Le missioni oltre la linea di confine coordinate da carabinieri e militari italiani
da “Il Piccolo” 22 luglio 2005
di Pietro Spirito
Nell’ottobre del 1957, carabinieri e militari dell’esercito italiano in assetto da combattimento entrarono in missione segreta, a più riprese, in territorio jugoslavo per visitare alcune foibe dove erano state compiute esecuzioni sommarie. Nel corso delle operazioni vennero esplorate quattro cavità con vari resti umani, furono scattate fotografie e redatti rapporti.
La missione, organizzata con ogni probabilità dal Sifar, il servizio segreto antenato dell’attuale Sismi, era stata preceduta da un’operazione di copertura a Trieste, con l’esplorazione delle foibe di Monrupino e Basovizza.
A rievocare questi fatti oggi è Mario Maffi, 72 anni, di Cuneo, allora giovane sottotenente di complemento del Genio pionieri alpini inquadrato nella Compagnia «Orobica» di Merano. Fu proprio Maffi, agente segreto per caso, l’ufficiale che materialmente si calò nelle foibe nel corso degli sconfinamenti in Jugoslavia per raccogliere la documentazione richiesta.
Mario Maffi venne arruolato nella missione in virtù della sua esperienza di speleologo e di esperto di esplosivi, e oggi la sua testimonianza aggiunge un tassello nuovo a uno dei capitoli più drammatici della storia delle nostre terre.
La vicenda comincia all’inizio dell’ottobre 1957. Allora presidente del Consiglio è Adone Zolli, vicepresidente Giuseppe Pella, ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, il governo è retto dalla Dc. Mario Maffi ha 24 anni, la sua famiglia vanta solide tradizioni militari e antifasciste: il nonno era stato ufficiale del battaglione Monviso nella prima guerra mondiale, il padre è ufficiale all’Istituto geografico militare, sua madre era stata partigiana, e lo stesso Maffi da bambino aveva operato come staffetta nella Resistenza. Quando viene chiamato a svolgere il servizio militare Maffi sceglie di fare l’ufficiale di complemento. Il giovane è anche uno speleologo esperto: è stato tra i fondatori del Gruppo Speleo Alpi Marittime del Cai di Cuneo, all’interno del quale svolge ancora oggi attività speleologica e didattica. Dopo il servizio militare Mario Maffi entrerà alla Fiat, dove rimarrà fino al 1988. Andrà in pensione con un anno di anticipo perché il periodo passato a Trieste verrà considerato come «missione di guerra».
All’inizio di ottobre del 1957, al termine delle esercitazioni estive, Mario Maffi viene convocato al Comando di Brigata. «Il generale – racconta oggi – mi disse che per una certa missione serviva un ufficiale esperto di grotte e di mine; mi disse anche la missione era coperta dal più assoluto segreto militare, e che era volontaria; non ero obbligato ad accettare, e inoltre l’operazione comportava anche un certo rischio».
Maffi accetta l’incarico. Scrive due lettere per i suoi cari che affida al cappellano («se non dovessi tornare per favore le spedisca», gli dice) e pochi giorni dopo parte. Nessuno gli spiega dove sta andando, e lui non deve fare domande. Si ritrova nella caserma dei carabinieri di Monfalcone, e qui finalmente viene a sapere quale sarà il suo incarico: dovrà scendere, assistito dgli speleologi del Gruppo grotte di Monfalcone, nella foiba di Monrupino «per constatare o meno la presenza di spoglie umane, stimarne la quantità e documentarle con fotografie». Successivamente dovrà fare lo stesso nelle foiba di Basovizza.
Il giovane tenente non ha mai sentito parlare di foibe, anzi quella parola, «foiba» la sente per la prima volta all’imbocco del cavità di Monrupino, prima di calarsi giù. Maffi non sa nemmeno che l’esplorazione delle due cavità triestine non è altro che un’operazione di facciata, e che la vera missione, ben più pericolosa, deve ancora cominciare. Del resto sia il pozzo della miniera che la foiba 149 sono già state esplorate in precedenza, e a più riprese. Ma a queste cose l’ ufficiale non pensa mentre scende nei 126 metri della foiba di Monrupino. Assieme a lui c’è un noto speleologo monfalconese, Giovanni Spangher. «Fui calato con una specie di seggiolino – ricorda – e quando arrivai in fondo mi sentii accapponare la pelle: tra il pietrisco su cui camminavo spuntavano ossa umane, una mandibola, alcune costole, l’intero braccio di un bambino che avrà avuto non più di otto anni viste le dimensioni delle ossa». Maffi scatta fotografie e prende appunti.
Accerta che le pareti della grotta sono state fatte saltare con esplosivo, e ipotizza altri resti umani sotto i detriti, probabilente quelli «dei soldati tedeschi degenti all’ospedale di Trieste, che si diceva fossero stati gettati nella grotta prima di farla saltare».
Il giorno dopo è la volta della foiba di Basovizza. La missione dovrebbe essere segreta, in realtà si volge alla luce del sole e in seguito i giornali ne parleranno anche ampiamente, con tanto di nomi e cognomi. La discesa nel pozzo della miniera avviene con l’ausilio degli speleologi della Commissione grotte «E. Boegan» dell’Alpina delle Giulie. Stavolta per scendere e salire vengono utilizzate le scalette, e Maffi impiega quasi un’ora solo per scendere i 130 metri di pozzo artificiale. «Sul fondo – racconta oggi – non c’era niente, solo immondizia; là dentro avevano scaricato di tutto, anche materiali bituminosi che avevano lasciato una specie di bava saponosa sulle pareti del pozzo; il fondo era melmoso e maleodorante; mi dissero che i resti umani erano più sotto, coperti dal materiale di scarico; dov’ero io però non c’era nulla, a parte una ruota di bicicletta e altre porcherie». Maffi esegue il suo lavoro e torna su. La missione si conclude con una lauta cena offerta dall’esercito a tutti gli speleologi, con brindisi e foto di rito.
Il giorno dopo la musica cambia. A Maffi viene illustrato il nuovo piano operativo. Gli ordinano di non avere rapporti con nessuno, di diffidare di chiunque, di vestire abiti borghesi. I carabinieri gli consegnano documenti con falsa identità, gli dicono di restare nella camera d’albergo e di non muoversi. «Rimasi segregato un paio di giorni – racconta -, uscivo a passeggiare la mattina ma il pomeriggio stavo chiuso in camera in attesa di ordini; poi mi fecero cambiare albergo». Comincia la vera missione: «Ogni pomeriggio mi veniva recapitata una lettera normalissima con l’indirizzo scritto a mano; all’interno c’era una seconda busta sigillata con scritto “Da aprire solo dopo le ore x”, e dentro questa c’erano le istruzioni alle quali dovevo attenermi».
Per quattro notti consecutive tutto si svolge nello stesso modo. All’ora convenuta il tenente Maffi apre la busta, verso del 23 esce dell’albergo e seguendo le istruzioni raggiunge un’auto civile con persone in borghese.
Nessuno parla, nessuno chiede niente. L’auto raggiunge una zona poco frequentata, sempre diversa, dove c’è una «Matta», la camionetta dei carabinieri. Maffi si avvicina e pronuncia la parola d’ordine («erano frasi del tipo: avete un sigaretta?»), gli viene risposto con la contro-parola (tipo: «di che marca?»), e quindi l’ufficiale salta sul mezzo. «Mentre la camionetta camminava – ricorda Maffi – mi cambiavo indossando tuta, elmetto, scarponi, cinturone con pistola e due caricatori, uno innestato e uno in fondina; a fine corsa scendevo, e scortato da due carabinieri armati ma senza mostrine e gradi proseguivo per un lungo tratto fra le sterpaglie; a un certo punto i miei accompagnatori si fermavano e piazzavano il mitragliatore pesante in postazione mascherandolo con alcuni rami; messi i colpi in canna un solo milite, strisciando con me, mi indicava il percorso fino a quando potevo individuare nel buio la dolina prescelata; da lì proseguivo da solo fin sull’orlo della foiba». Il giovane tenente ha con sè due spezzoni arrotolati di scala da dieci metri l’uno, senza fare il minimo rumore per non essere scoperto dalle pattuglie jugoslave fissa la scala a un appiglio sicuro, poi scende nella foiba senza sicura. Arrivato in fondo documenta quanto vede, poi torna su con la massima cautela. Recupera le scale, le arrotola e strisciando raggiunge il compagno non prima di aver lanciato il segnale convenuto, «un fischio a imitazione del verso del gufo».
«Questa storia – dice ancora Maffi – si ripetè per quattro notti durante le quali visitai quattro foibe diverse tutte oltre la linea del confine; mi avevano detto che le imboccature potevano essere minate, ma solo una volta mi imbattei in un oggetto che poteva essere una mina e girai al largo».
Sul fondo di quelle foibe Maffi riscontrò «diversi resti umani, non in quantità esorbitanti ma, purtroppo, in condizioni atroci: alcuni teschi con lo sfondamento della nuca, mani o piedi avvolti da filo spinato, la stessa cosa su una cassa toracica; trovai uno scheletro rannicchiato in un anfratto: quel poveraccio doveva essere ancora vivo quando lo gettarono giù; alcuni avevano lembi di divise militari o vestiti civili, per altri non c’era traccia di indumenti; ricordo un cranio con i capelli lunghi, probabilmente una donna; in tutte e quattro le foibe era stato usato l’esplosivo».
La mattina dopo la quarta sortita Maffi viene svegliato dal portiere dell’albergo: «Mi disse che il signor tal dei tali mi aspettava nella hall; era un segnale convenuto, significava che dovevo lasciare l’albergo in tutta fretta, il controspionaggio era venuto a sapere qualcosa». Due giorni dopo il tenente Maffi è di nuovo a Merano. In caserma stampa le fotografie, di nascosto fa una copia per sé («ma solo di quelle delle foibe di Monrupino e Basovizza, purtroppo») e scrive il suo rapporto, notando che almeno per le foibe triestine «a mio avviso non era possibile organizzare un recupero di salme».
La storia della missione segreta del tenente Maffi termina qui. Ancora oggi l’anziano speleologo cuneese non saprebbe indicare quali furono esattamente le cavità da lui visitate in Jugoslavia, né perché il nostro governo decise quella missione, e neppure dove si trovano i documenti relativi l’intera operazione. Questa, casomai, è materia da storici. Mario Maffi sa solo che dopo il congedo e una vita dedicata al lavoro nelle officine della Fiat, adesso che è un pensionato come tanti il ricordo di quella missione da 007 gli è rimasto impresso nel fondo dell’animo, e che quando sente pronunciare la parola «foiba» viene preso da un nodo alla gola.