L’ipotesi “jacquerie”

Per taluni la vicenda drammatica della primavera di sangue del ’45 trova la sua spiegazione nella esplosione di moti spontanei di violenza popolare.

Sarebbe stato, in sostanza, il puro e semplice manifestarsi di una violenta affermazione di classi, di categorie, di persone a danni di quanti erano ed erano stati avvertiti come oppressori.
Un fenomeno che trova la sua classificazione storica sotto il termine “jacquerie” e che sovente si accompagna alla sua sottospecie rappresentata dalla pura e semplice vendetta personale e magari al cogliere l’occasione per attuare qualche lucrosa ruberia. I più dotti possono parlare del conflitto città – campagna, i più prosaici di questioni di corna o di beghe ereditarie regolati con il sangue.

Certamente tale interpretazione ha una sua qualche parte di verità, ma è egualmente certo che non riesce a dare spiegazione adeguata e completa di quanto accaduto.
Viene infatti a contrastare con alcuni dati oggettivi: in primo luogo il manifestarsi del “terrore titino” in zone diverse e non omogenee; inoltre il fatto che gli infoibamenti, gli eccidi presentino dei connotati di organicità, di scientificità che nulla hanno acchè fare con lo spontaneismo di esplosioni incontrollate di violenza popolare.

E ancora: le violenze di questo tipo hanno di regola quale obbiettivo il potere costituito. In queste nostre vicende, viceversa, il potere costituito era quello jugoslavo (siamo infatti già a guerra finita) che non solo non risulta vittima di tale esplosione di violenza, ma anzi ne è quantomeno spettatore compiaciuto, se non addirittura esplicito regista.

In realtà tale interpretazione storica appare avere sicuramente una certa dose di fondamento, ove la si applichi a quanto successo in Istria dopo l’8 settembre ’43, con il primo comparire degli infoibamenti, e prima che i Tedeschi riprendano il controllo del territorio.

Non sembra viceversa convincente, questa lettura in termini di “jacquerie”, quando si voglia cercare una spiegazione del terrore del maggio ’45, nelle diverse situazioni territoriali nelle quali si è palesato.

In quella primavera di sangue, a guerra finita, vi furono certamente anche delle vendette personali, vi furono anche le ruberie a danno del vicino, le manifestazioni di quella bestiale criminalità che alberga nell’animo umano, ma basta tutto ciò a rendere ragione di tutto quanto successo a Trieste come a Gorizia, in Istria come a Fiume e come in Dalmazia?

E, se si trattava solo di esplosione spontanea di violenza individuale o collettiva, come si spiega che in nessun modo questa violenza risulti repressa e punita dalle autorità costituite?

Il fenomeno ha di certo avuto dei connotati che non trovano spiegazione in tale lettura dei fatti. Non basta parlare di “jacquerie” o di conflitto città-campagna per dare una convincente spiegazione del “terrore titino” .