Nelle carceri di Tito 50mila italiani

Il Piccolo 02/06/07

STORIA I documenti dedicati alle vicende dei prigionieri di guerra sono stati secretati fino al 1997

Un saggio di Costantino Di Sante racconta una tragedia a lungo taciuta

Nel maggio 1945 la Venezia Giulia sotto il controllo dei partigiani di Tito, fu considerata zona annessa alla Jugoslavia e divisa in due zone: Litorale sloveno e Istria croata. «Secondo gli jugoslavi, questa inclusione fu il risultato di considerazioni differenti, e attinenti alla natura stessa del territorio e della nazione jugoslavi: la configurazione geografica, le questioni etniche ed economiche, e soprattutto le valutazioni storiche e politiche. In particolare, veniva rivendicato l’apporto determinante dato alla lotta di liberazione dal nazifascismo e si denunciava l’aggressiva politica imperialistica italiana che aveva portato repressioni, snazionalizzazioni e oppressione culturale delle comunità slave». La crisi che aveva investito parte di questo territorio si risolse solo il 9 giugno seguente con l’accordo di Belgrado tra angloamericani e jugoslavi. Il temporaneo compromesso trovato portò alla delimitazione del settore (linea Morgan) in due zone: quella B, che rimase sotto la Jugoslavia, e la zona A, comprendente anche la città di Pola, sotto il controllo del «Governo militare alleato».

Durante la dominazione jugoslava si registrarono arresti, spoliazioni, condanne, uccisioni e deportazioni. Quest’opera di «epurazione» colpì fascisti e collaborazionisti, ma anche coloro che semplicemente si opponevano all’annessione, e non mancarono casi di vendette e omicidi.

Malgrado il coinvolgimento nelle violenze anche di persone non direttamente compromesse con il passato regime, le direttive delle autorità jugoslave non miravano a colpire gli «italiani» in quanto tali. In questo senso i dispacci di Edvard Kardelj, inviati ai capi sloveni, furono molto chiari: «È necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all’Ozna «Organ Zasvtite Naroda (Armije) – polizia segreta jugoslava» per processarli. Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo».

Non sempre queste disposizioni furono seguite dai partigiani titini nel caotico maggio del 1945. Alcune delle persone catturate furono eliminate arbitrariamente o giustiziate e gettate nelle foibe. Comunque, la maggior parte degli arrestati fu rilasciata dopo pochi giorni, mentre altri finirono nei campi di concentramento e nelle carceri jugoslave. Una buona parte di questi, durante l’estate successiva, fece ritorno in Italia; altri, condannati ai lavori forzati, tornarono dopo diversi mesi o morirono di stenti durante la dura detenzione. Le liste dei presunti «dispersi» stilate nel dopoguerra, in quanto non sempre aggiornate rispetto ai rimpatri avvenuti, hanno favorito tesi esagerate sul numero di caduti e, soprattutto, degli infoibati.

Nel corso degli anni Venti e Trenta, la città di Trieste aveva visto sorgere e affermarsi un «fascismo di frontiera» aggressivo e nazionalista. La politica che il regime fascista aveva attuato nella Venezia Giulia si era contraddistinta per l’oppressione delle minoranze slovena e croata e per l’opera di snazionalizzazione di quei territori, supportata da una forte propaganda di razzismo antislavo. All’opera di italianizzazione forzata si erano affiancate l’azione poliziesca e l’attività del Tribunale speciale per la difesa dello Stato contro gli antifascisti e il ribellismo di sloveni e croati. Su queste direttrici, Mussolini cercò di saldare il consenso della comunità italiana. Consenso garantito «dalla maggioranza dei ceti piccolo e medio-borghesi “educati” a identificare l’italianità con il fascismo». Sono le basi sulle quali il fascismo di frontiera preparò e mise in atto la conquista verso l’Oriente balcanico, tenendo desta l’attenzione sui temi irredentistici della «Dalmazia Italiana».

Durante la campagna militare, Trieste e l’intero Friuli Venezia-Giulia rappresentarono le immediate retrovie con le quali garantire l’espansione e l’annessione dei territori conquistati ad Est. Ma è con l’occupazione tedesca, dopo l’8 settembre 1943, e la costituzione della Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona di operazioni del Litorale adriatico) che la città e le province comprese in questa vasta regione furono direttamente coinvolte nella feroce repressione nazifascista. Il simbolo di questa violenza fu rappresentato dal Polizeihaftlager (campo di detenzione e di polizia) della Risiera di San Sabba. Il campo ebbe molteplici funzioni, anche di smistamento degli ebrei verso Auschwitz, ma fu soprattutto un campo di tortura, detenzione ed eliminazione dei resistenti.

Significativa, nell’opera di repressione, fu la collaborazione dei reparti di polizia italiani e dei nazionalisti sloveni e croati. Nella complessa situazione in cui si venne a trovare la città di Trieste, un ruolo ambiguo fu giocato anche dal podestà Cesare Pagnini e dal prefetto Bruno Coceani, graditi ai tedeschi, come parte delle classi dirigenti che benevolmente si schierarono con questo in chiave antislava. La costituzione della Guardia Civica, con compiti istituzionali e di controllo repressivo, fu piuttosto equivoca: di fatto rappresentò lo strumento attraverso il quale i tedeschi reclutavano e tenevano sotto controllo i giovani che avrebbero potuto aderire al movimento di resistenza. Questo, inoltre, era egemonizzato dal Of che guardava con sospetto l’antifascismo italiano. Per chi non aveva ancora militato nel partito comunista, l’adesione a questo non risultò semplice.

Nella città, ma anche nella Venezia Giulia, il movimento italiano di Resistenza si scontrò con quello jugoslavo sulla questione nazionale. I difficili rapporti furono segnati dall’intransigenza di Tito nel voler occupare e annettere gran parte della Venezia Giulia, e da una oscillante politica del Pci sulla questione del confine orientale. Contrasti che si consumarono anche all’interno del Cln giuliano, con l’uscita dei comunisti, e che videro il loro epilogo più tragico con l’eccidio di Przûs, in cui i partigiani garibaldini, il 12 febbraio 1945, uccisero gli altri partigiani appartenenti al formazione «Osoppo» composta da democristiani e azionisti.

Il Cln triestino dovette combattere su due fronti: l’occupazione nazifascista e le mire annessionistiche jugoslave. Il 30 aprile si trovò persino a respingere le proposte di un’unione con i fascisti in chiave anti jugoslava.

Costantino Di Sante