L’immagine dei corpi gettati negli abissi carsici durante la seconda guerra mondiale rimane il documento più sconvolgente di una stagione di morte. Ma quella barbarie non fu che un aspetto del genocidio degli italiani.
Dopo l’8 settembre’ 43 la repressione slava colpì le figure più rappresentative delle comunità italiane dell’Istria.
Nel maggio 1945 tutta la Venezia Giulia cadde in mano titina e la ferocia della repressione colpì Trieste e Gorizia
La tragica scelta tra foibe ed esilio di Raoul Pupo
da “Il Giornale” 17 maggio 2005
Si parla di foibe, ma è sbagliato. Si dovrebbe parlare di stragi jugoslave nella Venezia Giulia. Non è solo un problema di nomi, ma di evitare equivoci nei quali si infilano con disinvoltura i negazionisti. Certo, l’immagine più sconvolgente di quella stagione di morte rimane quella dei corpi gettati nelle profondità degli abissi carsici, e quell’immagine si è fissata nella memoria come simbolo di una volontà di cancellazione totale. Però quel modo così efferato di somministrare la morte non fu che un aspetto di un fenomeno di proporzioni ben maggiori: le stragi appunto, perpetrate dai partigiani e dalle stesse autorità del nuovo Stato iugoslavo nell’autunno del ’43 e nella primavera del ’45, e che nella Venezia Giulia fecero alcune migliaia di morti, molti più di quante non siano le vittime ritrovate – o ancora celate -nelle foibe del Carso.
Episodicamente, le foibe furono usate come barbare sepolture anche in altri casi: forse dai fascisti nel ’42 e nel ’43, sicuramente dai partigiani jugoslavi negli ultimi anni di guerra. Ma il punto non sta in una tecnica di omicidio diffusa in tutta l’area jugoslava: il punto sta nella strage di fasce di popolazione inerme, nell’inserirsi della violenza politica programmata sul terreno di odi nazionali, contrapposizioni ideologiche e rancori personali creatosi nei precedenti decenni.
Dopo l’8 settembre dei ’43 la repressione colpì soprattutto le figure più rappresentative delle comunità italiane dell’Istria, talvolta eliminando interi nuclei familiari, e fece centinaia di vittime. Nel maggio del ’45, quando per 40 giorni tutta la Venezia Giulia fu in mano jugoslava, l’epicentro si spostò verso le città maggiori e principalmente a Trieste e Gorizia, limite estremo delle rivendicazioni territoriali jugoslave. Ancora una volta, nel clima di «resa dei conti» per le colpe del fascismo – che moltiplicò in maniera impressionante le delazioni – si inserì la violenza di Stato, che mirava a eliminare intere categorie di persone. Tutte le forze armate che non rispondevano al comando jugoslavo, e quindi tedeschi, militari di Salò e del Corpo italiano di liberazione, assieme a partigiani italiani del Cln fucilati sul posto o deportati nei campi di prigionia, dove nel corso dell’estate denutrizione e sevizie mieterono un gran numero di vittime. Assieme a squadristi, torturatori e spie dei nazisti, tutti i rappresentanti dello Stato, del regime fascista, di quel potere italiano di cui si voleva eliminare ogni traccia. Tutti coloro che, per i più svariati motivi, si erano posti di traverso al movimento dì liberazione jugoslavo, o che, per i loro trascorsi patriottici e per la loro opinione manifesta, sembravano sicuramente avversi all’annessione alla Jugoslavia.
Questa era infatti la priorità assoluta del nuovo regime, che per realizzarla non lasciò nulla di intentato: una spericolata avanzata su Trieste -liberata dai tedeschi parecchi giorni prima di Lubiana e Zagabria -, una forte azione diplomatica verso gli alleati e una rigorosa «epurazione preventiva» della società locale, che a Trieste e Gorizia produsse più di l0mila arresti. Fortunatamente, la maggior parte dei deportati fece ritorno dall’inferno dei campi di concentramento, ma di alcune migliaia non si seppe – né si sa tuttora – più nulla. Fra gli italiani, l’ondata di panico fu enorme, e del resto il fine intimidatorio era ben presente nella repressione. Nessuno doveva avere dubbi: esisteva un nuovo potere, jugoslavo e comunista, e porlo in discussione avrebbe condotto alla morte. Volere l’Italia, era un crimine da scontare con la vita.
Ciò non significa che nell’estate del ’45 i dirigenti jugoslavi avessero già deciso di cacciare tutti gli italiani dalla Venezia Giulia, perché ciò sarebbe stato contro i loro interessi. Di alcuni di quegli italiani i nuovi poteri avevano bisogno, per mostrare che buona parte della popolazione, non solo slava, era loro favorevole e anche per rafforzare il nuovo regime in Jugoslavia. Si trattava di quelli che venivano definiti gli «italiani onesti e buoni», cioè della classe operaia di Fiume, Trieste e Monfalcone. Una classe operaia numerosa, di profonde tradizioni internazionaliste, poco legata allo Stato italiano e dispostissima a battersi per la Jugoslavia comunista piuttosto che per l’Italia capitalista. Una classe operaia, infine, che avrebbe costituito la maggior concentrazione di proletariato in uno Stato che stava vivendo una rivoluzione bolscevica, ma in cui gli operai erano decisamente assai pochi. Per questi comunisti giuliani di lingua italiana venne inventata la politica della «fratellanza italo-jugoslava».
Tutti gli altri italiani invece, erano considerati «residui del fascismo». Si trattava degli strati urbani, che rappresentavano il nerbo dell’italianità giuliana e venivano percepiti come i «nemici storici» dei movimenti nazionali sloveno e croato: per loro, nella Jugoslavia di Tito non c’era sicuramente posto. Qualche spazio forse ci sarebbe stato per i contadini, ma l’ingerenza dello Stato nella gestione della terra, sommata all’aggressione contro la loro identità nazionale e religiosa, schierò anche gli agricoltori italiani contro il regime.
Alla fine, della politica della «fratellanza» funzionò solo la parte negativa: le pressioni ambientali, costellate di intimidazioni e violenze, e sostanziate dalla distruzione delle basi materiali e dal ribaltamento degli equilibri nazionali e sociali su cui si reggeva il gruppo nazionale italiano, non lasciarono agli italiani «sbagliati» altra scelta se non quella dell’Esodo. Quanto alla classe operaia, la sua sorte fu paradossale. Trieste e Monfalcone non furono assegnate alla Jugoslavia e perciò i comunisti locali continuarono a battersi per Tito, mentre a Fiume, a Pola e a Rovigno i comunisti italiani, dopo gli entusiasmi iniziali, si accorsero ben presto che la versione slovena e croata dell’internazionalismo era alquanto diversa dalla loro, e finirono per andarsene tutti, come i loro fratelli italiani di altra estrazione sociale.
Così l’Istria cambiò voltò, come conseguenza non solo della paura ereditata dalla stagione sanguinosa delle foibe, ma di una crisi assai più generale. Tutte le comunità italiane, quale prima quale dopo, furono costrette a rendersi conto che mantenere la loro identità nazionale nella Jugoslavia di Tito era semplicemente impossibile. Perciò, dovendo scegliere tra la propria terra e la loro italianità, scelsero l’Italia, con un sacrificio straziante del quale per decenni gli altri italiani non solo non hanno ringraziato gli esuli, ma del quale in buona parte non si sono nemmeno accorti.
Raoul Pupo