Sessant’anni fa, primavera tardiva, eran giorni decisivi per Gorizia e per quel po’ che restava della Venezia Giulia. La città era ancora occupata dalle truppe alleate né se ne conosceva il destino. Sloveni e frange operaie chiedevano l’annessione alla Jugoslavia. Gli abitanti di sentimenti italiani apparivano schiacciati fra le responsabilità del fascismo e l’ostilità di americani e inglesi. Insanato, inoltre, il trauma dei quaranta giorni di amministrazione titina nel maggio 1945.
Paradossalmente proprio da quei tragici giorni parte una speranza. Tito, fidato interlocutore di inglesi e americani, forse aveva tirato troppo la corda e gli alleati avevano deciso di effettuare verifiche. A fine marzo una Commissione visita le zone di confine fra Italia e Jugoslavia: suo compito, scrive Il Lunedì, settimanale goriziano, quello di «tracciare un confine tale da lasciare il minor numero possibile di minoranze sotto un Governo straniero, tenendo conto delle speciali esigenze economiche. Il resto è propaganda e terrore».
L’annunciato arrivo della commissione alleata mobilita gli opposti schieramenti. Il Lunedì del 25 marzo 1946 parla di «moltitudini immense di popolo che percorrono le strade della città pavesata di tricolori»; riferisce delle «scaramucce» e dell’assalto alla sede del Cln. Ha inizio «una settimana decisiva per il nostro destino». Passa persino in secondo piano la sconfitta di Carnera con il pugile goriziano Musina che «agile e disinvolto non sembra affatto impressionato dalla superiorità di corporatura e peso dell’avversario, quaranta chilogrammi di differenza».
Le parti in causa tendono a crearsi visibilità e occupare spazi. La componente italiana ritrova alleanze impensabili. «Diciamolo apertamente: da alcuni giorni si respira un’altra aria, abbiamo infranto le sbarre di una prigione morale», scrive Il Lunedì. La Commissione alleata però tarda ad arrivare e la tensione cresce. Alla conferma dell’arrivo, mercoledì 27 marzo, la città si mobilita. Un motocarro attraversa la provincia e nelle stazioni ferroviarie requisisce un migliaio di torce a vento; alla sede del Cln goriziano sul Corso vengono suddivise a metà, per raddoppiarne il numero, e distribuite ai manifestanti richiamati dagli altoparlanti di Radio Saccomani, il negozio che stava in via IX Agosto. Alle 20 al parco della Rimembranza si radunano trentamila persone, dicono sia La Voce Libera che il Giornale Alleato. È un chilometro di folla che, arginata dalle jeep della polizia civile, si muove a torce accese verso piazza Vittoria. Quando i delegati della commissione alleata appaiono alla terrazza della Prefettura vengono accolti da un’ovazione. Poi parte il coro «Deportati!, deportati!», che è richiesta di liberazione per i vivi e di giustizia per gli assassinati.
Il maggiore Long, governatore della città, dichiara alla Voce Libera, quotidiano triestino, che si è trattato, nelle giornate di martedì e mercoledì, di «insurrezione popolare» e che il corteo italiano era «veramente numeroso e formato esclusivamente da cittadini di Gorizia» mentre si dichiarava «a conoscenza che i dimostranti slavi erano stati quasi totalmente importati da paesi del circondario».
In realtà a dettare i destini di Gorizia e i limiti del confine furono i vecchi binari della Transalpina e la richiesta inglese di mantenere il controlllo della ferrovia Pontebbana, indispensabile per assicurare i rifornimenti alle truppe d’occupazione britanniche in Austria. Purtuttavia gli alleati mutarono il loro atteggiamento a favore della Jugoslavia solo una volta conosciuti gli avvenimenti giuliani del maggio 1945. L’urlo «Deportati!, Deportati!» risuonato da decine di migliaia di persone ricordava l’alto prezzo pagato perché Gorizia potesse continuare ad essere italiana.
Sandro Scandolara
il Piccolo 25/03/06