Fu quella la vera notte della Repubblica

Secolo d'Italia 12/11/05

Osimo, trent’anni fa

Fu quella la vera notte della Repubblica

Luciano Garibaldi

Oggi, nell'auditorium del Museo Revoltella di Trieste, storici e studiosi faranno il punto sui trent'anni del Trattato di Osimo, anniversario finora passato quasi inosservato nelle celebrazioni pubbliche e in quelle dei mass media. D'altra parte, |a rilettura di quella pagina è senz'altro un'incombenza scomoda per gli eredi della Prima Repubblica, che con il Trattato firmò forse il più vergognoso dei suoi atti, decretando, a vent'anni dalla fine della guerra, la definitiva cessione di un pezzo d'Italia alla Jugoslavia senza neppure un tentativo di trattativa sui beni di centinaia di migliaia di esuli e sulle garanzie per la minoranza che era rimasta nell'area.

Osimo è una bellissima cittadina medievale in provincia di Ancona. Non risulta vi sia una ragione precisa per la quale fu scelta a sede per la firma di un trattato fra Italia e Jugoslavia che avrebbe dovuto sistemare definitivamente le questioni confinarie rimaste aperte dopo la seconda guerra mondiale. Il dittatore iugoslavo Tito inviò per la firma, il suo ministro degli Esteri; il capo del governo italiano, Aldo Moro, incaricò il responsabile della Farnesina Mariano Rumor. Il tutto avvenne in un clima quasi di clandestinità, voluto dal governo democristiano e favorito dal disinteresse e dall'omertà della stampa, per cui le proteste degli esuli istriani non ebbero praticamente alcuna eco se non nelle sedi della destra, e in particolare del Msi. La stessa cosa avvenne in fase di ratifica del trattato da parte del Parlamento. In gran parte latitanti i deputati della Sinistra, quelli che c'erano votarono compatti per la ratifica, assieme a democristiani e soci, mentre gli unici a opporsi furono i missini. Per la cronaca (anzi, per la storia), questi i risultati: presenti e votanti 400, votarono sì 349, no 51. E Tito si fregò le mani.

Ma che cosa stabiliva il trattato? In rapida sintesi, esso stabitiva che la cosiddetta Zona B dell'ex Tlt (Territorio libero di Trieste) sarebbe passata definitivamente alla Jugoslavia come riconoscimento dello stato di fatto determinato dalla seconda guerra mondiale. Per meglio comprendere la gravita di quell'evento, occorre partire dai 40 giorni che seguirono il 1° maggio 1945, data in cui i miliziani comunisti di Tito (il IX Korpus), che già avevano incamerato la Dalmazia e le isole italiane dell'Adriatico, occuparono Fiume, l'Istria e la Venezia Giulia spingendosi fino a Trieste. Da quel giorno, e fino al 12 giugno (data in cui gli inglesi pretesero da Tito la restituzione di Trieste, Gorizia e Pola), si verificò la terribile, seconda stagione delle foibe. Una stagione – fatta di massacri in massa e fughe disperate, verso l'Italia – alla quale gli Alleati assistettero inerti. Il dramma ebbe il suo epilogo con la firma del Trattato di Pace il 10 febbraio 1947, a Parigi.

L'evento è stato descritto dal senatore Franco Servello, ad un recente convegno del Forum Istria Fiume Dalmazia, con queste parole che riproduciamo per la loro drammatica evidenza: «L'Italia era sola. Dall'altra parte del tavolo stavano i rappresentanti di 21 nazioni, i vincitori della seconda guerra mondiale. De Gasperi non era andato. Aveva inghiottito la sua dose di fiele durante le riunioni alla Conferenza della Pace (agosto-ottobre 1946), quando Molotov, il ministro degli Esteri sovietico, leggendo un discorso scrittogli da Togliattì, aveva affermato che «l'Istria e la Venezia Giulia sono terre e popolazioni slave e non italiane». Per tutta la durata della Conferenza, il Pci, che pure in Italia era forza di governo, esercitò un'azione micidialmente contraria agl'interessi italiani e favorevole a quelli jugoslavi. De Gasperi avrebbe potuto certamente ottenere di più se avesse avuto dietro di sé l'unità di tutto il popolo. Ma i comunisti lo tradirono, e di questo tradimento raccolsero i frutti Tito e la Russia.

«Il comunista Emilio Sereni», ha ricordato Servello, «che ricopriva la determinante carica di ministro per l'Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall'Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all'opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne erano non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall'altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentivano prima di tutto italiani), minimizzò e falsificò i dati. Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c'era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di "fratellanza italo-slovena e-italo-croata", sostenendo la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, e affermando che le notizie sulle foibe erano "propaganda fascista". E invece nelle foibe erano finiti 20 mila italiani!».

L'Italia dovette dunque cedere Zara, Fiume e l'Istria. Seguì l'esodo in massa di 350 mila italiani, le cui proprietà (case, terreni) furono confiscate, mentre 60 mila rimasero sul posto riuniti nell'"Unione degli Italiani dell'lstria e di Fiume". Con la ratifica del Trattato di pace da parte del Parlamento (memorabile la condanna pronunciata da Benedetto Croce), avvenne la definitiva perdita della sovranità italiana su quei tenitori, italiani fin dai tempi di Roma. Nacque il Tlt, ad opera della Commissione interalleata, alla quale la Conferenza di Parigi aveva affidato il compito di tracciare il nuovo confine italo-jugoslavo. La Russia pretendeva che l'intera Venezia Giulia fosse consegnata all'alleato Tito. Si giunse a un compromesso: la Zona A (in pratica la sola città di Trieste) agli Alleati, la Zona B (Capodistria, Pirano, Umago, Cittanova e Buie) a Tito. Subito i comunisti iugoslavi si scatenarono contro gli italiani di quelle città: confiscarono, licenziarono, perseguitarono, chiusero scuole e fabbriche italiane.

Il 20 marzo 1948 Usa, Gran Bretagna e Francia chiesero, con una «dichiarazione tripartita», che l'intero Tlt venisse restituito all'Italia. L'Urss s'impuntò: mai! A questo punto avvenne la rottura tra Tito e Stalin e la "dichiarazione tripartita" passò rapidamente nel dimenticatoio, fino al compromesso (o memorandum) di Londra del 5 ottobre 1954, cui aderì l'Italia calabraghe: riconosciuta l'impossibilità di realizzare uno Stato autonomo chiamato Tlt (sul tipo di San Marino, Montecarlo, Liechtenstein, Andorra), si affida la Zona A all'Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Tutto fermo per oltre 20 anni, finché, il 10 novembre 1975, ai giunse, praticamente in clandestinità, al trattato di Osimo, con il quale l'Italia rinunciava definitivamente a ogni pretesa sulla Zona B. Sdegnato, l'ambasciatore Giuriati, capo della commissione mista italo-jugoslava per i confini, rassegnò le dimissioni: «Si poteva negoziare. Bastava un po' più di spina dorsale».

Nel giugno 1991, Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza. La Jugoslavia non c'era più. Dunque, il trattato di Osimo diventava automaticamente nullo. Ma in Italia nessuno – salvo la solita Destra che, da sempre, abbaia ma non morde – si mosse. E così fino ad oggi. Abbiamo chiesto un commento a Maria Renata Sequenzia, presidente.del "Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia": Ecco le sue parole: «Spero che l'anniversario di Osimo non sia accompagnato dalla solita routine – a volte pigramente ripetitiva – di più o meno retorici discorsi ufficiali, squilli di fanfare, sventolio di bandiere, parate militari, premiazioni di cittadini – vivi o morti -esemplari per meriti civili o bellici. Infatti tale data non offre, a nessuna delle istituzioni ufficiali che presiedono e guidano la nostra collettività nazionale, alcun elemento, civile, morale, soprattutto politico, a cui richiamare la coscienza dei cittadini, specialmente i giovani, all'oscuro di tante pagine poco insigni della nostra storia. Il 10 Novembre 1975 rappresenta uno dei momenti più oscuri e di maggiormente vergognose conseguenze della già di per sé tragica disfatta della seconda guerra mondiale. Al mio cuore d'italiana, discendente da una parte da uno dei tanti "picciotti" garibaldini siciliani (che feci in tempo a

conoscere alla soglia dei suoi lucidi 100 anni), e dal nipote di questi, mio padre, combattente dal Carso in poi in quasi tutte le campagne che resero grande la nostra patria, Africa compresa; discendente dall'altra dagli allora "irredenti" istriani, che grazie a tutte le vicende del nostro Risorgimento, a cui anch'essi parteciparono, meritando dallo straniero persecuzioni e forche, completarono la nostra irrinunciabile unità, a questo mio cuore quella data rappresenta uno strazio irrimediabile».

Essa sancì la definitiva cancellazione di oltre un secolo di storia, con la svendita, addirittura senza neppure il mercanteggiamento d'uso tra opposte piraterie levantine, dell'ultimo lembo di terra italiana. Al di là di ogni discussione e approfondimento teorico circa le responsabilità dei singoli e dei gruppi politici, non si e mai incontrato qualcuno che abbia sollevato un dibattito – oggi per forza accademico, domani chissà? – sul valore delle disposizioni dell'articolo 241 del Codice penale, che stabilisce la pena dell'ergastolo «per chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio 0 una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero». Articolo imprescrittibile. Ma esistono oggi uomini politici, di qualunque ideologia, capaci di affrontare un simile argomento?