Don Francesco Bonifacio : quel sacerdote martire istriano della libertà
Il Piccolo 16/09/05
«Largo don Francesco Bonifacio sacerdote istriano e martire per la fede». È così che si chiama dal 10 settembre lo spazio che unisce il viale XX Settembre alla via Muratti. Molti saranno coloro che si chiederanno cosa abbia fatto di straordinario questo sacerdote, per essere martirizzato e oggi ricordato e onorato sia dalla chiesa sia dal mondo laico. Io stesso, che ho vissuto per sette anni al suo fianco, provo fatica a trovare in don Bonifacio qualcosa di diverso di quello che si trova in un bravo sacerdote.
Gardossi, Crassizza, Baredine, Barazzia, Punta, Lozzari e tante altre case sparse nella campagna formavano il territorio della sua missione.
Don Francesco, con la sua bicicletta o a piedi e con ogni tempo, era sempre pronto a intervenire in ognuna di quelle case dentro le quali, dalla nascita alla morte, tutto si compiva. Ero un bambino, ma lo vedo ancora, curvo sul letto, a scandire le ultime preghiere all’orecchio dei morenti. D’inverno, con le scarpe infangate, lo s’incontrava che ritornava a casa spingendo stancamente la bicicletta. Lo ricordo quando, dopo uno scontro notturno tra fascisti e partigiani, mi chiese di aiutarlo alla ricerca dei morti per dar loro una sepoltura.
Erano quasi tutti anni di guerra e la strada che attraversava il villaggio ci faceva vivere in diretta quelle tragedie. Quando nel buio della notte sentivamo bussare alla porta di casa, non era facile capire chi fosse a bussare. Per fortuna accadde in un solo caso l’incontro contemporaneo di due fazioni contrapposte, nel quale ci furono dei morti. Eravamo tanto abituati a questo trafficare che noi bambini andavamo a scuola o in chiesa e i carri Tigre ci passavano con i cingoli a pochi centimetri dalla spalla. Quando, dopo tutto questo, arrivarono in pace gli angloamericani, con il lancio di cioccolate e sigarette, imparammo presto che il solo salutarli poteva essere per noi compromettente, perché stava già nascendo una nuova dittatura.
In tutto questo sconquasso, l’unico luogo dove ancora non ci si sentiva degli estranei era la chiesa con il suo sacerdote, e più questa la sentivamo minacciata, più ci stringevamo intorno a essa. Ecco perché don Bonifacio fu fatto sparire, perché era l’unico depositario dei valori nei quali potevamo riconoscerci. Ricordo bene la sera nella quale fu fermato dalle guardie popolari a poche centinaia di metri da casa mia, come pure ricordo le iniziative che furono prese il giorno successivo, nella speranza di vederlo tornare a casa, ma don Francesco non ritornò più e la comunità si disintegrò.
Dei circa mille e trecento abitanti, mille scelsero la strada dell’esilio.
Nell’opera di un grande pensatore e filosofo sta scritto che il male d’ogni dittatore sta nella presunzione di saper interpretare i bisogni d’ogni individuo. Don Bonifacio fu vittima di questa presunzione, infatti, appena la dittatura allentò la sua presa, nel ripristino di quella chiesa saccheggiata la comunità si ritrovò unita e solidale come nel passato, se pur nella vastità dei continenti e non più nei limiti di quel triangolo che unisce Buie, Grisignana e Verteneglio.
Ecco perché vorrei non fosse vera la frase secondo la quale «la storia c’insegna che la storia non insegna». La storia dovrebbe insegnarci a trarre dalle inutili tragedie del passato un monito per il futuro, perché gli aspiranti dittatori, con le loro presunzioni e utopie, non mancheranno mai.
Romano Gardossi