Introduzione

“Terrore titino”? La formulazione del tema di questo Convegno può apparire, oggi, a distanza di sessanta anni, forse un po’ troppo carica ed eccessivamente a forti tinte. Magari, parlare di “terrore”, può sembrare frutto di quella passione politica che animava gli animi di allora, ma che oggi , trascorsi tanti decenni, risulta sicuramente datata ed anacronistica.

Ci sono però dei dati oggettivi, non emozionali, che giustificano l’uso proprio di questo termine così forte, dei fatti che testimoniano di come, quanto successo nelle primavera del ’45, in queste terre, meriti propriamente, a pieno titolo la definizione di “terrore”.

Lo scorso anno, nell’ambito delle celebrazioni per il 50° del ritorno di Trieste all’Italia, sono state proposte innumerevoli immagini, fotografiche o cinematografiche, della popolazione di Trieste in quelle giornate dell’autunno 1954: quei volti, di uomini e di donne, di vecchi e di bambini, di ragazzi e di ragazze, tutti ciò che esprimevano con assoluta evidenza era una esplosione incontenibile di gioia, una felicità traboccante che portava sovente alle lacrime. Gioia e felicità che avevano, in realtà, una chiara chiave di lettura, una radice ben precisa. Trieste, sotto quella gelida pioggia del 26 ottobre 1954, usciva finalmente da un lungo tunnel, viveva quasi incredula la fine di un vero e proprio incubo durato ben lunghi nove anni. L’arrivo dell’Italia, dei soldati d’Italia dava la certezza che ormai c’erano loro a difendere la città di San Giusto. Finalmente non ci sarebbe stato più bisogno di chiedersi, con angoscia e con terrore: “E se tornano i Titini? E se ricominciano quegli orrori dei 40 giorni della primavera ’45?”.

Perché il maggio ’45 per i Triestini, non meno che per i Goriziani, per gli Istriani, per i Fiumani, per i Dalmati, ha sicuramente costituito una vera e propria esperienza traumatica, tale che solo il termine “terrore” può adeguatamente descriverla.

In quella primavera di sei decenni or sono nel resto d’Italia, e in tanta parte d’Europa, si festeggiava comunque la fine della guerra, l’avvento della pace. Le genti Giulie, viceversa, vivono l’esperienza di una nuova presenza straniera (gli Slavi) che si era proposta come seminatrice di morte e di violenze, che “rubava” nottetempo le persone ai propri cari per poi farle scomparire; e ciò riguardava i nemici o gli ex nemici dei nuovi occupatori (i tedeschi, i fascisti), ma ancor prima coloro che in teoria erano i loro alleati (gli uomini del C.L.N.) e soprattutto tante, tante persone che poco o niente avevano acchè fare con le vicende della lotta politica.

In definitiva una macchina crudele, connotata da una forte dose, almeno apparente, di irrazionalità e di non prevedibilità. Nessuno, o almeno ben pochi, poteva dire a se stesso “non ho fatto niente e quindi niente può succedermi”. Nessuno, o almeno ben pochi, poteva sentirsi tranquillo e sicuro.

Crudeltà, irrazionalità, imprevedibilità: sono questi gli ingredienti tipici per costituire quel cocktail che deve, tecnicamente, essere definito come “terrore”.

Un’esperienza che, vissuta per poche settimane, a Trieste come a Gorizia, segnerà tuttavia per anni, forse per decenni, l’animo, la psiche delle genti di queste città. Un’esperienza che, nella vicina Istria, a Fiume, in Dalmazia svolgerà un ruolo determinante nell’indurre trecento e cinquantamila Istriani, Fiumani, Dalmati a scegliere la strada dell’Esilio, ad abbandonare tutto, case, attività cimiteri pur di sfuggire da tale realtà.

“Terrore” è del resto un termine storicamente qualificato, perché rimanda alle vicende della Francia rivoluzionaria, a quei non molti mesi durante i quali gli uomini di Robespierre attuarono un sistema di violenza e di intimidazione che tenne sotto minaccia non solo avversari (nobili e monarchici), ma anche alleati ed amici del giorno prima (i girondini di Danton) e soprattutto i cittadini qualsiasi, le persone comuni, i semplici spettatori delle vicende della politica, tutti in balia della più oscura ed anonima delle delazioni, tutti a rischio di ghigliottina.

“Terrore giacobino” allora, “terrore titino”, da noi, nella primavera del ’45. A realizzarlo era stato quel sistema politico-militare-statuale che trovava espressione negli uomini del Maresciallo Tito e che stava edificando la nuova Jugoslavia, comunista e multietnica, di certo uno dei nuovi stati che – dopo Yalta – andavano formandosi nell’Europa dell’Est, eppure una realtà politico-statuale con delle sue precise specificità.

“Slavo-comunisti” venivano definiti nella corrente terminologia politica triestina, una formula che all’epoca era certamente ben espressiva, ma che forse negli anni ha rischiato di produrre qualche equivoco e di generare più ombre che luci. Ad essi si opponeva il cosiddetto “partito italiano”, in quella sorta di bipolarismo implicito che la realtà della terza guerra mondiale (la cosiddetto “guerra fredda”) aveva generato: gli slavo comunisti erano coloro che guardavano alla Jugoslavia come modello di realizzazione di un rivoluzione per una società più giusta; gli altri, il partito italiano guardavano all’Italia, all’Occidente, come scelta di libertà e di democrazia, come rifiuto del Comunismo in genere, di quello jugoslavo in particolare.

Questi due schieramenti saranno i protagonisti della politica giuliana per tutti gli anni successivi al ’45 e continueranno ad esserlo, a svolgere un qualche ruolo (pur con tutti i mutamenti del caso) sostanzialmente fino allo storico ’89, quando si assisterà allo sfacelo del Comunismo, prima, e poi alla dissoluzione (in un mare di sangue di violenze etniche) della stessa Jugoslavia.

Degli slavo-comunisti resterà ancora qualche patetico epigone a riesumare nel Carso triestino, in occasione del 1° maggio, le bandiere bianche-rosse-blu con la stella rossa o a far comparire, nel Goriziano, patetiche scritte nostalgiche del Maresciallo Tito. Si tratta comunque di fenomeni che appartengono più alla dimensione della patologia psichica che a quella della politica o della storia.

Il “terrore titino” è stata dunque una vicenda vera e reale, importante e ben meritevole di venire non solo ricordata, ma anche analizzata.

Lo scopo di questo Convegno vuole essere quello di cercare delle risposte, di capire “cosa” sia allora successo, di chiarire “perché” sia successo, di dare piena ragione di chi siano stati i protagonisti di tale vicende e quali ruoli abbiano svolto.

Una prima ipotesi di lavoro aveva previsto, quale titolo di questo Convegno, “Foibe, Infoibati, Infoibatori”, nelle convinzione che un tipo di analisi incentrata sui protagonisti (carnefici e vittime) già avrebbe aiutato a capire il senso vero e profondo di quanto accaduto.

Poi si è preferito spostare l’attenzione su una ricerca finalizzata non sui soggetti, ma sul dato geografico; verificare come il “terrore titino” si sia manifestato in luoghi diversi: a Trieste ed a Gorizia, in Istria ed a Fiume ed in Dalmazia.

Il fenomeno analizzato è lo stesso (il terrore titino), l’epoca è grosso modo la medesima (la primavera del ’45), le aree geografiche prese in considerazione, le relative situazioni storico-politiche presentano invece non poche diversità. Questo coesistere di elementi analoghi e di altri diversi potrà costituire un metodo valido di analisi. L’augurio è che, alla fine, ne derivi un aiuto alla comprensione, almeno un embrione di risposta a quei tre quesiti sopra ricordati: cosa è accaduto? perché è successo? chi ne porta la responsabilità?

* * * * *

La ricerca, l’analisi secondo tale metodologia per così dire geografica verrà proposta nelle successive relazioni.

Questo mio intervento vuole avere piuttosto un carattere preliminare ed introduttivo, finalizzato cioè ad analizzare le diverse chiavi di lettura, le diverse ipotesi interpretative che vengono proposto o suggerite quando si cerchi di darsi una ragione di tale “terrore titino”.

C’è una finalità morale di fondo, in tale ricerca, ed è la volontà di evitare che un nuovo oltraggio venga commesso ai danni di quelle migliaia di povere vittime: allora, nel ’45, patirono la violenza del sangue, poi per lunghissimi decenni subirono l’oltraggio del più vergognoso degli oblii. Oggi c’è il rischio che di quella tragedia si possa sì parlarne, ma a condizione di nascondere la verità vera, di coprire le responsabilità reali, di “salvare” di fronte tribunale della storia chi viceversa merita la più tassativa delle condanne .

Ecco dunque il proposito di tale ricerca: ricordare sì, ma anche capire.

Solo quando avremo capito, e fatto capire, chi realmente porta le responsabilità di quel “terrore”, di quei crimini, di quella tragedia, solo allora sarà possibile dire che si sono regolati i conti con la Verità e con la Giustizia.