Le Foibe su Monte Maggiore – racconta un lettore de Il Gazzettino

I RACCONTI DEI LETTORI

Le foibe del Monte Maggiore

Durante l’occupazione del litorale istriano da parte delle bande slavo-titine, nel settembre del 1943, vissi a Laurana giorni terribili.

Eravamo in preda alla disperazione, poichè, accanto all’angoscia per la nostra sorte che ci torturava ora dopo ora, ci giungevano da ogni parte le notizie più orripilanti. A Laurana (ove vissi dal febbraio del 1936 al dicembre 1943) come ad Abbazia, ad Icici, ad Ica, a Medea, continuava la sequela dei “ricercati”, dei “prelevati”, dei “torturati” e degli “infoibati”. Papà era stato condannato da un “tribunale del popolo” al martirio delle “foibe” perchè “italiano” e direttore dell’Ufficio Postale, e per questo tutta la mia famiglia trovò un rifugio sicuro in una villa vicina alla nostra, presso la professoressa Vescovich che salvò la nostra vita, mettendo a rischio la propria. Non c’era giorno che non prelevassero da Laurana o da altre frazioni vicine qualche italiano. Dopo averli sottoposti ad un doloroso e lungo tragitto a piedi nudi, essi venivano torturati, uccisi e, poi, gettati negli anfratti del Monte Maggiore.

Il Monte Maggiore (oggi ribattezzato Ucka) è il più alto monte dell’Istria; il terzo o il quarto in ordine di altezza di qulli che segnano il confine della Liburnia, che partendo dalla valle di Fianona, ridiscende al mare nella Forra di Polvilje. Dall’ex Rifugio Duchessa d’Aosta (a 922 metri) potei più volte ammirare l’intero “Golfo del Quarnaro”. “Villa Carlotta” – la mia abitazione – si adagiava sulle colline che fanno da cuscinetto alla montagna istriana sulla quale vivevano, secondo un’antica leggenda raccontata dai pescatori del luogo, alcune famiglie di stregoni. Essi accendevano grandi falò sulle pendici e nelle caverne; così la terra, dolorante e indispettita per le scottature, cominciava ad agitarsi e muoveva venti violentissimi che provocavano forti tempeste e uragani. Ben altri stregoni albergavano sul Monte Maggiore nel settembre del 1943! Ben altri fuochi! L’uragano dell’odio etnico si scatenò sugli italiani inermi e innocenti con inaudita efferatezza.

Nei giorni successivi all’8 settembre, perdurando l’occupazione e le persecuzioni dei partigiani slavi, erano assai rari i contadini che scendevano dalle loro piccole borgate di collina per allestire il consueto “mercatino”. Era fame! Mi sentivo rabbrividire quando essi mi raccontavano quello che avevano visto lungo i pendii del Monte Maggiore. Un mio compagno di scuola – un certo Bernecich che abitava in un casolare sperduto e che amava passeggiare con me nei fitti boschi – mi raggiunse nel giardino di “Villa Carlotta” e mi disse: “Carlo, questa mattina ho visto salire in alto tre uomini, legati tra loro da una fune, costretti a camminare a piedi nudi, di continuo bastonati. Poi, d’improvviso, li vidi scomparire uno ad uno, gettati in un burrone profondo moltissimi metri”. Solo dopo la guerra imparai a chiamare col nome di foibe quegli enormi baratri, fattisi oggi nella nostra memoria altrettanti simulacri.

Un giorno volli spingermi al di là delle “terre rosse” (un terreno scarlatto, estremamente friabile e morbido, simile alla sabbia). Due boscaioli mi invitarono a fare ritorno in paese; e, indicandomi la vetta del Monte Maggiore, mi dissero: “Vedi, lassù… In questi busi ne buttano giù ogni giorno; se ci sentono parlare italiano, i ne butta dentro anche noi senza discuter”. Un altro contadino, intento a zappare la terra, mi disse: “Qui passano i partigiani spingendo verso l’alto della montagna alcune persone prelevate nelle zone vicine, a Laurana, ad Abbazia e a Fiume”.

“Avanti fogne italiane; quando saremo di sopra, vi faremo un bel regalo”.

Erano i primi martiri di un olocausto che continuerà: Amministratori pubblici, dirigenti, insegnanti, podestà, avvocati, postini, farmacisti, commercianti ecc. e non solo i responsabili del P.N.F.

Quando mi recavo nell’orto di casa, a ridosso delle colline, pensavo all’ultima frase di un partigiano titino che era venuto con un folto gruppo di “compagni” a prelevare papà (salvato per l’intervento del suo fattorino, Rudi, un buon croato, amico dell’Italia e affezionato a noi): “Torneremo, si prepari…”. In quegli attimi di disperazione, maledivo quella montagna divenuta nella mia immaginazione un vasto cratere infernale. Pregavo intensamente Iddio che preservasse papà da chissà quali pene.

Mio padre potè fuggire a Fiume a bordo di un bragozzo, travestito da pescatore, con l’aiuto di due portalettere croati che vollero testimoniargli tutto il loro affetto. Noi lo seguiremo tre mesi dopo, esuli disperati.

Fummo salvi per grazia di Dio! Arrivarono i tedeschi, una lunga colonna di carri armati, cannoni, autoblinde con mitragliere, cavalli bellissimi sui quali troneggiavano elegantissimi ufficiali in alta uniforme. Erano i nuovi padroni di casa che portavano a termine una complessa operazione militare denominata “Wolkenbruh”. Anche se ciò stride con la nostra coscienza, essi di fatto furono i nostri attesi “liberatori”.

Poi venne l’ora dolorosa della “sradicazione”, stranieri in patria ed esuli da quella terra tanto amata, per il Veneto, tra l’indifferenza e il rifiuto di tanti concittadini.

Fui profugo a Venezia, e partecipai alle manifestazioni per Trieste italiana negli anni ’46 e ’47 in Piazza San Marco, quando i partigiani comunisti impedivano con la violenza che noi gridassimo “W Trieste Italiana!” All’indirizzo del Patriarca Cardinale Piazza – che parlava dal pulpito di Piazzetta S. Marco – urlavano “Scendi giù, hai le mani sporche di sangue!”.

Questa era il clima. Ed io, insieme ai miei compagni della Lega Nazionale di Trieste e del Comitato Giuliano Dalmata – che aveva già la sua sede sopra la Biblioteca “Marciana” dove ci incontravamo – gridavamo in faccia ai partigiani comunisti: “Foibe! foibe!”. Essi negavano tutto, e reagivano con spranghe di ferro e bulloni. Mi ruppero le spalle, mi sputarono in faccia e mi rubarono il cappotto. “Balle! Balle!” – ci dicevano gli “arsenalotti” comunisti -, “Viva Tito! Viva Stalin!”.

Nello stesso giorno della mia partenza da Laurana, mi avviai verso i viottoli alti sotto la vetta del Monte Maggiore.

Ma quel giorno anche il vento del Monte Maggiore piangeva! Scavai una manciata di terra tra i sassi e l’erbe di montagna e la misi con devozione tra le pieghe di una bandiera tricolore che nelle ricorrenze nazionali issavamo dalla balaustra di fronte al Quarnaro: Terra del Monte Maggiore! Terra Istriana! Terra d’Italia!

Carlo Toniolo

Caldogno – Vicenza