i Triestini, a migliaia, finiranno nelle nere fauci delle Foibe carsiche o verranno caricati su camion con destinazione, senza ritorno, verso la Jugoslavia di Tito. Ci vorrà l’intervento delle truppe neozelandesi perché i Titini siano costretti ad andarsene ed il terrore abbia a cessare (almeno a Trieste, non certo in Istria dove gli uomini di Tito continuarono ad imperversare).
In definitiva, nel giro di solo ventiquattrore ore – dal trenta aprile al primo maggio – Trieste si è trovata a dover scoprire che la seconda guerra mondiale (quella degli Alleati contro i nazi-fascisti) era sì finita, ma è che era immediatamente cominciata la terza guerra mondiale (più avanti la si definirà “guerra fredda”), quella cioè che vede schierate da un lato le nazioni dell’Occidente e dall’altro quelle dell’Oriente. Terza guerra mondiale che – sia pure con certe sue regole atipiche – coinvolgerà il mondo intero per quasi mezzo secolo e cioè fino al 1989. Troverà conclusione solo quando una delle due parti contendenti (l’impero comunista) si vedrà annientata e cancellata dalla Storia nel più ignominioso dei modi: un impero (che pure controllava tanta parte del pianeta) definitivamente scomparso non per sconfitta militare e neppure per insurrezioni interne, bensì incredibilmente per pura e semplice implosione del proprio sistema politico-economico; una sorta di auto dichiarazione di bancarotta fraudolenta che non ha precedenti di sorta, in secoli e secoli di storia del genere umano.
Inizio della terza guerra mondiale, si diceva, che a Trieste viene dunque constatato (e con palmare evidenza) già dalla giornata del primo maggio 1945: in quella giornata coloro che dovevano essere gli alleati ed i liberatori (i Titini) si palesano subito come nemici temibilissimi ed occupatori la cui ferocia niente, ma proprio niente ha da invidiare a quella dei loro predecessori Nazisti.
Tutto ciò peraltro avviene mentre in Italia, al governo di Roma, siedono ancora assieme i rappresentanti di tutti e sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (Togliatti, per intenderci, è titolare del Ministero di Grazia e Giustizia) e continueranno a farlo fino al 1947, quando De Gasperi, dopo il viaggio USA, deciderà di scaricare dalla compagine governativa il Partito Comunista. Sarà poi solamente nelle successive elezioni politiche del 18 aprile 1948 che risulterà evidente, a tutti gli Italiani, la indiscutibile realtà dei due nuovi schieramenti: da un lato chi sta con l’Occidente (De Gasperi ed i suoi alleati) dall’altro chi è schierato con il blocco orientale (Togliatti e Nenni). Ma a Trieste tutto ciò era già arcinoto e lo si sapeva molto chiaramente da ben tre anni.
Anomalia triestina rispetto allo scenario nazionale, ma non è certo che a livello internazionale la situazione di scarsa percezione della novità fosse molto diversa. Infatti il Trattato di Pace di Parigi porta la data del febbraio 1947 e, nella sua dichiarata formulazione, dovrebbe immortalare gli esiti dalla seconda guerra mondiale e consegnare definitivamente il mondo all’intesa tra i suoi vincitori, gli Alleati nella lotta al nazismo. In realtà nel febbraio del ’47 i vincitori del maggio’45 non erano più Alleati, erano già divisi e ben schierati su due fronti contrapposti: URSS da un lato; USA, Inghilterra e Francia dall’altro. Nel ’48, solo pochi mesi dopo la firma del Trattato di Parigi, con il blocco di Berlino si arriverà anzi ad uno dei punti più vicini al passaggio dalla guerra fredda a quella calda, si rischierà che lo scontro politico-diplomatico degeneri in quello delle armi e della guerra calda. A Trieste, invece, il carattere non solamente politico, ma anche cruento del nuovo confronto lo si era già sperimentato nei quaranta giorni titini del maggio ’45 e lo si stava largamente continuando a sperimentare il terra d’Istria, di Fiume e di Dalmazia, ove il Maresciallo di Belgrado si era visto concedere carta bianca dai vincitori della Seconda Guerra mondiale.
Certamente anche per questa “discrasia” il Trattato di Pace di Parigi, tra le genti giuliane, meritò sempre di essere bollato come Diktat: strumento di ingiustizia (sia pure salomonica) che, della tre città italiane in discussione, ne assegnò una all’Italia (Gorizia), una alla Jugoslavia (Pola) e con la terza (Trieste) pretese costruire un fantomatico Territorio Libero che avrebbe dovuto nascere proprio quale segno tangibile della perenne intesa tra i quattro Grandi vincitori.
Tale intesa, in realtà, nel momento in cui si firmava il Trattato era già ampiamente tramontata e conseguentemente il nuovo staterello – il T.L.T.- non ebbe mai i natali: proprio perchè gli Alleati erano ormai diventati ex Alleati (anzi avversari) e non riuscirono quindi a mettersi mai d’accordo sull’avvio del nuovo Stato. Occorreva infatti procedere alla nomina congiunta di un Governatore ed a tale nomina mai si arrivò perché venne a mancare ogni accordo.
la fin fine quel Trattato di Pace si dimostrò non solo un atto di ingiustizia e di iniquità (perché volle decidere la sorte delle genti, a loro scapito e loro malgrado), ma anche un vero e proprio momento di “stupidità internazionale”, se è vero come è indubitabile che non seppe prendere atto di una novità politica essenziale e cioè dell’avvenuto inizio della guerra fredda o, se si vuole usare una più corretta definizione, della Terza Guerra mondiale.
Eppure, sarebbe bastato che i signori negoziatori, i paludati diplomatici di Parigi fossero venuti a chiedere qualche informazione a Trieste per sentirsi spiegare come stavano in realtà le cose, per scoprire che la quattro grandi potenze non erano più gli alleati del ’45, bensì i contendenti del nuovo conflitto planetario (e lo sarebbero rimasti fino quasi alla fine del secolo).
La difficile percezione nazionale delle vicende triestine va dunque largamente attribuita non a disattenzione o a cattiva volontà, ma proprio al fatto che la città giuliana visse con largo anticipo ciò che il resto della nazione italiana si trovò a sperimentare e scoprire solo più tardi.
Del resto questo del maggio ’45 non sarà il solo caso di anticipazione triestina rispetto al resto d’Italia.