1947, Pola addio: la triste odissea degli esuli
Clelia Bisignani allora aveva 14 anni: oggi rivive quei tragici giorni
di Giovanni Longhi
Gelide raffiche di bora spazzano il mare scuro sollevando creste di schiuma che ricadono in mille rivoli sulla banchina del porto di Pola: è la notte del 13 febbraio 1947, la sagoma nera di una nave attraccata alle bitte del molo si staglia imponente sopra a centinaia di persone che salgono sulla scaletta traballante in una silenziosa processione che sfida il vento e la storia. Sono italiani di Pola che stanno lasciando la loro città per non condividerla con i nuovi occupatori jugoslavi. Tra loro Clelia Bisignani, nata a Gorizia nel ’26, ma dall’età di 5 anni a Pola dove la famiglia si era trasferita per seguire il papà ufficiale medico dell’esercito italiano.«Mi sposai prestissimo -ricorda Clelia Bisignani- avevo 14 anni, mio marito era Pierfrancesco Luxoro, campione di nuoto molto conosciuto non soltanto a Pola, per le sue imprese sportive. Fu un grande amore e l’anno dopo misi al mondo Laura. Lui lavorava all’ufficio del lavoro, eravamo felici e ci sembrava che quei giorni fossero una favola senza fine». La fine venne invece con la violenza cupa di un temporale.
«Verso la seconda metà del 1946 quasi ogni giorno c’erano manifestazioni di piazza contro i trattati che assegnavano quella parte di Istria al controllo della Jugoslavia di Tito, cortei per l’italianità, comizi, appelli a Roma, delegazioni ricevute, promesse fatte».Niente, il destino tracciato dagli accordi post bellici per quella scheggia di terra che si insinua nell’Adriatico e per la regione fiumano – dalmata, fu inesorabile.«Lasciai Pola la sera del 13 febbraio con Laura che aveva 5 anni e un’altra piccola vita che portavo in grembo; mio marito non potè seguirmi perchè doveva passare le consegne ai suoi successori all’ufficio del lavoro». Faceva freddo quella sera, sul piroscafo diretto ad Ancona almeno duemila persone si imbarcano abbandonando tutto, riducendo in brandelli un’esistenza che da quel momento non sarà più la stessa. Le operazioni di imbarco sono semplici, una burocrazia solitamente farraginosa, per l’occasione diventa snella, sollecita, quasi a voler chiudere in fretta una pagina di dolore che in molti subito sottovalutano. Alle prime luci dell’alba la nave stacca gli ormeggi, il vento è calato, dopo una notte insonne trascorsa a bordo i polesani si accalcano sul ponte: «Furono attimi di una tristezza infinita, indescrivibile anche se nell’ingenuità dell’età pensavo che quella partenza fosse solo una parentesi. Mio marito venne a salutarci sul molo insieme ad altri che dovevano restare, lo guardai fino a che mi fu possibile scorgerlo…».
I contorni di Pola si allontanano lentamente, le case, le colline, la marina diventano sempre più sfumate, puntini lontani fino a fondersi con la linea del mare. Qualcuno piange, le mamme abbracciano i figli, gli anziani attoniti stringono fazzoletti umidi: il dramma si sta compiendo. Dopo un giorno di navigazione, la nave arriva in vista di Ancona, un coro di sirene la accoglie nel porto, la traversata è finita.
«Ad Ancona trovammo un treno composto di vagoni che erano poco più di carri bestiame, alcuni studenti ci rifocillarono con bevande calde e qualcosa da mangiare; partimmo per Bologna, ma quando fummo nei pressi della stazione il treno venne fermato; intanto iniziò a nevicare, fiocchi che non avevo mai visto così grossi». Passano le ore, il treno non si muove di un centimetro, scende la seconda gelida sera sul convoglio di profughi istriani dal momento della partenza da Pola, poi una voce si diffonde, prima sussurrata tra l’incredulità di pochi, poi ripetuta di bocca in bocca come un’eco grottesca:«I sindacalisti bolognesi appreso dell’imminente arrivo del treno di esuli diretti a Milano, minacciarono uno sciopero generale se il treno fosse entrato in stazione».
Per i polesani è uno schiaffo che aggiunge umiliazione al dolore: cacciati dalle loro case e accolti in patria con l’etichetta di fascisti che rifiutano di vivere nel “paradiso” socialista di Tito. Calmate le acque, il treno transita senza fermarsi con il suo carico di disperazione nella stazione di Bologna. Verso sera, la terza dopo l’addio a Pola, l’arrivo a Milano. «Ci fecero scendere -ricorda Clelia Bisignani- e ci spedirono nei sotterranei della stazione perchè c’era il coprifuoco: avevano preparato delle brande un po’ di latte caldo e lì aspettammo il mattino per poter raggiungere finalmente le nostre destinazioni». Clelia Bisignani va a vivere in casa di parenti, ma la lontanza dal marito è insostenibile: in maggio nasce Rita e in luglio di quel tragico 1947, Clelia torna a Pola con le due bambine; il viaggio è lungo, ma la gioia di riabbracciare Pierfrancesco annulla la distanza, riempie il cuore, la rende forte di fronte ai pericoli: in treno fino a Trieste, poi costeggiando il bianco calcare istriano che si tuffa nel blu dell’Adriatico giù fino a Pola.«Vivemmo quelle ultime settimane in Istria in un’irreale spensieratezza, poi, verso il 10 settembre ci imbarcammo tutti e quattro su un piroscafo di linea per Trieste e da lì tornammo a Milano in treno». Pierfrancesco non sapeva che non avrebbe mai più rivisto Pola: nel ’54 Clelia rimase vedova e negli anni ’70 tornò per la prima volta in Jugoslavia dopo quel settembre del ’47.«Fu un’emozione indescrivibile, la mia casa, quei cortili dove avevo giocato e dove ero cresciuta, quel passato che mi era stato sradicato, ma che pure mi apparteneva…».
Passano gli anni, ma questa volta il tempo non è galatuomo e al dramma si aggiunge il dramma: il silenzio con il quale per anni la recente storiografia italiana ha coperto la diaspora fa più male di quella gelida notte di febbraio.
«A poco servono le fiction televisive o le giornate istituite ad hoc, sanno tanto di raffazzonato, di preconfezionato, di indotto -conclude Clelia Bisignani- quella ferita andava lenita allora, ma si è preferito ignorarla, oggi è un po’ tardi e guardo tutto con la distaccata consapevolezza che niente e nessuno ci compenserà mai di quella tragedia che ci è piombata addosso scaraventadoci in vite che non avevamo voluto».
La vicenda di Clelia Bisignani è comune a quella di migliaia di profughi che in quegli anni a cavallo del 1950 furono costretti a lasciare le loro terre, esuli cui non solo mancò il calore di un abbraccio in patria, ma che si trovarono a ricostruire un’esistenza tra la diffidenza di alcuni e l’indifferenza dei più.
Il Gazzettino 9/2/2005