«Mio padre infoibato» – Giorgio Bianchi racconta quegli anni tragici

«Mio padre infoibato» – Giorgio Bianchi racconta quegli anni tragici «Ce ne andammo senza nulla»

«Mio padre ha avuto la sfortuna di essere titolare del principale Caffè di Capodistria. Lui non faceva parte di nessun partito, non era schierato. Era semplicemente un italiano». Giorgio Bianchi, 81 anni, una vita da farmacista, ricorda molto bene quegli anni, il 1945 in particolare, quando suo padre sparì in una foiba.

«Fu una pulizia etnica, sulla pelle degli italiani» continua a raccontare. «Erano le 10.30 del 5 maggio 1945 quando due uomini armati sono entrati in casa mia, a Capodistria e hanno portato via mio padre». Giorgio Bianchi era scappato pochi giorni prima, il 30 aprile, andando a vivere a Venezia. La madre rimase ancora un anno in Istria, girando per i campi di concentramento in cerca di notizie del marito. «Abbiamo sentito solo delle voci: ci hanno detto che lo avevano portato in un paesino, poi qualcuno ha detto che era stato infoibato a Buie. Ma non abbiamo avuto mai una prova di dove fosse finito». Un anno dopo la donna venne prelevata, portata al piroscafo e fatta imbarcare a forza. Non potè portare nulla con sè. «Abbiamo capito cosa sarebbe successo agli italiani già dall’8 settembre del 43: improvvisamente ci siamo trovati con due nemici, gli slavi e i tedeschi». C’è chi come Bianchi ha perso il padre infoibato, e chi come Adriana Tegner (moglie del sindaco di Sospirolo) è riuscita a fuggire nel 1945 da Pola con la madre e le sorelle, raggiungendo il padre che già era scappato prima: «Siamo venuti via senza niente, abbiamo dovuto lasciare tutto lì». In quella terra, in tanti non hanno lasciato solo i loro averi, gli amici e i parenti: ci hanno lasciato anche il cuore. Ci sono tornati e ci tornano ancora molto spesso, colpiti dalla nostalgia, oggi come 60 anni fa.

 

 

Maria Bronzin era una ragazza quando scappò su una barca da carico, con la mamma e quattro fratelli. «Avevamo perso tutto, andammo a Venezia dove c’era un nostro zio. Fummo tra i fortunati che non dovettero andare nei campi profughi o nelle scuole, dove le pareti tra una stanza e l’altra erano fatte di coperte». La signora Bronzin, originaria di Rovigno, rivide il suo paese natale solo nel 1986. «Tanta nostalgia, proprio tanta», racconta. E ricorda ancora adeso «quando battevano alle porte portavano via la gente». Gente che spariva, dentro nelle foibe o fucilata, come ha ricordato anche don Carlo Onorini durante l’omelia nella chiesa di San Rocco.

Gabriele Brescak aveva cinque anni e abitava vicino a Gorizia. Se ne dovette andare con la sua famiglia, come accadde a Loredana Fontanini, che aveva 12 anni quando nel 1947 scappò da Fiume senza portarsi via nulla. Suo padre che era ufficiale degli alpini riuscì a fuggire prima di essere preso. E non potè mai più tornare.

(ma.co.)

 

Il Corriere delle Alpi 11/2/05