ROMA – “Il cuore nel pozzo” che, nei giorni 6 e 7 febbraio su Raiuno racconterà cosa è stata la tragedia delle foibe. Dietro la cinepresa c’è il regista Alberto Negrin, dalla mano particolarmente felice quando è alle prese con la seconda guerra mondiale (suo il ‘Perlasca’ ma non si dimentica ‘Una questione private’ ispirata al romanzo di Fenoglio) la produzione è di Angelo Rizzoli. Girato l’estate scorsa alle bocche del Cattaro in Montenegro la fiction ripercorre attraverso gli occhi di un bambino, Francesco Bottini (interpretato da Adriano Todaro) la tragedia che anticipò il concetto barbaro della pulizia etnica, portato alle estreme conseguenze negli anni ’90 con il crollo della Jugoslavia e le guerre balcaniche.
Francesco è figlio di un medico e un’insegnante, Giorgio (Cesare Bocci) e Marta (Mia Benedetta), che verranno infoibati per ordine di un crudele comandante partigiano, Novak, interpretato dal bravo attore serbo Dragan Bjelogrlic. Affidato a un prete, Don Bruno (Leo Gullotta), il bambino sarà protagonista, assieme a dei coetanei, di una disperata fuga complicata dall’accanimento di Novak. Il comandante titino ha motivi squisitamente personali: il suo odio etnico è legato all’abbandono da parte dell’amante italiana, Giulia (Sonia Aquino), che gli ha anche sottratto il figlio nato da quella relazione, Carlo (il piccolo Gianluca Grecchi), anch’esso affidato a Don Bruno. Nel cast c’è anche Beppe Fiorello, già Salvo D’Acquisto per Raiuno, che interpreta un alpino.
”Ho girato in maniera assolutamente libera – ha detto Negrin – pur nella corrispondenza ai fatti accaduti cui si ispira la storia che stiamo per raccontare”. La sceneggiatura è stata scritta da Massimo De Rita con Salvatore Maccarelli, Luigi Montefiori e lo stesso Negrin.
Le foibe, termine dialettale che significa fosse, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua. Ebbero la loro massima intensità nei quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste, Gorizia e dell’Istria, dall’aprile fino a metà giugno ’45, quando gli anglo-americani rientrarono a Trieste occupata dalle milizie di Tito. Come scrive Gianni Oliva nel suo libro sulle foibe, gli ordini di Tito e del suo ministro degli esteri Kardelj non si prestavano a equivoci: ‘Epurare subito’. Ci fu una vera e propria caccia all’italiano, con esecuzioni sommarie, deportazioni,processi farsa, infoibamenti. In quel periodo solo a Trieste furono deportate circa ottomila persone: solo una parte di esse potrà poi far ritorno a casa. Tutto fini’ il 9 giugno quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan, che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal Memorandum di Londra del 1954. è la linea del confine orientale dell’Italia, caduta solo nel 2004 con l’ingresso della Slovenia nella Ue. La persecuzione degli italiani, però durò almeno fino al ’47, soprattutto nella parte dell’Istria più vicina al confine.
Dopo 60 anni le stime non sono ancora precise: i morti italiani infoibati furono tra i 10 e i 15 mila. Erano italiani che volevano restare italiani e che per questo si opponevano all’espansionismo del maresciallo Josip Broz Tito nella Trieste e nell’Istria occupata dopo la fine della Seconda Guerra.
La pulizia etnica titina non risparmiò nè gli antifascisti e neppure i partigiani del Comitato di liberazione nazionale. Ma le vittime furono doppiamente vittime perchè dimenticate per anni. Un vero e proprio tabù storico durante la Guerra Fredda
da ANSA – 15/01/05