Certi ambienti storico-politici, legati più direttamente al comunismo italiano alle sue attuali derivazioni avanzano la tesi secondo cui Foibe ed Esodo sarebbero da imputarsi a quella sorta di eresia comunista che ebbe a rappresentare il titoismo, una eresia che si sarebbe caratterizzata (specie nei suoi inizi) anche nel coniugare il marxismo-leninismo con il nazionalismo slavo.
Sarebbe stata appunto la presenza di questa seconda componente, il nazionalismo, a generare la politica di repressione degli Italiani, la violenza nei loro confronti, la loro cacciata costringendoli all’Esodo.
Il Comunismo avrebbe dovuto ispirare la “fratellanza” tra Sloveni, Croati e Italiani; la malefica presenza del nazionalismo fece sì che, al di là delle parole ufficiali, il regime di Tito si caratterizzasse come anti italiano.
Tesi, questa, sicuramente suggestiva ed allettante per chi voglia liberare il PCI, Togliatti ed i suoi epigoni da specifiche responsabilità nelle vicende ai danni degli Italiani della Venezia Giulia e Dalmazia.
C’è peraltro qualche non piccola perplessità che merita evidenziare.
C’è un’obbiezione di fondo:è proprio certo che coniugare marxismo-leninismo e nazionalismo sia operazione così eretica? In realtà già la scelta del “socialismo in un solo paese” andava a privilegiare il rapporto tra Comunismo e gli interessi di un solo Stato, l’Unione Sovietica, che diventava la nazione madre per i Comunisti di tutto il mondo. Proprio questo Stato, la casa madre del Comunismo mondiale, non esita a sbandierare la “guerra patriottica”, a chiamare a raccolta tutti i valori della Nazione, quando appare necessario il farlo.
Al di là di ciò, la storia di tante realtà statuali comuniste è costellata di spinte nazionali, le cosiddette “vie nazionali al Comunismo” hanno finito con il costituire quasi una regola, certo più che semplici eccezioni.
La realtà vera è che la dimensione nazionale, quella che il Comunismo dei teorici pretendeva cancellare in nome dell’internazionalismo proletario, quella realtà della Nazione ha finito con il farsi sentire, e non poco, con il suo peso e la sua rilevanza . Forse è non meno significativo il fatto che, dopo l’89, dopo il dissolvimento per bancarotta storica del sistema comunista, ciò che emergerà dalle macerie del socialismo reale saranno la Religione e, appunto, la Nazione.
Tutto questo solo per esprimere serie perplessità sull’affermazione secondo cui l’eresia titoista sarebbe consistita nella presenza del nazionalismo.
Oltretutto, nel periodo che stiamo considerando, nella primavera del ’45, il Maresciallo Tito non è ancora un eretico, egli all’interno del Kominform risulta anzi uno dei leader di stretta e rigorosa fedeltà staliniana. La rotture Stalin – Tito si realizzerà più tardi, nel ’47, su delle concrete ragioni di potere, piuttosto che su astratte tematiche di principio: la pretesa di Stalin di gestire la realtà balcanica ed il rifiuto di Tito di soggiacere a tale gestione.
Di fatto, il Comunismo jugoslavo, così come realizzato da Tito, era piuttosto una delle forme di Comunismo più estranee al nazionalismo se è vero che andava a mettere insieme una serie di nazioni non solo diverse (Serbi, Croati, Sloveni e altri), ma anche segnate da lunghe vicende conflittuali e da odii sovente sanguinosi. Tito, in tale situazione, tutto poteva fare meno che giocare la carta nazionale; il suoi obbiettivo era lo stato multietnico e, al di là delle diverse nazionalità, non aveva una nazione jugoslava cui fare riferimento (la precedente Jugoslavia, il Regno di Re Pietro era stato in realtà uno strumento nelle mani dei Serbi per controllare le altre etnie).
Una seconda serie di obbiezioni, a tale tesi del comunismo di Tito come eresia nazionalista, è di carattere temporale.
Nella primavera del ’45 gli uomini di Tito e quegli di Togliatti sono sulle stesse identiche posizioni. Già durante le guerra i partigiani comunisti italiani operavano in piena sintonia con quelli sloveni e croati: combattevano non solo contro i nazi-fascisti, ma erano anche insieme nel massacrare, come alla Malga di Porzus, quei partigiani italiani che comunisti non erano.
In realtà gli uomini di Togliatti e quelli di Tito erano pienamente concordi nel perseguire, attraverso lo strumento della Resistenza, l’obbiettivo della Rivoluzione Comunista.
Sicchè ben si spiega l’invito pubblico di Togliatti ai Triestini, nel maggio ’45, affinché accogliessero da liberatori e fratelli gli uomini del Maresciallo Tito, proprio quei “liberatori” che nei quaranta giorni successivi infoibarono migliaia e migliaia di Triestini.
Ed in questa piena sintonia, all’epoca, tra comunisti jugoslavi e comunisti italiani rientrerà anche la vicenda – portata recentemente alla luce da Giampaolo Pansa – dei circa due mila comunisti monfalconesi, operai dei Cantieri, che nel ’45, in una sorta di controesodo, lasciarono l’Italia per trasferirsi in Jugoslavia, a Pola ed a Fiume, per offrire il loro contributo alla edificazione del Comunismo. La loro scelta risulta oltremodo indicativa per capire quali fossero i rapporti di sintonia tra i due Comunismi, in quel 1945.
Sarà solo dopo il ’47, dopo che Stalin avrà scomunicato Tito, che anche i Comunisti italiani prenderanno le distanze dall’uomo di Belgrado, magari accusandolo di eresia nazionalista, magari (ma solo molto, molto più tardi,) per imputare a lui i misfatti delle Foibe e dell’Esodo dei trecentocinquantamila italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
Ed i poveri comunisti monfalconesi? Loro, fedeli sempre e comunque a Stalin, finiranno nei gulag jugoslavi e, quando finalmente negli anni ’50 potranno fare ritorno in Italia, si troveranno con l’ordine del PCI di non parlare della loro triste e surreale vicenda, perchè avrebbe creato un qualche imbarazzo per il partito: da bravi comunisti (per Guareschi forse “trinariciuti”) tale ordine lo rispettarono sicchè bisognerà arrivare ai nostri giorni perchè Giampaolo Pansa scopra tale assurda e triste vicenda, dandole adeguata pubblicità e rilievo.
Nell’ambito di questa analisi dei rapporti tra comunisti italiani e comunisti jugoslavi meriterebbe dedicare una qualche attenzione alle vicende degli Italiani “rimasti” nella Jugoslavia, rimasti proprio perché comunisti (altri scelsero di rimanere per motivi di ordine diverso), all’organismo loro dedicato messo in piedi dal regime di Tito(Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume) ed al suo ruolo di cinghia di trasmissione nei confronti del regime, ma anche di strumento di controllo del gruppo etnico italiano.
In questa realtà degli italiani “rimasti” quali furono gli effetti della rottura Stalin – Tito? E quanto delle successive “delusioni” va attribuito al fattore nazionale? In sostanza furono delusi dal comunismo titoista in quanto Italiani oppure in quanto Comunisti? Infine: la loro successiva uscita dal Comunismo si realizzerà passando – come sostiene Giuliano Ferrara – passando attraverso la porta dell’anticomunismo, o semplicemente puntando sull’altrui oblio?
Sarà il caso che, prima o dopo, qualcuno affronti in maniera adeguata tali problematiche. Potrà forse costituire un contributo non marginale ad affrontare in maniera non equivoca e non reticente, l’annosa questione dei rapporti tra “rimasti” ed esuli.