A sessant’anni dal “terrore titino”: non nominare il Comunismo

Cosa è accaduto in quei tragici mesi alla fine della seconda guerra mondiale? Perchè le Foibe, le deportazioni, il terrore titino? Di chi sono le responsabilità? Un’analisi di Paolo Sardos Albertini Presidente della Lega Nazionale che tanto scandalizza gli ultimi trinatriciuti difensori delle ideologie.

Il testo (del 2005) si conclude con una frase ancora oggi profetica: “per mezzo secolo è stato pressocchè proibito parlare di Foibe e di Esodo, oggi finalmente si può farlo a condizione però di non menzionare chi porta la responsabilità di quella tragedia, vale a dire il Comunismo.”

1945 – 2005 : a sessant’anni dal “terrore titino”

“Terrore titino”? La formulazione del tema di questo Convegno può apparire, oggi, a distanza di sessanta anni, forse un po’ troppo carica ed eccessivamente a forti tinte. Magari, parlare di “terrore”, può sembrare frutto di quella passione politica che animava gli animi di allora, ma che oggi , trascorsi tanti decenni, risulta sicuramente datata ed anacronistica.

Ci sono però dei dati oggettivi, non emozionali, che giustificano l’uso proprio di questo termine così forte, dei fatti che testimoniano di come, quanto successo nelle primavera del ’45, in queste terre, meriti propriamente, a pieno titolo la definizione di “terrore”.

Lo scorso anno, nell’ambito delle celebrazioni per il 50° del ritorno di Trieste all’Italia, sono state proposte innumerevoli immagini, fotografiche o cinematografiche, della popolazione di Trieste in quelle giornate dell’autunno 1954: quei volti, di uomini e di donne, di vecchi e di bambini, di ragazzi e di ragazze, tutti ciò che esprimevano con assoluta evidenza era una esplosione incontenibile di gioia, una felicità traboccante che portava sovente alle lacrime. Gioia e felicità che avevano, in realtà, una chiara chiave di lettura, una radice ben precisa. Trieste, sotto quella gelida pioggia del 26 ottobre 1954, usciva finalmente da un lungo tunnel, viveva quasi incredula la fine di un vero e proprio incubo durato ben lunghi nove anni. L’arrivo dell’Italia, dei soldati d’Italia dava la certezza che ormai c’erano loro a difendere la città di San Giusto. Finalmente non ci sarebbe stato più bisogno di chiedersi, con angoscia e con terrore: “E se tornano i Titini? E se ricominciano quegli orrori dei 40 giorni della primavera ’45?”.

Perché il maggio ’45 per i Triestini, non meno che per i Goriziani, per gli Istriani, per i Fiumani, per i Dalmati, ha sicuramente costituito una vera e propria esperienza traumatica, tale che solo il termine “terrore” può adeguatamente descriverla.

In quella primavera di sei decenni or sono nel resto d’Italia, e in tanta parte d’Europa, si festeggiava comunque la fine della guerra, l’avvento della pace. Le genti Giulie, viceversa, vivono l’esperienza di una nuova presenza straniera (gli Slavi) che si era proposta come seminatrice di morte e di violenze, che “rubava” nottetempo le persone ai propri cari per poi farle scomparire; e ciò riguardava i nemici o gli ex nemici dei nuovi occupatori (i tedeschi, i fascisti), ma ancor prima coloro che in teoria erano i loro alleati (gli uomini del C.L.N.) e soprattutto tante, tante persone che poco o niente avevano acchè fare con le vicende della lotta politica.

In definitiva una macchina crudele, connotata da una forte dose, almeno apparente, di irrazionalità e di non prevedibilità. Nessuno, o almeno ben pochi, poteva dire a se stesso “non ho fatto niente e quindi niente può succedermi”. Nessuno, o almeno ben pochi, poteva sentirsi tranquillo e sicuro.

Crudeltà, irrazionalità, imprevedibilità: sono questi gli ingredienti tipici per costituire quel cocktail che deve, tecnicamente, essere definito come “terrore”.

Un’esperienza che, vissuta per poche settimane, a Trieste come a Gorizia, segnerà tuttavia per anni, forse per decenni, l’animo, la psiche delle genti di queste città. Un’esperienza che, nella vicina Istria, a Fiume, in Dalmazia svolgerà un ruolo determinante nell’indurre trecento e cinquantamila Istriani, Fiumani, Dalmati a scegliere la strada dell’Esilio, ad abbandonare tutto, case, attività cimiteri pur di sfuggire da tale realtà.

“Terrore” è del resto un termine storicamente qualificato, perché rimanda alle vicende della Francia rivoluzionaria, a quei non molti mesi durante i quali gli uomini di Robespierre attuarono un sistema di violenza e di intimidazione che tenne sotto minaccia non solo avversari (nobili e monarchici), ma anche alleati ed amici del giorno prima (i girondini di Danton) e soprattutto i cittadini qualsiasi, le persone comuni, i semplici spettatori delle vicende della politica, tutti in balia della più oscura ed anonima delle delazioni, tutti a rischio di ghigliottina.

“Terrore giacobino” allora, “terrore titino”, da noi, nella primavera del ’45. A realizzarlo era stato quel sistema politico-militare-statuale che trovava espressione negli uomini del Maresciallo Tito e che stava edificando la nuova Jugoslavia, comunista e multietnica, di certo uno dei nuovi stati che – dopo Yalta – andavano formandosi nell’Europa dell’Est, eppure una realtà politico-statuale con delle sue precise specificità.

“Slavo-comunisti” venivano definiti nella corrente terminologia politica triestina, una formula che all’epoca era certamente ben espressiva, ma che forse negli anni ha rischiato di produrre qualche equivoco e di generare più ombre che luci. Ad essi si opponeva il cosiddetto “partito italiano”, in quella sorta di bipolarismo implicito che la realtà della terza guerra mondiale (la cosiddetto “guerra fredda”) aveva generato: gli slavo comunisti erano coloro che guardavano alla Jugoslavia come modello di realizzazione di un rivoluzione per una società più giusta; gli altri, il partito italiano guardavano all’Italia, all’Occidente, come scelta di libertà e di democrazia, come rifiuto del Comunismo in genere, di quello jugoslavo in particolare.

Questi due schieramenti saranno i protagonisti della politica giuliana per tutti gli anni successivi al ’45 e continueranno ad esserlo, a svolgere un qualche ruolo (pur con tutti i mutamenti del caso) sostanzialmente fino allo storico ’89, quando si assisterà allo sfacelo del Comunismo, prima, e poi alla dissoluzione (in un mare di sangue di violenze etniche) della stessa Jugoslavia.

Degli slavo-comunisti resterà ancora qualche patetico epigone a riesumare nel Carso triestino, in occasione del 1° maggio, le bandiere bianche-rosse-blu con la stella rossa o a far comparire, nel Goriziano, patetiche scritte nostalgiche del Maresciallo Tito. Si tratta comunque di fenomeni che appartengono più alla dimensione della patologia psichica che a quella della politica o della storia.

Il “terrore titino” è stata dunque una vicenda vera e reale, importante e ben meritevole di venire non solo ricordata, ma anche analizzata.

Lo scopo di questo Convegno vuole essere quello di cercare delle risposte, di capire “cosa” sia allora successo, di chiarire “perché” sia successo, di dare piena ragione di chi siano stati i protagonisti di tale vicende e quali ruoli abbiano svolto.

Una prima ipotesi di lavoro aveva previsto, quale titolo di questo Convegno, “Foibe, Infoibati, Infoibatori”, nelle convinzione che un tipo di analisi incentrata sui protagonisti (carnefici e vittime) già avrebbe aiutato a capire il senso vero e profondo di quanto accaduto.

Poi si è preferito spostare l’attenzione su una ricerca finalizzata non sui soggetti, ma sul dato geografico; verificare come il “terrore titino” si sia manifestato in luoghi diversi: a Trieste ed a Gorizia, in Istria ed a Fiume ed in Dalmazia.

Il fenomeno analizzato è lo stesso (il terrore titino), l’epoca è grosso modo la medesima (la primavera del ’45), le aree geografiche prese in considerazione, le relative situazioni storico-politiche presentano invece non poche diversità. Questo coesistere di elementi analoghi e di altri diversi potrà costituire un metodo valido di analisi. L’augurio è che, alla fine, ne derivi un aiuto alla comprensione, almeno un embrione di risposta a quei tre quesiti sopra ricordati: cosa è accaduto? perché è successo? chi ne porta la responsabilità?

* * * * *

La ricerca, l’analisi secondo tale metodologia per così dire geografica verrà proposta nelle successive relazioni.

Questo mio intervento vuole avere piuttosto un carattere preliminare ed introduttivo, finalizzato cioè ad analizzare le diverse chiavi di lettura, le diverse ipotesi interpretative che vengono proposto o suggerite quando si cerchi di darsi una ragione di tale “terrore titino”.

C’è una finalità morale di fondo, in tale ricerca, ed è la volontà di evitare che un nuovo oltraggio venga commesso ai danni di quelle migliaia di povere vittime: allora, nel ’45, patirono la violenza del sangue, poi per lunghissimi decenni subirono l’oltraggio del più vergognoso degli oblii. Oggi c’è il rischio che di quella tragedia si possa sì parlarne, ma a condizione di nascondere la verità vera, di coprire le responsabilità reali, di “salvare” di fronte tribunale della storia chi viceversa merita la più tassativa delle condanne .

Ecco dunque il proposito di tale ricerca: ricordare sì, ma anche capire.

Solo quando avremo capito, e fatto capire, chi realmente porta le responsabilità di quel “terrore”, di quei crimini, di quella tragedia, solo allora sarà possibile dire che si sono regolati i conti con la Verità e con la Giustizia.

L’ipotesi “jacquerie”

Per taluni la vicenda drammatica della primavera di sangue del ’45 trova la sua spiegazione nella esplosione di moti spontanei di violenza popolare.

Sarebbe stato, in sostanza, il puro e semplice manifestarsi di una violenta affermazione di classi, di categorie, di persone a danni di quanti erano ed erano stati avvertiti come oppressori.
Un fenomeno che trova la sua classificazione storica sotto il termine “jacquerie” e che sovente si accompagna alla sua sottospecie rappresentata dalla pura e semplice vendetta personale e magari al cogliere l’occasione per attuare qualche lucrosa ruberia. I più dotti possono parlare del conflitto città – campagna, i più prosaici di questioni di corna o di beghe ereditarie regolati con il sangue.

Certamente tale interpretazione ha una sua qualche parte di verità, ma è egualmente certo che non riesce a dare spiegazione adeguata e completa di quanto accaduto.
Viene infatti a contrastare con alcuni dati oggettivi: in primo luogo il manifestarsi del “terrore titino” in zone diverse e non omogenee; inoltre il fatto che gli infoibamenti, gli eccidi presentino dei connotati di organicità, di scientificità che nulla hanno acchè fare con lo spontaneismo di esplosioni incontrollate di violenza popolare.

E ancora: le violenze di questo tipo hanno di regola quale obbiettivo il potere costituito. In queste nostre vicende, viceversa, il potere costituito era quello jugoslavo (siamo infatti già a guerra finita) che non solo non risulta vittima di tale esplosione di violenza, ma anzi ne è quantomeno spettatore compiaciuto, se non addirittura esplicito regista.

In realtà tale interpretazione storica appare avere sicuramente una certa dose di fondamento, ove la si applichi a quanto successo in Istria dopo l’8 settembre ’43, con il primo comparire degli infoibamenti, e prima che i Tedeschi riprendano il controllo del territorio.

Non sembra viceversa convincente, questa lettura in termini di “jacquerie”, quando si voglia cercare una spiegazione del terrore del maggio ’45, nelle diverse situazioni territoriali nelle quali si è palesato.

In quella primavera di sangue, a guerra finita, vi furono certamente anche delle vendette personali, vi furono anche le ruberie a danno del vicino, le manifestazioni di quella bestiale criminalità che alberga nell’animo umano, ma basta tutto ciò a rendere ragione di tutto quanto successo a Trieste come a Gorizia, in Istria come a Fiume e come in Dalmazia?

E, se si trattava solo di esplosione spontanea di violenza individuale o collettiva, come si spiega che in nessun modo questa violenza risulti repressa e punita dalle autorità costituite?

Il fenomeno ha di certo avuto dei connotati che non trovano spiegazione in tale lettura dei fatti. Non basta parlare di “jacquerie” o di conflitto città-campagna per dare una convincente spiegazione del “terrore titino”.

 

Il conflitto etnico tra Slavi e Italiani

E’ la tesi che, al momento, forse va per la maggiore, quella che ha trovato manifestazione piena anche nel recente lavoro cinematografico “Il cuore nel pozzo”, prodotto e proiettato (con enorme successo) dalla Radio Televisione Italiana.

Nelle oltre tre ore di programmazione la chiave di lettura proposta ( al di là della vicenda personale) risulta fondamentalmente una sola: Slavi contro Italiani, Italiani contro Slavi.

Ma è certo che sia stato proprio così?

In primo luogo, quanto è corretto parlare genericamente di “Slavi”? E‘ lecito cioè mettere in un unico calderone sloveni e croati, serbi e macedoni, bosniaci e montenegrini?

Sono domande non del tutto peregrine ove si tenga conto di come, neppure mezzo secolo dopo quel ’45, la Jugoslavia costruita da Tito è scoppiata in un sanguinoso conflitto etnico che ha visto contrapporsi, negli eccidi e nelle violenze più inumane, quei diversi gruppi nazionali che si pretenderebbe qualificare indistintamente come “Slavi”.

E, per restare a due delle etnie più direttamente coinvolte nelle vicende che stiamo analizzando, vale a dire Sloveni e Croati, tanto poco sono omologabili se è vero, come è vero, che nell’Europa del terzo millennio l’unico confine sul quale ci si spara è proprio quello che corre tra la Repubblica di Slovenia e quella di Croazia, a Sicciole non meno che nel Golfo di Pirano.

Se la realtà delle diverse etnie slave risulta così diversificata (ed anche conflittuale), appare chiaramente inverosimile il richiamo ad un generico “orgoglio slavo” (come appare nel film della RAI) per dare spiegazione dell’operato degli infoibatori.

Tale osservazione legittima già dei dubbi sulla fondatezza della tesi del conflitto etnico: tra Italiani e Sloveni? tra Italiani e Croati? tra Italiani e Serbi? tra Italiani e le diverse altre etnie della ex-Jugoslavia? Evidentemente le variabili sono troppe da far risultare difficilmente credibile tale lettura esclusivamente etnica di queste vicende.

Vi sono però delle considerazioni che generano non dubbi, ma la certezza della infondatezza di tale tesi.

La prima e fondamentale considerazione: il “terrore titino” nella primavera del ’45 ha sicuramente provocato migliaia e migliaia di vittime tra gli Italiani della Venezia Giulia e Dalmazia, ma è innegabile che gli stessi uomini di Tito, nello stesso periodo, hanno massacrato un numero ancora maggiore di Sloveni e di Croati. A dimostrazione indiscutibile che non era quella etnica la motivazione che guidava il loro agire criminale.

E ancora: è pacifico che nell’indurre all’Esodo gli Italiani dell’Istria, specie di quella interna, specie dei piccoli centri, un ruolo importante lo ha svolto la persecuzione religiosa. In quelle piccole realtà l’avvertire che la pratica religiosa poteva costituire motivo di repressione e comunque era oggetto di controllo politica, tutto ciò venne a costituire un motivo “forte” di incertezza, di timore per cosa sarebbe successo, di motivazione per lasciare tutto e cercare scampo in Italia. E’ chiaro – per chiunque valuti con onestà i termini della questione – che è assolutamente impensabile che siano stati i Croati o gli Sloveni, in quanto tali, a mettere in atto tale strumento della persecuzione religiosa a danno degli Italiani. Se proprio avessero voluto attivare tale strumento, avrebbero costretto gli Italiani ad andare a Messa tre volte al giorno, piuttosto che ostacolare il loro accesso alle Chiese.

E poi le violenza contro il Vescovo, quelle contro sacerdoti, le uccisioni di questi ultimi (si pensi per tutti al martirio del Servo di Dio don Bonifacio), tutto ciò appare assolutamente non compatibile con il tasso di religiosità – notoriamente più che elevato – dei popoli Croato e Sloveno

E’ la conferma che non era la croaticità o la slovenità a muovere le mani assassine degli infoibatori. E, di contro, non era quindi esclusivamente l’italianità a segnare il sacrificio degli infoibati.

Infine un’ultima considerazione, forse di minor rilievo, eppure non priva di significato. Il potere jugoslavo, il sistema titino si proponeva con un organismo politico, l’Unione Antifascista Italo Slovena – UAIS, e lo slogan sbandierato ad ogni piè sospinto era quelle della “fratellanza” italo – slovena“. Vale a dire che – almeno per quanto riguardava il loro auto presentarsi – gli uomini di Tito non proclamavano in alcun modo l’orgoglio slavo contro l’arroganza italiana, bensì l’armonia e la collaborazione tra le due etnie.

La conclusione di questa fase della nostra analisi sembra possa essere questa: una lettura dl “terrore titino” in chiave esclusivamente etnica non po’ in alcun modo soddisfare, perché troppi sono i dati che con essa contrastano e che rimandano necessariamente ad una spiegazione altra e diversa.

Certo, un conflitto tra Slavi e Italiani c’era stato e c’era, un conflitto che aveva una origine ben precisa: la politica cinica e criminale degli Asburgo che, dopo il 1866, alimenta un contrasto drammatico tra delle popolazioni che, per secoli, ai tempi di Venezia avevano vissuto in pace ed armonia.

Gli Asburgo fecero nascere tale conflitto quale strumento per contenere e contrastare il gruppo etnico italiano, recalcitrante e contestatore. La scelta della dinastia di Vienna, in nome del “divide et impera”, servì a loro ben poco, visto che hanno fatto la fine a tutti ben nota. In compenso, alle popolazioni di queste terre, costò enormemente in termini di violenze, di odii, di morte.

Un conflitto etnico dunque c’era stato, prima e dopo la prima guerra mondiale, il conflitto fu continuato ed amplificato durante il fascismo e sicuramente era ben presente negli animi, sia degli Italiani che degli Sloveni e dei Croati, anche nella primavera del ’45.

Ma il suo ruolo fu solo quello di comprimario, di strumento usato, con scientificità e lucidità, da altro soggetto ed ad altro livello.

 

La tesi “giustificazionista”

 

Costituisce una variabile della tesi incentrata sul conflitto etnico, nel senso che individua sempre come protagonisti gli Slavi , in quanto tali, ma pone l’accento sul giustificare, sul legittimare il loro, operato.

I “titini” – sostengono taluni – massacrarono, infoibarono, terrorizzarono, ma tutto altro non era che la (giusta?) reazione per quanto fatto dagli Italiani, dai fascisti a danno delle popolazioni slave della Venezia Giulia.

In tale impostazione vengono quindi evocati veri o presunti crimini degli Italiani, si citano dossier approntati dal Maresciallo Tito per contrastare le accuse nei suoi confronti, si scoprono campi di detenzione di Sloveni e Croati in Italia durante la guerra.

La base di questa interpretazione è costituita, in buona sostanza, dal ritenere la vendetta non solo una attenuante, ma addirittura una giustificazione, se non addirittura un merito.

Gli Italiani, i fascisti avevano commesso violenze e soprusi a danno degli Slavi? Era quindi giusto (magari doveroso) che questi a guerra finita regolassero i conti a danno degli Italiani.

Il fatto è che quello della vendetta, del regolamento dei conti è un criterio che forse riguarda le popolazioni barbariche, proprio perché barbariche, ma non può trovare legittimazione alcuna tra popoli che siano civili.

Dopo i tragici quaranta giorni dell’occupazione di Trieste, quando il 12 giugno 1945 i Titini lasciarono la città, gli Italiani che avevano visto migliaia di loro fratelli assassinati in poche settimane, avrebbero dovuto – a seguire tale logica – scatenarsi nella caccia allo Slavo, dare vita a veri e propri pogrom nei confronti degli Sloveni presenti nel territorio di Trieste, bruciare i loro negozi, distruggere le insegne, assaltarne le case. E invece niente di tutto questo ebbe a succedere. E nessuno se ne meravigliò perchè tra le popolazioni civili il diritto alla vendetta non esiste.

Nei mesi e negli anni successivi decine e decine di migliaia di Istriani, Fiumani e Dalmati arrivarono nella città di San Giusto accolti nei campi profughi dopo esser stati cacciati, ad opera degli “Slavo-comunisti”, dalle proprie case, dalle proprie città. Costoro avrebbero anch’essi potuto abbandonarsi alla vendetta contro gli Sloveni di Trieste e del circondario, i quali – tra l’altro – cercarono di ostacolare in tutti i modi la costruzione di case per i profughi nei dintorni di Trieste, finendo con il protrarre la permanenza degli Esuli nei campi di raccolta.

E neppure ciò ebbe a succedere; nei campi dei profughi, nessuno, neppure i più facinorosi si sognò di organizzare spedizioni punitive per “regolare i conti”, per vendicarsi delle violenze subite e delle ingiustizie di cui continuavano ad essere vittime.

La verità – vale ribadirlo – è che invocare la vendetta, come motivazione dell’operare dei popoli, è argomento valido solo per chi sia abituato a muoversi in una logica di pura e semplice barbarie. E un argomento che, prima ancora di essere falso, risulta degradante per chi ne fa uso, nonchè profondamente offensivo per i popoli (in questo caso Croati e Sloveni) cui si intende riferirlo quale “giustificazione” del loro operare. La tesi “giustificazionista” ha infatto il senso vero e profondo di marchiare i popoli Sloveno e Croato come profondamente barbari.. E’ questa l’intenzione degli storici (o pseudo tali), dei politici, dei polemisti sostenitori del giustificazionismo?

Il fatto è che l’impulso alla vendetta può esser un impulso (comunque riprovevole) per i singoli individui, ma non può costituire motivazione per collettività intere, per popoli e genti.

Meno che mai può rappresentare una scelta operativa per una realtà statuale. Gli Stati possono farne tante di atrocità, possono ben combinarne di tutti i colori, ma non è pensabile che abbiano a praticare la vendetta.

Nel ’45 era uno Stato, quello jugoslavo, che infoibava e terrorizzava popolazioni civili. Il tutto senza più alcuna motivazione bellico-militare , perché la guerra era oramai finita. Foibe e terrore erano realizzati, da organi statuali, non per delle supposte e sterili motivazioni di vendetta, bensì per delle ragioni ben diverse e con degli obbiettivi molto, molto più razionali.

 

Il “titoismo” come eresia comunista

 

Certi ambienti storico-politici, legati più direttamente al comunismo italiano alle sue attuali derivazioni avanzano la tesi secondo cui Foibe ed Esodo sarebbero da imputarsi a quella sorta di eresia comunista che ebbe a rappresentare il titoismo, una eresia che si sarebbe caratterizzata (specie nei suoi inizi) anche nel coniugare il marxismo-leninismo con il nazionalismo slavo.

Sarebbe stata appunto la presenza di questa seconda componente, il nazionalismo, a generare la politica di repressione degli Italiani, la violenza nei loro confronti, la loro cacciata costringendoli all’Esodo.

Il Comunismo avrebbe dovuto ispirare la “fratellanza” tra Sloveni, Croati e Italiani; la malefica presenza del nazionalismo fece sì che, al di là delle parole ufficiali, il regime di Tito si caratterizzasse come anti italiano.

Tesi, questa, sicuramente suggestiva ed allettante per chi voglia liberare il PCI, Togliatti ed i suoi epigoni da specifiche responsabilità nelle vicende ai danni degli Italiani della Venezia Giulia e Dalmazia.

C’è peraltro qualche non piccola perplessità che merita evidenziare.

C’è un’obbiezione di fondo:è proprio certo che coniugare marxismo-leninismo e nazionalismo sia operazione così eretica? In realtà già la scelta del “socialismo in un solo paese” andava a privilegiare il rapporto tra Comunismo e gli interessi di un solo Stato, l’Unione Sovietica, che diventava la nazione madre per i Comunisti di tutto il mondo. Proprio questo Stato, la casa madre del Comunismo mondiale, non esita a sbandierare la “guerra patriottica”, a chiamare a raccolta tutti i valori della Nazione, quando appare necessario il farlo.

Al di là di ciò, la storia di tante realtà statuali comuniste è costellata di spinte nazionali, le cosiddette “vie nazionali al Comunismo” hanno finito con il costituire quasi una regola, certo più che semplici eccezioni.

La realtà vera è che la dimensione nazionale, quella che il Comunismo dei teorici pretendeva cancellare in nome dell’internazionalismo proletario, quella realtà della Nazione ha finito con il farsi sentire, e non poco, con il suo peso e la sua rilevanza . Forse è non meno significativo il fatto che, dopo l’89, dopo il dissolvimento per bancarotta storica del sistema comunista, ciò che emergerà dalle macerie del socialismo reale saranno la Religione e, appunto, la Nazione.

Tutto questo solo per esprimere serie perplessità sull’affermazione secondo cui l’eresia titoista sarebbe consistita nella presenza del nazionalismo.

Oltretutto, nel periodo che stiamo considerando, nella primavera del ’45, il Maresciallo Tito non è ancora un eretico, egli all’interno del Kominform risulta anzi uno dei leader di stretta e rigorosa fedeltà staliniana. La rotture Stalin – Tito si realizzerà più tardi, nel ’47, su delle concrete ragioni di potere, piuttosto che su astratte tematiche di principio: la pretesa di Stalin di gestire la realtà balcanica ed il rifiuto di Tito di soggiacere a tale gestione.

Di fatto, il Comunismo jugoslavo, così come realizzato da Tito, era piuttosto una delle forme di Comunismo più estranee al nazionalismo se è vero che andava a mettere insieme una serie di nazioni non solo diverse (Serbi, Croati, Sloveni e altri), ma anche segnate da lunghe vicende conflittuali e da odii sovente sanguinosi. Tito, in tale situazione, tutto poteva fare meno che giocare la carta nazionale; il suoi obbiettivo era lo stato multietnico e, al di là delle diverse nazionalità, non aveva una nazione jugoslava cui fare riferimento (la precedente Jugoslavia, il Regno di Re Pietro era stato in realtà uno strumento nelle mani dei Serbi per controllare le altre etnie).

Una seconda serie di obbiezioni, a tale tesi del comunismo di Tito come eresia nazionalista, è di carattere temporale.

Nella primavera del ’45 gli uomini di Tito e quegli di Togliatti sono sulle stesse identiche posizioni. Già durante le guerra i partigiani comunisti italiani operavano in piena sintonia con quelli sloveni e croati: combattevano non solo contro i nazi-fascisti, ma erano anche insieme nel massacrare, come alla Malga di Porzus, quei partigiani italiani che comunisti non erano.

In realtà gli uomini di Togliatti e quelli di Tito erano pienamente concordi nel perseguire, attraverso lo strumento della Resistenza, l’obbiettivo della Rivoluzione Comunista.

Sicchè ben si spiega l’invito pubblico di Togliatti ai Triestini, nel maggio ’45, affinché accogliessero da liberatori e fratelli gli uomini del Maresciallo Tito, proprio quei “liberatori” che nei quaranta giorni successivi infoibarono migliaia e migliaia di Triestini.

Ed in questa piena sintonia, all’epoca, tra comunisti jugoslavi e comunisti italiani rientrerà anche la vicenda – portata recentemente alla luce da Giampaolo Pansa – dei circa due mila comunisti monfalconesi, operai dei Cantieri, che nel ’45, in una sorta di controesodo, lasciarono l’Italia per trasferirsi in Jugoslavia, a Pola ed a Fiume, per offrire il loro contributo alla edificazione del Comunismo. La loro scelta risulta oltremodo indicativa per capire quali fossero i rapporti di sintonia tra i due Comunismi, in quel 1945.

Sarà solo dopo il ’47, dopo che Stalin avrà scomunicato Tito, che anche i Comunisti italiani prenderanno le distanze dall’uomo di Belgrado, magari accusandolo di eresia nazionalista, magari (ma solo molto, molto più tardi,) per imputare a lui i misfatti delle Foibe e dell’Esodo dei trecentocinquantamila italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.

Ed i poveri comunisti monfalconesi? Loro, fedeli sempre e comunque a Stalin, finiranno nei gulag jugoslavi e, quando finalmente negli anni ’50 potranno fare ritorno in Italia, si troveranno con l’ordine del PCI di non parlare della loro triste e surreale vicenda, perchè avrebbe creato un qualche imbarazzo per il partito: da bravi comunisti (per Guareschi forse “trinariciuti”) tale ordine lo rispettarono sicchè bisognerà arrivare ai nostri giorni perchè Giampaolo Pansa scopra tale assurda e triste vicenda, dandole adeguata pubblicità e rilievo.

Nell’ambito di questa analisi dei rapporti tra comunisti italiani e comunisti jugoslavi meriterebbe dedicare una qualche attenzione alle vicende degli Italiani “rimasti” nella Jugoslavia, rimasti proprio perché comunisti (altri scelsero di rimanere per motivi di ordine diverso), all’organismo loro dedicato messo in piedi dal regime di Tito(Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume) ed al suo ruolo di cinghia di trasmissione nei confronti del regime, ma anche di strumento di controllo del gruppo etnico italiano.

In questa realtà degli italiani “rimasti” quali furono gli effetti della rottura Stalin – Tito? E quanto delle successive “delusioni” va attribuito al fattore nazionale? In sostanza furono delusi dal comunismo titoista in quanto Italiani oppure in quanto Comunisti? Infine: la loro successiva uscita dal Comunismo si realizzerà passando – come sostiene Giuliano Ferrara – passando attraverso la porta dell’anticomunismo, o semplicemente puntando sull’altrui oblio?

Sarà il caso che, prima o dopo, qualcuno affronti in maniera adeguata tali problematiche. Potrà forse costituire un contributo non marginale ad affrontare in maniera non equivoca e non reticente, l’annosa questione dei rapporti tra “rimasti” ed esuli.

 

Il ruolo del Comunismo

Abbiamo analizzato e sottoposto a critica le diverse chiavi di lettura della vicenda del “terrore titino” e nessuna sembra offrire una spiegazione completa e convincente di quanto accaduto sessanta anni or sono in queste terre.

Resta ora da analizzare e da valutare l’ultima delle possibili interpretazioni, quella cioè propriamente ideologica, che individua nel Comunismo, in quanto tale, la regia, la responsabilità di quelle violenze, di quegli eccidi di quella e vera e propria tragedia vissuta dalle Genti Giulie e riassunta dai termini “Foibe” ed “Esodo”.

Vladimir Lenin lo aveva insegnato: la costruzione di uno stato comunista richiede di essere concimata con una dose adeguata di “terrore“. Sarà questa operazione iniziale che poi porterà frutti nel futuro, negli anni e magari nei decenni, perchè “il terrore” ha questa caratteristica intrinseca, di operare a lungo, lunghissimo termine nell’animo delle persone. Quello degli inizi continuerà dunque ad essere efficace e funzionale al permanere dello Stato Comunista (tutt’al più richiederà, di volta in volta, qualche adeguato richiamo).

I seguaci di Lenin, in tutte le parti del mondo, in tutti i diversi momenti storici, si sono sempre attenuti a tale insegnamento del loro maestro.

Il “terrore” da essi realizzato ha seguito degli schemi ben precisi; primo fra tutti quello di utilizzare , di “cavalcare” conflitti preesistenti, piuttosto che andarne a creare di nuovi.

Così sempre per considerare la primavera del ’45, in Emilia Romagna agrari e preti furono vittime della violenza di braccianti ed anticlericali. Ma le fila di quella violenza erano chiaramente nelle mani del Partito Comunista che, proprio su quel terrore, costruì quell’egemonia politica che tutt’ora è operante.

E nel triangolo industriale, pressocchè nella stessa epoca, furono gli operao a gettare nei forni capetti e dirigenti. Anche in tali situazioni il partito comunista non andava ad inventare un conflitto ex novo, ma utilizzava per i suoi fini uno preesistente.

Ai confini orientali d’Italia il conflitto preesistente non era quello di classe o quello religioso, era piuttosto quello etnico, tra Italiani e Slavi. Ed i Comunisti provvedono a gestirlo , a “cavalcarlo”. Il tutto in piena armonia tra i Comunisti di Togliatti e i Comunisti di Tito.

Nelle Foibe finiscono dunque in prevalenza Italiani, ma tra gli infoibati ci sono anche Sloveni e Croati (nonchè Tedeschi e Neozelandesi) e, per quanto concerne gli infoibatori, sicuramente in larga maggioranza erano Slavi, ma non mancavano tra di essi anche gli Italiani.

Certo è che nelle Foibe non venivano gettati Comunisti (Italiani o Croato o Sloveni che fossero) e che tra gli Infoibatori non c’era nessuno che fosse qualificato come anti comunista.

E’ sempre la regia di un organismo, come il Partito Comunista, che spiega la sistematicità attraverso cui il “terrore” trova attuazione, la scientificità con la quale si punta agli uomini del CLN e comunque a chiunque possa essere di disturbo nel nuovo regime che sta nascendo. E accanto a tale lucidità quella adeguata dose di casualità irrazionale che sola riesce a far sentire tutti sotto la cappa della paura.

E’ sempre la chiave di lettura ideologica che spiega, senza difficoltà di sorta, anche la persecuzione religiosa: perfettamente congeniale a dei Comunisti, anche se Sloveni o Croati.

Nelle oltre tre ore del film “Il cuore nel pozzo” c’è un grande, grandissimo assente, c’è una sorta di buco nero nella storia: il termine Comunismo non viene mai nominato, neppure una sola volta.

Forse a dimostrazione di un fatto: per mezzo secolo è stato pressocchè proibito parlare di Foibe e di Esodo, oggi finalmente si può farlo a condizione però di non menzionare chi porta la responsabilità di quella tragedia, vale a dire il Comunismo.