È noto che gran parte del dibattito del passato è stato condizionato dal desiderio di denunciare il numero degli scomparsi. Ordini di grandezza diversi tra loro, interpretazioni estensive o riduttive delle cifre proposte, omologazione di tutte le vittime nella sola categoria degli «infoibati», associazione sinestetica all’esodo istriano e appropriazione terminologica di altre tragedie contemporanee (martirologio, genocidio, olocausto, pulizia etnica) per spiegare quella giuliano-dalmata, hanno finito col paralizzare l’esame dei fatti e delle dinamiche, limitando in tutto o in parte l’azione di ricostruzione storica, di compulsione necessaria tra le fonti documentarie e quelle orali. In verità il continuo parlare di cifre è sempre stato fatto per denunciare la portata del disegno jugoslavo, anche durante il processo per i crimini della. Risiera, per accostare ad essa le foibe, e per sollecitare l’azione giudiziaria contro alcuni presunti responsabili ancora viventi. Ma il ricorso al confronto sulle cifre è servito anche per contrastare sul terreno più debole, quello della quantificazione oggettiva, le giustificazioni più ardite sulle responsabilità politiche ed etniche degli eccidi. Certo, non sono mancati elenchi e repertori delle vittime che si sono dimostrati e si dimostrano ottime opportunità per dire tutto e il contrario di tutto, ma non offrono ancora oggi sufficienti elementi di chiarimento.
Il primo elenco biografico dei deportati, escludendo i nominativi diffusi dal foglio clandestino «Grido dell’Istria» (1945-46) e prima ancora quelli pubblicati tra il 1943 e il 1944 dalla propaganda tedesca e dalla stampa giuliana, poi ripresi anche da quella dell’Italia fascista e badogliana, è quello curato dall’Associazione congiunti dei deportati in Jugoslavia, di Trieste e Gorizia, compilato sulla base delle dichiarazioni degli aderenti raccolte a partire dal tardo 1945 e aggiornato nel 1955, in occasione dell’avvio delle pratiche per la dichiarazione di morte presunta per i deportati non rientrati, dei quali si era perduta ogni traccia. L’elenco dell’Associazione congiunti dei deportati in Jugoslavia, operante a Gorizia, è stato pubblicato col sostegno della locale amministrazione comunale, senza le necessarie correzioni e variazioni, e utilizzato da guida per la compilazione dell’elenco di 665 deportati goriziani trascritto nel lapidario del parco della Rimembranza. Quello della sezione triestina è attualmente custodito presso l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia.
Nel corso degli anni cinquanta, Dora Salvi iniziava la raccolta di informazioni e la compilazione delle singole schede di quello che doveva diventare una sezione dello «schedario dell’irredentismo» (altre due sezioni comprendono, nell’ordine, le biografie degli irredentisti giuliano-dalmati e i nominativi sparsi dell’irredentismo italiano un tempo attivo in Corsica, Malta, Nizza, Canton Ticino), custodito presso la Biblioteca civica di Trieste, ovvero l’Albo d’oro. Seviziati, trucidati, deportati 1943-1944-1945. Questo lavoro, interrotto nel 1983, ha visto la confluenza dei repertori progressivamente compilati e pubblicati, però corretti e integrati da diverse altre informazioni ricavate dalla consultazione della stampa quotidiana e periodica, nonché dall’apporto di diverse testimonianze private. La Salvi, pur adottando dei criteri semplici di compilazione, si era resa perfettamente conto della necessità di mettere continuamente mano ai dati e alle biografie, senza assegnare alcun principio di staticità e definibilità al materiale così rielaborato. È un archivio ancora oggi inutilizzato e poco conosciuto.
Un altro schedario poco noto è quello custodito presso la sezione triestina dell’Associazione nazionale caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, conosciuto come «schedario Ida de Vecchi», dal nome della ex fiduciaria dei fasci femminili di Trieste e Lubiana, deportata nel maggio 1945 e rimpatriata nel 1947, nonché dirigente di primo piano della federazione triestina del Movimento sociale italiano negli anni cinquanta e sessanta. Lo schedario raccoglie, come per analoghe compilazioni, i nominativi di persone dichiarate o reputate scomparse nella Venezia Giulia e in Dalmazia tra il 1943 e il 1945, con particolare riguardo per quelli in forza alle unità militari e di polizia o che avevano ricoperto un qualche incarico amministrativo o politico. È un elenco che ha avuto pochi aggiornamenti e molte schede sono limitate al solo nominativo e a qualche altro, scarno, riferimento anagrafico; mentre alcune sono accompagnate da una sigla alfa-numerica riferita alla pratica pensionistica patrocinata dall’associazione. Tuttavia è utile incrociare questo materiale con altre informazioni per chiarire le biografie di scomparsi dichiarati altrove come «civili».
Per molto tempo l’elenco curato dal sindaco di Trieste Gianni Bartoli, intitolato Martirologio delle genti adriatiche (ma anche Le deportazioni nella Venezia Giulia e Dalmazia), è stato al centro di un duplice contrapposto interesse: dimostrare la fondatezza numerica del «martirologio» adriatico, confutare i dati sulla base degli errori di calcolo e sull’omissione del ruolo e delle responsabilità di diversi scomparsi. L’edizione più nota (1961), comprendente 4.122 nominativi, in tre elenchi alfabetici di persone decedute o scomparse, seguiva di due anni una prima, analoga, ma parziale pubblicazione curata dal Centro italiano per lo ,studio del problema dei rifugiati.
Nella prima edizione si faceva menzione dei dati forniti dall’Istituto centrale di statistica che indicava, per la Venezia Giulia, fino all’agosto 1943, 5.735 morti in guerra e valutava su base statistica media in altri 5.000 i caduti dopo tale data; secondo Bartoli bisognava aggiungere altre 5.000 vittime dei bombardamenti (2.000 solo a Zara) e il numero degli «infoibati». Bartoli, avvertendo l’incompletezza del suo lavoro, assicurava di aver attinto alle anagrafi di Trieste, Gorizia e Monfalcone, agli archivi dell’Opera nazionale profughi giuliani e dalmati, della Croce rossa, dell’Associazione deportati in Jugoslavia, della Lega nazionale, del Comando gruppo della Guardia di finanza di Trieste, alle segnalazioni di molti privati, omettendo però che il corpo più consistente di informazioni giungeva dall’Ufficio pensioni di guerra del Comune di Trieste, coordinato da Bruno Debianchi e Arduino Marcon, che aveva istruito molte pratiche, ai sensi della legge 648 del 10 agosto 1950, e compilato delle schede statistico-amministrative.
Queste pratiche spesso si fondavano sulla presentazione della dichiarazione di morte presunta, rilasciate dagli organi giudiziari a partire dal 1955 anche per i deportati in Jugoslavia. Malgrado che dal 1954 in Italia si fossero voluti riconoscere i benefici di legge per mutilati, invalidi e congiunti di caduti della Repubblica sociale -prima di quelli a favore delle vittime delle persecuzioni politiche e razziali – in molti casi le pratiche di riconoscimento di morte presunta e quelli per l’ottenimento della pensione di guerra omettono le indicazioni sul ruolo e i compiti ricoperti dal congiunto durante la guerra (soprattutto quando inserito, in seguito ai bandi di mobilitazione obbligatoria, nelle formazioni armate allestite dai nazisti nel Litorale adriatico). Un semplice controllo ha svelato l’identità in armi di molti civili contemplati nell’elenco.
Infatti dei 4.122 nominativi contemplati, solo 1.664 hanno una qualifica (di cui 1.228 militari o militarizzati, 5 esponenti del PNF, 13 funzionari dell’amministrazione dello Stato, 10 partigiani), e dai rimanenti 2.458 possono essere sottratte 150 persone decedute durante la guerra, 140 senza alcuna specifica indicazione, altre 133 ricavate dalle schede di richiesta d’informazioni al GMA, e 47 elencate dalla curia tergestina. Non mancano alcune inevitabili ripetizioní e qualche errore. Rimangono così 2.036 nominativi di persone effettivamente scomparse’.
Il Centro studi adriatici (Roma) – sorto nel 1947 per opera di Gian Proda e presieduto nell’ordine da Fausto Pecorari, Umberto Nani Mocenigo, Sebastiano Blasotti e diretto da Luigi Papo – ha diffuso, tramite i propri Quaderni e in collaborazione con «L’Arena di Pola» (1948), il «Bollettino d’informazioni del CSA» (1950-1976) e la «Difesa Adriatica» (1959-1961), i primi elenchi, compilati da Luigi Papo e dai suoi collaboratori, con i nomi di vittime e deportati dell’Istria, con particolare attenzione per la zona B, di Fiume e della Dalmazia. Gli elenchi sono stati ricavati da segnalazioni provenienti dall’ambiente dell’esodo, dalla sua stampa periodica, dalle associazioni sorte per tutelare storia e memoria giuliano-dalmata, da privati e dallo stesso CLN dell’Istria.
Le schede del Centro studi adriatici, confluirono nel 1989 nel poderoso Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale di Luigi Papo, patrocinato dall’Unione degli istriani. In verità il lungo elenco, diviso per fasi temporali (Parte prima. Dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943; Parte seconda. Dal 9 settembre 1943 alla fine della guerra; Parte terza. A guerra finita; Parte Quarta. Con l’Italia nel cuore) e, al loro interno, diviso in fronti militari, armi e corpi, vittime civili dei bombardamenti, deportati in Germania, persecuzioni razziali, vittime civili delle operazioni terrestri, caduti per la lotta partigiana, vittime della lotta ideologica e nazionale, ulteriormente suddivisi per aree geografiche, comprende diverse categorie, non sempre omologabili tra di loro, se non nella sola versione possibile: il prezzo di sangue pagato alla guerra dalla popolazione giuliano-dalmata. Ma gli elenchi e le segnalazioni curate da Luigi Papo non sono stati intesi in questo modo e spesso i dati generali hanno finito col produrre la percezione che il lungo e articolato repertorio stesse a significare soltanto il prezzo pagato per la difesa dell’italianità delle province orientali. Anche il problema della distinzione tra residenti, domiciliati e stanziali, che aveva interessato precedenti elenchi, non è stato chiarito nel quadro di un computo statistico medio tra la popolazione residente e il numero degli scomparsi. La prima edizione conteneva diversi errori e tante imprecisioni; una seconda edizione del 1994, cui ha partecipato una équipe di collaboratori, ha cercato di ovviare alle mancanze precedenti, ma ha conservato alcune incertezze, soprattutto dove per diverse persone scomparse si conosceva soltanto qualche debole cenno anagrafico. È chiaro che per tutti i casi dubbi si sarebbe dovuto ricorrere all’indagine presso lo stato civile dei comuni di origine di tutti gli scomparsi, ma un’impresa del genere sarebbe stata possibile solo con una ricerca a vastissimo raggio.
Ad ogni modo è interessante seguire il procedimento di calcolo adottato da Luigi Papo: secondo i suoi dati, dalle foibe istriane (1943) erano state esumate 355 salme, altre 40 vittime erano state accertate e 503 risultavano presunte sulla base delle segnalazioni locali (quelli ufficiali parlano di 217 cadaveri recuperati); sempre in Istria, fino alla fine delle operazioni militari, erano state esumate le salme di 93 vittime e indicate altre presunte 200. Dopo la fine delle operazioni militari erano state recuperate a ovest della linea Morgan 546 salme (i dati ufficiali indicano 464 salme esumate da foibe e fosse comuni), mentre in tutta la ex Venezia Giulia risultavano accertate, ma non recuperate, 286 vittime e 4.980 presunte, delle quali ben 3.500 solo nelle due cavità di Basovizza e della foiba 149 di Opicina. Sulla base di questi elementi Papo formulava la seguente ipotesi numerica per il periodo 1943-1945: 994 salme esumate da foibe, pozzi minerari, fosse comuni; 326 vittime accertate ma non recuperate; 5.643 vittime presunte sulla base delle segnalazioni locali o altre fonti; 3.174 vittime nei campi di concentramento e di lavoro jugoslavi, computate sulla base di segnalazioni o altre fonti. Quindi ben 10.137 persone mancanti in seguito a deportazioni, eccidi e infoibamenti per mano jugoslava. È naturale che in molti casi l’assoluta mancanza di ulteriori informazioni o dati di corredo non permette un supplemento di indagine e l’impegnativo lavoro di Papo fa i conti con la difficile contabilità che non sempre tiene conto, soprattutto in presenza di un elevato numero di «vittime presunte», calcolate anche a cifra tonda, la nazionalità delle stesse. Inoltre le singole biografie talvolta eludono le caratteristiche di certe vittime: valga per tutte quella di Gaetano Collotti, dove non si fa menzione del suo ruolo in seno all’Ispettorato speciale di P.S. Ecco perchè l’Albo d’oro può essere annoverato più come un repertorio generale che non come un elenco sistematico.
Sono stati pubblicati altri elenchi nominativi che meritano di essere ricordati: quello pubblicato nel 1983 da Antonio Pitamitz su «Storia Illustrata» è ripreso completamente da quello del Bartoli con la differenza che le vittime sono distinte per cronologia e province diverse, comprendendo così qualche ripetizione di nome; quello di Paolo Venanzi che propone un semplice elenco tratto dal volume del Bartoli con un elenco suppletivo di nomi non contemplati in quest’ultimo, la cui origine non viene menzionata; quello biografico limitato alla sola città di Parenzo, ma estremente interessante e finora ancora non imitato – per il criterio di schedatura delle notizie raccolte tra i congiunti delle vittime e degli scomparsi, curato da Amelio Cuzzi; l’elenco delle vittime istriane compilato da Gaetano La Perna. Inoltre molti autori che hanno affrontato, anche sulla scorta autobiografica, le vicende belliche 1943-45 nella Venezia Giulia hanno pubblicato diversi elenchi di militari caduti sotto le insegne della RSI oppure riferiti a singoli reparti e alla prigionia in Jugoslavia. Sul versante opposto bisogna citare la ricerca condotta da Samo Pahor sulle persone morte a Trieste e dintorni in seguito ai combattimenti compresi tra il 28 aprile e il 3 maggio 1945. In un elenco provvisorio raccoglie 801 nominativi ricavati dagli elenchi pubblicati, adeguatamente compulsati con i registri cimiteriali e ospedalieri, ma potrebbero essere molti di più, secondo lo studioso, con oltre duecento tra militari e poliziotti italiani, trecento militari dell’esercito partigiano jugoslavo, ben mille tra tedeschi e collaborazionisti slavi. Non mancano le sorprese: Giovanna Drassich, elencata tra le cinque vittime cadute il 5 maggio nella sparatoria jugoslava contro un corteo che sfilava dietro una bandiera tricolore, a Trieste, risulta deceduta all’ospedale civile nello stesso giorno, ma almeno cinque ore prima del tragico fatto per una ferita d’arma da fuoco subita il 2 maggio.
Non mancano gli elenchi prodotti autonomamente da associazioni d’arma ed ex combattenti col fermo proposito di testimoniare e documentare, talvolta in assenza di una documentazione ufficiale, l’entità delle perdite subite, spesso ricostruite sulla base di indagini tra i reduci e le famiglie dei caduti e il recupero dei ruolini delle unità anche più piccole. Molti di questi risultano depositati presso il Centro studi adriatici o l’Istituto storico della RSI (delegazione di Milano). Ma siamo in presenza di un materiale fortemente eterogeneo raccolto e compilato in tempi e con metodi diversi, difficilmente trattabile se non nel quadro di più ampi repertori, come d’altra parte è accaduto per l’Albo d’oro di Papo e il Martirologio del Bartoli.
Di grande utilità sono gli elenchi compilati a partire dal 1990 dall’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione di Udine, che riguardano, suddivise per le attuali province del Friuli-Venezia Giulia, le vittime, i caduti e i dispersi della seconda guerra mondiale. Un lavoro che, per quanto ampio, presenta ancora delle imprecisioni, per la rarefazione di dati puntuali sul quadro statistico generale della popolazione residente, domiciliata o temporaneamente presente nella regione. Va inoltre ricordato che in seguito alle rettifiche confinarie postbelliche il Comune di Gorizia ha perduto 7 frazioni e parte di altre 4, mentre il territorio provinciale ha perduto 8 comuni; analogamente la Provincia di Trieste ha perduto 16 comuni e altri 9 sono passati alla Provincia di Gorizia; il Comune di Muggia ha perso alcune frazioni in seguito all’ultima rettifica del 1954. Questi aspetti hanno limitato alquanto la ricerca sulle vittime, dispersi e caduti nei comuni passati all’amministrazione jugoslava, a causa della mancanza di documenti o per la distruzione pressoché totale degli archivi anagrafici di quelle località.
Dei molti deportati deceduti in Jugoslavia solo per una piccolissima percentuale sono note le comunicazioni ufficiali di decesso o esecuzione di una condanna capitale. Ne deriva che molti elementi sono stati desunti dalle sole fonti disponibili e non sempre queste hanno offerto un quadro attendibile: lo stesso archivio di stato civile, conservato presso i tribunali di Gorizia e Trieste, risulta attendibile per i soli dati precedenti 1’8 settembre 1943. Per la raccolta di informazioni sulle persone definite scomparse o disperse in seguito ad arresto o prelevamento da parte delle forze jugoslave o loro affiancatrici, dopo il 1° maggio 1945, l’istituto si è avvalso dei registri conservati presso l’Associazione famiglie caduti e dispersi della Provincia di Trieste, l’Associazione volontari della libertà di Trieste, l’Associazione congiunti dei deportati in Jugoslavia di Gorizia, le Associazioni d’arma, l’archivio dell’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, le pubblicazioni e le elencazioni coeve o successive sull’argomento, le anagrafi e i registri cimiteriali dei Comuni di Trieste e Gorizia, i registri matricolari del distretto di Trieste e delle capitanerie di Trieste e Monfalcone, gli archivi delle carceri di Trieste e Gorizia, le comunicazioni del Ministero della difesa ai comuni, segnatamente per i dispersi in seguito a deportazione in Jugoslavia, e soprattutto le sentenze di dichiarazione di morte presunta in allegato al registro II c dell’Ufficio di stato civile nei tribunali di Gorizia e Trieste. Sentenze accompagnate e precedute da indagini e un rapporto delle autorità giudiziarie, spesso fondate sulle sole dichiarazioni dei familiari degli scomparsi.
Da questi elementi l’Istituto giunge a calcolare in 601 le persone dichiarate disperse a Trieste in seguito alla deportazione jugoslava e in 332, di cui 182 civili, quelle scomparse da Gorizia. Cifre decisamente inferiori rispetto a quelle pronunciate e calcolate in precedenza, ma frutto di un campo di informazioni molto limitato: quello delle dichiarazioni di morte presunta. È evidente che le sentenze riguardavano solo le famiglie degli scomparsi residenti a Trieste e a Gorizia all’atto dell’avvio del procedimento-e fondate su spontanee testimonianze e pochi elementi. Certamente iniziative del genere furono prese anche in altre province italiane da parte dei congiunti di quei soggetti scomparsi nella Venezia Giulia, mentre vi prestavano il servizio militare oppure erano occupati presso la pubblica amministrazione, e da parte di quelli esodati dalla regione che si sono trovati nelle condizioni di ottenere i benefici derivanti dalle leggi sulle pensioni di guerra. Tutti questi casi, non contemplati dai registri dei locali archivi di stato civile o più semplicemente da quelli anagrafici, non trovano menzione. Di questo limite i ricercatori dell’Istituto sono consapevoli, sapendo di non poter avere una documentazione che può indicare nominalmente tutti i deportati deceduti, tranne per coloro i cui corpi sono stati esumati da cavità naturali, artificiali e fosse comuni. Anche sulle cifre di Gorizia si cautelano ricordando che sono sicuramente riduttive nel momento in cui fanno riferimento ai soli goriziani residenti. Questa ammissione conferma l’ipotesi qui sostenuta sul limite statistico dei dati consultati che contrastano perfino con quelli raccolti precedentemente tramite le schede dell’Ufficio pensioni di guerra del Comune di Trieste. Non va dimenticato che i casi di molti scomparsi, soprattutto per quelli residenti nei comuni italiani centromeridionali e insulari e rimasti tagliati fuori dal conflitto, vennero burocraticamente liquidati con la formula «disperso in seguito agli eventi armistiziali dell’8 settembre», retrocedendo burocraticamente la data dell’effettiva scomparsa di ben 18 mesi.
Comportamento analogo a quello tenuto da certi enti che hanno sinteticamente datato la scomparsa di molti loro dipendenti alla data 1° maggio 1945. Formule che mettevano, per il primo caso, al riparo da qualsiasi sospetto di collaborazionismo e che omologavano, nel secondo caso, dispersi e vittime diversi, ma che non può non farci riflettere sulle drammatiche difficoltà di reperire, già a distanza di una decina d’anni, notizie e informazioni su cittadini italiani scomparsi per eventi bellici. Certamente ci furono i casi di rimpatri dalla prigionia e successiva emigrazione, non segnalati ai comuni di residenza e agli enti che avevano compilato i primi registri, ma nell’economia generale questi incidono molto meno della mancata ricognizione generale in tutti gli archivi italiani di stato civile sui nomi di persone segnalate come scomparse ma evidentemente non in carico nei repertori storici dei comuni della residua Venezia Giulia.
Dal 1990 è attivo a Pordenone il Centro studi e ricerche «Silentes Loquimur», fondato da Marco Pirina che lo presiede e tramite il quale ha promosso una serie di pubblicazioni che raccolgono, in modo non sempre organico, documenti, testimonianze ed elenchi di scomparsi. In precedenza Pirina aveva pubblicato dei saggi su alcuni aspetti della guerra vissuti nella Destra Tagliamento e ai margini del Cansiglio, riaprendo il caso della scomparsa di diversi civili per opera delle formazioni partigiane pedemontane da cui il suo interessamento ai casi delle deportazioni nella Venezia Giulia .
La sua ricerca si è mossa su quattro linee: integrazione e correzione degli elenchi degli scomparsi e quindi ridiscussione delle cifre, con circa cinquemila vittime per la sola Venezia Giulia; identificazioni dei luoghi di occultamento delle vittime; ricerca e denuncia all’autorità giudiziaria dei responsabili degli eccidi; testimonianza della lotta italiana sul confine orientale, soprattutto dei reparti della RSI e della X MAS. Non è indubbio che la sua attività abbia portato a dei risultati, spesso sottovalutati più sul piano del metodo che del merito, ma che devono essere tenuti in considerazione nel quadro del dibattito più complessivo su foibe e deportazioni.
Anch’egli inserisce tra le vittime quelle dei caduti precedentemente alla fine della guerra, durante tutte le operazioni militari condotte nel territorio regionale, comprendendole all’interno del sistema conflittuale, omettendo talvolta le responsabilità del sistema collaborazionistico e quello della motivazione ideologica o nazionale, e su questo aspetto le sue tesi appaiono meno convincenti. L’eccesso pietistico (tutte le vittime uguali davanti alla morte) e la forzatura interpretativa (Venezia Giulia oggetto, dopo la guerra, di una « pulizia etnica» da parte slava) limitano l’apporto storiografico dei suoi contributi che non approfondiscono il carattere della occupazione nazista della regione.
Sul piano più tecnico la sua ricerca non prescinde dai dati ricavabili dagli elenchi curati dall’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, che egli integra progressivamente con altri dedotti da altri elenchi editi e inediti, dalla stampa e dalla pubblicistica, da relazioni coeve o di poco successive depositate presso gli archivi pubblici, dalle testimonianze dei congiunti degli scomparsi.
da: Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, a cura di G. Valdevit, Marsilio, Venezia, 1997, pp. 98-107.